La grande partita in Oceania, tra rivalità Usa-Cina e azioni climatiche
Mentre rafforzano gli accordi commerciali e di sicurezza con le due superpotenze, gli Stati insulari ottengono un’importante vittoria presso il Tribunale internazionale del diritto del mare. La sentenza potrebbe avere un impatto sui futuri contenziosi sul clima.
Quando il 10 maggio 2024 l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha approvato una risoluzione per sostenere la richiesta della Palestina di diventare membro a pieno titolo dell’Onu, gli Stati Federati della Micronesia, Nauru, Palau e la Papa Nuova Guinea hanno votato contro, così come gli Stati Uniti e Israele. Tra i 25 Paesi astenuti, oltre all’Italia, ci sono state le Fiji, le Isole Marshall e Vanuatu. Questi piccoli Stati insulari dell’Oceania sono spesso allineati alle posizioni statunitensi nei contesti internazionali, come dimostrano le votazioni per le risoluzioni dell’Onu sul conflitto a Gaza. La regione è oggetto di una rivalità sempre più intensa tra Cina e Stati Uniti sia per la posizione geografica strategica sia per la presenza di risorse naturali fondamentali anche per la transizione ecologica. Gli Stati insulari dell’Oceania, inoltre, sono protagonisti importanti nel contrasto ai cambiamenti climatici che minacciano la loro stessa sopravvivenza.
In equilibrio tra Usa e Cina
Port Moresby, la capitale della Papua Nuova Guinea, “è tornata a essere un oggetto del desiderio geopolitico, nell’attrito costante tra gli Stati Uniti e la Cina”, ha notato il settimanale inglese The Economist dopo la visita, nell’arco di pochi mesi del 2023, di diversi leader mondiali, tra cui il presidente francese Emmanuel Macron, il primo ministro indiano Narendra Modi e il segretario di Stato Usa Antony Blinken. La Papua Nuova Guinea ha un’importanza notevole anche dal punto di vista delle risorse naturali: è ricca di oro, nickel (necessario per le batterie) e rame e sta diventando uno dei maggiori esportatori mondiali di gas liquefatto.
I frequenti conflitti tra le oltre 300 tribù indigene della Papua Nuova Guinea, causati da dispute territoriali e scarsità di risorse idriche e alimentari, destabilizzano la stabilità del Paese. Dopo gli scontri che dall’inizio dell’anno hanno causato decine di morti, a metà giugno del 2024 l’Australia ha annunciato una serie di nuove iniziative per rafforzare la sicurezza interna e l’applicazione della giustizia in Papua Nuova Guinea (a dicembre del 2023 i due Stati avevano già firmato un accordo di sicurezza). Anche la Cina nei mesi precedenti si era offerta per supportare la Papua Nuova Guinea nel garantire la stabilità interna, ma l’accordo finora non si è concretizzato.
Anche gli Stati Uniti a maggio del 2023 avevano firmato un accordo di difesa e di cooperazione marittima con la Papua Nuova Guinea. L’intesa è stata considerata da molti analisti come una risposta diretta a quella raggiunta dalla Cina e dalle Isole Salomone nel 2022. Questo accordo, che prevede la possibilità per Pechino di inviare forze militari e di polizia nelle Isole Salomone e di stabilire basi navali per il rifornimento e i trasferimenti di equipaggio, è il risultato di un avvicinamento tra la Cina e le Isole Salomone iniziato nel 2019, quando i due Paesi hanno formalizzato le proprie relazioni diplomatiche e le Isole Salomone hanno interrotto quelle con Taiwan. Per contrastare la crescente influenza cinese, nel 2023 gli Stati Uniti hanno riaperto la propria ambasciata nelle Isole Salomone dopo 30 anni di assenza.
L’influenza cinese nell’arcipelago non si limita agli accordi di cooperazione per la sicurezza: un’inchiesta pