All’alba del 2025 il futuro appare diverso rispetto agli scenari di dodici mesi fa
Cambiamenti geopolitici accelerati, governo dei peggiori, sostenibilità a rischio, ma anche progressi nelle tecnologie e nella coscienza collettiva: i fatti del 2024 hanno cambiato la nostra visione del domani.
Una doverosa premessa: le percezioni sono sempre soggettive e quindi non vi sto annunciando delle verità, ma invece, nello spirito di questo sito, vi propongo spunti di discussione sulla base del lavoro che abbiamo svolto in un anno per FUTURAnetwork e delle impressioni che ne ho ricavato. Ma il futuro percepito è sempre figlio delle esperienze del passato e soprattutto del presente: il 2024 è stato un anno di profondi cambiamenti che influiscono sul nostro modo di guardare al domani. Alcuni di questi sviluppi sono, per usare un understatement, “sfidanti”, insomma negativi. Però ci sono anche segnali positivi, tessere che compongono un mosaico diverso da come potevamo immaginare il futuro dodici mesi fa. Parafrasando una metafora nautica di Enrico Giovannini, “quando Eolo soffia contro la barca, non basta tenere la barra dritta, ma devi andare di bolina, con un’andatura a zig-zag che ti consenta comunque di cogliere la spinta del vento”.
L’accelerazione dei cambiamenti geopolitici
Lorché pifferi e tamburi
par che assordino la terra
siam felici, ch'è la guerra
gioia e vita al militar.
Vita gaia, avventurosa,
cui non cal doman né ieri,
ch'ama tutti i suoi pensieri
sol nell'oggi concentrar.
Le parole cantate dal coro al termine del terzo atto de “La forza del destino” sembrano inneggiare alla guerra ma in realtà ne irridono l’esaltazione e ne denunciano la stoltezza: il bisogno di guardare a un presente difficile e avventuroso cancella sia la memoria del passato sia la possibilità di guardare al futuro. E non c’è dubbio che è diventato molto difficile ragionare sulla geopolitica nei prossimi decenni nel momento in cui la “guerra mondiale a pezzi” denunciata da tempo da Papa Francesco rischia di diventare un vero conflitto globale.
Un anno fa, due importanti guerre erano già scoppiate, in aggiunta alla cinquantina di conflitti armati che abitualmente funestano il Pianeta. Però nella tragedia tutto sembrava come in un fermo immagine: nessuna prospettiva di soluzione per il conflitto scatenato dall’invasione russa dell’Ucraina, tutto bloccato in Medio Oriente con azioni e risposte sempre più sanguinose e un progressivo peggioramento di una crisi che dura ormai da quasi ottant’anni. Insomma, una situazione geopolitica sostanzialmente immutabile o che comunque volgeva lentamente al peggio.
Mi sembra invece che il quadro possa mutare più rapidamente del previsto per almeno tre fattori. Il primo è certamente il prossimo avvento alla Casa Bianca di Donald Trump: un presidente imprevedibile, soprattutto in politica estera, ma che comunque nel bene o nel male sembra deciso a scuotere lo scacchiere mondiale, dalla Nato all’Ucraina, dal Medio Oriente ai rapporti con la Cina. Gli effetti sono difficili da prevedere, anche perché non è detto che alle sparate elettorali corrisponderanno le azioni concrete, ma il ritorno di “the Donald” è certamente un fattore di movimento.
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Il secondo segnale di cambiamento rapido è certamente la caduta del regime baathista a Damasco, non solo per l’importanza della Siria, ma perché conferma il progressivo indebolimento dell’alleanza sciita che, dall’Iran agli Hezbollah libanesi, dall’Iraq agli Huti dello Yemen, dava forza ad Hamas e bloccava l’intero Medio Oriente. Le folli pretese dell’estrema destra israeliana di espellere gli arabi dall’intera Palestina e certi comportamenti del governo Netanyahu a Gaza e in Cisgiordania sono certamente da condannare, ma non c’è dubbio che un grande cambiamento è in corso in una situazione bloccata da decenni.
Il terzo fattore è il rafforzamento dell’egemonia cinese sul Sud del mondo, a fronte di un Occidente troppo preso dai suoi sensi di colpa per contrastarla adeguatamente. L’allargamento della rete dei Brics sancita nella riunione di novembre a Pechino, pur con l’abbandono dell’Argentina di Milei, conferma che il dominio americano si è sfaldato più rapidamente del previsto senza che le altre componenti del cosiddetto Occidente, a cominciare dall’Europa, siano in grado di puntellarlo se non con la traballante alleanza a sostegno del governo di Kiev.
Insomma è molto probabile che i cambiamenti di scenario geopolitico a cui si andrà incontro nei prossimi anni siano molto più rapidi e significativi di quello che ci si poteva aspettare fino a qualche mese fa, ovviamente con la possibilità di eventi imprevedibili, come l’escalation di un conflitto che coinvolge qualcuna delle numerose potenze che oggi nel mondo possiedono ordigni nucleari. O magari un collasso dell’autocrazia cinese che per qualche commentatore ha i piedi di argilla. Un cigno insomma, non necessariamente nero.
La possibile ripresa della collaborazione internazionale, nonostante Trump
Nelle vicende geopolitiche del 2024 ci sono stati due sicuri perdenti: l’Onu e l’Europa. Le Nazioni Unite non soltanto non sono riuscite a incidere sulle crisi in atto, ma hanno spesso dato l’impressione di una posizione di parte, condizionata dalle maggioranze del Palazzo di vetro, che hanno indotto il segretario generale Antonio Guterres a prendere talvolta posizioni non equidistanti.
L’Europa non è riuscita ad avere una politica univoca, con posizioni diverse sia sull’Ucraina che sul Medio Oriente tra i diversi Stati dell’Unione. Anche all’interno della prima commissione von der Leyen i commissari hanno assunto posizioni diverse.
Tuttavia, alcuni fenomeni positivi avvenuti in questi mesi possono far sperare in una ripresa della collaborazione multilaterale e in una politica più attenta all’esigenza di “non lasciare nessuno indietro” dichiarata nell’Agenda 2030 e alla tutela del Pianeta, nonostante l’arrivo di Trump alla Casa Bianca.
Il Summit of the Future che si è svolto al Palazzo di vetro nel settembre scorso non ha raccolto molta attenzione da parte dei giornali italiani, anche perché, come ho già detto, l’Onu in questo momento non gode di molta credibilità. Eppure, i tre documenti approvati in quella riunione, che l’ASviS ha tradotto e riproposto in italiano sui suoi siti, possono dare un nuovo impulso al multilateralismo anche perché giungono al termine di una complessa elaborazione di proposte di riforma della struttura e del ruolo delle organizzazioni internazionali. In particolare i 56 impegni sottoscritti da 143 governi proiettano i valori dell’Agenda 2030, i suoi 17 Obiettivi e 169 target, in una prospettiva che arriva fino a metà secolo, ponendo le basi per il rinnovo aggiornato dei Sustainable development goals (SDGs) per altri quindici o vent’anni. I nuovi impegni comuni sono stati sottoscritti anche dall’Italia. Ma, come dice ironicamente Giovannini questa volta facendo ricorso all’aeronautica, “le compagnie aeree dovrebbero riparare gli impianti di pressurizzazione dei voli internazionali, perché i nostri governanti quando arrivano a Roma hanno stranamente dimenticato gli impegni sottoscritti a New York o a Bruxelles”.
Tra gli elementi di speranza per il futuro del multilateralismo possiamo inserire anche l’Unione Europea, nonostante le apparenze. Anche se i nuovi equilibri del Parlamento Ue sembrano spostati su posizioni più conservatrici, Ursula von der Leyen per il suo secondo mandato ha sostanzialmente confermato gli impegni del Green deal. Inoltre le analisi di Mario Draghi ed Enrico Letta in preparazione della nuova legislatura europea hanno indicato chiaramente quale deve essere la strada da seguire per non condannare l’Europa all’irrilevanza e all’impoverimento: una strada non facile, ma mi sembra (e spero che il mio non sia solo wishful thinking) che ci sia nelle élite europee (ma purtroppo non ancora nell’opinione pubblica) una crescente consapevolezza del fatto che l’integrazione europea è l’unica strada possibile.
Terzo elemento positivo, la crescita globale della società civile su valori comuni: un desiderio di contare di più che si è visto, per esempio alla Cop 29 sul clima di Baku, con la comune denuncia da parte delle Ong dell’eccessivo potere di lobbying delle società produttrici di energie fossili e la richiesta di escludere o delimitare i lobbisti nelle prossime riunioni, dal Brasile in poi, che saranno comunque meno condizionate dagli interessi dei petrolieri.
Anche il Forum internazionale che si è tenuto a Roma in novembre su iniziativa dell’Ocse, sulle misure del benessere collettivo “oltre il Pil”, ma anche su come migliorare la qualità della vita, ha visto la partecipazione di più di mille soggetti da tutto il mondo con una forte presenza dei rappresentanti della società civile a conferma della ricerca di comuni valori.
Insomma guardando al futuro non si dovrà soltanto ragionare sul ruolo degli Stati, delle organizzazioni internazionali o delle imprese multinazionali, ma anche tener conto del nuovo protagonismo di quella parte dell’opinione pubblica che condivide valori diventati globali e si organizza per affermarli.
La kakystocracy e la sfiducia nella democrazia
Italia sì, Italia no
Italia sì, uè
Italia no, uè uè uè uè uè
… Perché la terra dei cachi è la terra dei cachi.
Non so se Elio e le Storie Tese, quando presentarono “La terra dei cachi” al Festival di Sanremo del 1996 vincendo il premio della critica, avessero in mente il termine greco antico kakistos (κάκιστος), che significa "il peggiore". Fatto sta che il termine kakystocracy, usato per la prima volta in Inghilterra nel XVII secolo per denunciare un cattivo governo, è stato scelto come “parola dell’anno 2024” dall’Economist LINK SOFIA. Il riferimento è chiaro: il modo in cui Donald Trump sta formando la sua squadra di governo scegliendo fedeli vendicativi, incompetenti e complottisti. Ma il peggioramento della qualità di governo è una caratteristica che si estende anche ad altri Paesi, dalla Turchia alla Corea del sud, per non parlare del Venezuela e Della Tunisia. Cala dunque la fiducia nella democrazia e nella capacità dell’Occidente di affermare quei valori che dopo la caduta dell’Unione sovietica sembravano destinati a imporsi in tutto il mondo. Non è un caso che il rapporto Censis di quest’anno denunci come due terzi degli italiani ritengono che i valori occidentali siano ormai destinati a perdere. Cito a questo proposito una sintesi che ho chiesto a ChatGPT4:
- L'84,4% degli italiani ritiene che i politici pensino solo a sé stessi.
- Il 68,5% considera le democrazie liberali occidentali non più funzionanti.
- Il 71,4% vede l'Ue come un "guscio vuoto" destinato a sfasciarsi senza riforme radicali.
- Il 70,8% degli italiani attribuisce all'Occidente la colpa dei mali del mondo, accusandolo di arroganza nell'imposizione dei propri modelli economici e politici.
- Il 66,3% ritiene l'Occidente, con gli Usa in testa, responsabile dei conflitti in Ucraina e Medio Oriente.
I dati del Censis riguardano l’Italia, ma dai risultati elettorali si può dire che analoghi sentimenti di sfiducia albergano anche nell’opinione pubblica di altri Paesi sviluppati. Insomma, se si pensa che i sistemi politici ed economici sui quali si è retto l’Occidente non funzionino più, tanto vale affidarsi al “governo dei cachi” o dei “cattivi” che magari ci toglieranno un po’ di libertà, ma affronteranno senza tanti scrupoli i tempi difficili che ci attendono. Un modo di vedere a mio parere disastroso, ma da cronista prendo atto della sua diffusione.
Sostenibilità in secondo piano?
In molti sondaggi, si rileva una crescente preoccupazione, soprattutto da parte dei giovani, per la crisi climatica, il deterioramento dell’ambiente, l’insostenibilità della situazione sociale e la crescita delle disuguaglianze. Ma c’è un paradosso: diversi segnali ci indicano che l’attenzione alla sostenibilità, intesa come scelta di risposta attiva alle crisi, è in calo. La raccolta di risparmio da parte dei fondi di investimento che privilegiano criteri Esg (environment, social, governance), di rispetto per l’ambiente, gli stakeholder dell’impresa, la trasparenza, è in calo rispetto alla raccolta dei fondi tradizionali: l’insicurezza del lavoro e l’inflazione di questi anni hanno cambiato la percezione delle priorità.
Insomma, anche se le due intelligenze artificiali che abbiamo fatto dialogare su FUTURAnetwork ci dicono che proseguendo di questo passo il mondo sarà un posto infelice per almeno la metà dell’attuale popolazione, forse anche destinata all’estinzione, oggi più che mai le preoccupazioni immediate prevalgono sullo sguardo a lungo termine. Quindi il futuro visto dal 2025 non è solo diverso da quello immaginato dodici mesi fa, ma è anche più annebbiato dalle paure dell’oggi.
D’altra parte, è sempre più evidente che la transizione ecologica è un processo necessario ma molto impegnativo, con costi sociali immediati, soprattutto se mal gestita, a fronte dei vantaggi futuri. La crisi dell’auto, esplosa nel corso del 2024, mostra l’incrociarsi di fattori diversi, dai cambiamenti nelle abitudini di consumo alle obiettive difficoltà di un passaggio accelerato ai mezzi a propulsione elettrica. Si è inasprito il confronto tra chi pensa di poter rallentare il processo, soprattutto per ragioni elettoralistiche, e chi invece sottolinea l’ineluttabilità del cambiamento che comunque richiede un’attenta gestione per ridurne i costi sociali. Purtroppo in Italia non vediamo tavoli di lavoro per risolvere le questioni tecniche e definire uno scadenzario accettabile, ma solo un procedere per slogan, che crea ulteriore confusione nell’opinione pubblica.
Il progresso tecnologico: più sani, più liberi dal lavoro, più spaventati
Non tutto va male però nella nuova visione delle dimensioni del futuro: il 2024 è stato un anno di grande attenzione ai progressi della medicina, tanto da indurre l’Economist a dedicare una copertina a questo tema. La sconfitta del cancro (o la sua prevenzione?) potrebbe arrivare in un tempo non lontano e la previsione di farmaci personalizzati per sconfiggere l’invecchiamento delle cellule potrebbe prolungare per decine di anni l’età adulta prima della vecchiaia. Anche se permane la paura di nuove pandemie (la recente influenza sviluppatasi in Congo ci ha procurato qualche brivido) l’evoluzione della medicina potrebbe davvero cambiare la situazione dell’umanità giàprima del 2050.
Ci siamo accorti che anche l’intelligenza artificiale è foriera di grandi cambiamenti. Nel 2024 il suo uso si è fortemente esteso non più solo tra gli smanettoni, ma anche negli studi professionali, nei giornali, nella vita comune come motore di ricerca più sofisticato. Alimenta però diverse paure: che sostituisca una parte del lavoro umano di basso livello, più i white collar che non i blue collar, gli impiegati piuttosto che gli idraulici; che possa prendere strade inaspettate (di recente una AI ha consigliato due ragazzi di suicidarsi perché dannosi al Pianeta); che prevalga sull’intelligenza umana. Il dibattito è aperto, ma finora si è cercato di regolamentare l’uso dell’intelligenza artificiale piuttosto che di valutarne l’inevitabile impatto, mentre questo è un elemento fondamentale di qualsiasi studio che riguarda gli scenari futuri.
Il degrado cognitivo e le incognite del mondo giovanile
Non tutti sono d’accordo sulla scelta dell’Economist per la parola dell’anno. Per esempio, mi segnala ChatGPT4,
L'Oxford English Dictionary ha selezionato "brain rot" come parola dell'anno, riferendosi al deterioramento mentale attribuito al consumo eccessivo di contenuti online di bassa qualità.
Letteralmente brain rot significa cervello che marcisce. Questo deterioramento cognitivo (non parliamo di demenza senile ma di persone nel fiore degli anni) è stato oggetto di molte discussioni nel corso del 2024; confermato per l’Italia dal rapporto Censis, ma anche per il nostro e per altri Paesi, dall’indagine Piaac dell’Ocse sulla preparazione della popolazione adulta nella comprensione di un testo, nella capacità di calcolo, nella risoluzione di un problema logico.
Per citare ancora Giovannini nel più recente “Scegliere il futuro”, di fronte a dati che indicano per un terzo degli adulti una ricaduta in una sorta di analfabetismo di ritorno, altri Paesi avrebbero posto questo problema al centro del dibattito pubblico, mentre in Italia se n’è parlato per un giorno nei paginoni di alcuni quotidiani, poi tutto è caduto nel dimenticatoio. Eppure, una commissione di studio presieduta dal linguista Tullio De Mauro e nominata nel 2012 dallo stesso Giovannini quando era ministro del Lavoro del governo Letta insieme a Maria Chiara Carrozza (Istruzione), aveva fornito indicazioni importanti per modificare la situazione già allora disastrosa segnalata da una precedente indagine Piaac. Ma il governo Letta cadde poco dopo e nessuno degli esecutivi che si sono succeduti da allora ha ritenuto di affrontare il problema. Eppure l’incapacità di comprendere il mondo attuale da parte di una componente così numerosa della popolazione italiana incide sulle scelte democratiche, sulla visione del futuro, ma anche sulla capacità di aggiornarsi per affrontare l’evoluzione del mondo del lavoro derivandone inevitabilmente frustrazione e rabbia. Come intervenire, almeno sui giovani? Dalla citazione di un articolo sulla Stampa della scrittrice Viola Ardone ricaviamo la ricetta di un grande scrittore:
A Italo Calvino in una delle sue rare interviste televisive nel 1981 vengono chiesti tre talismani per gli anni 2000 e lui, oracolare e quasi imbarazzato dalla telecamera con una lentezza estenuante ci snocciola tre chiavi che sono forse la risposta ai ai deficit cognitivi della nostra epoca: “imparare delle poesie a memoria, fare dei calcoli a mano, combattere l’astrattezza del linguaggio con delle parole molto precise”: memoria, metodo, precisione sono davvero i tre talismani magici che possono traghettarci nel tempo futuro.
Tuttavia, continuando in questa doccia scozzese di notizie cattive e buone che condizionano la nostra attuale visione del futuro, va segnalato che nel 2024 è aumentata l’attenzione alla cosiddetta “Generazione Z”, cioè ai nati approssimativamente negli anni dal 1996 al 2012, che cominciano ora ad affacciarsi al mondo del lavoro e anche all’elettorato attivo. Molti articoli ci dicono che gli zoomers hanno spesso una visione diversa dalle generazioni che li hanno preceduti, meno spaventati di perdere il lavoro e più attenti alla qualità della vita, più ricchi in molti Paesi (ma non in Italia) rispetto alle precedenti generazioni alla stessa età, con idee lontane da quelle dei loro padri il maggiore sensibilità ai temi che riguardano il futuro dell’umanità e del pianeta. Sono nati succhiando nuove tecnologie subito dopo il latte materno, e non sappiamo se questo è un bene o un male. Ma quattro quinti degli zoomers vivono nei Paesi emergenti o in via di sviluppo. Difficile dire quale sarà il loro impatto sul mondo che verrà ma certamente avranno un peso molto rilevante negli scenari dei prossimi decenni.
E noi? L’elenco dei cambiamenti di percezione sul futuro potrebbe continuare, ma ci fermiamo qui. Il nostro compito come FUTURAnetwork non può che essere quello di continuare a raccogliere le tessere o meglio le “schegge”, per citare un nostro recente libro, che servono per delineare il mondo di domani.
Ma non basta osservare: siamo anche una componente dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile e siamo dunque impegnati, come “guardiani del futuro”, a contribuire a orientare le scelte verso il migliore dei mondi possibili.
Copertina: Ansa, "La forza del destino", la Scala 7 dicembre 2024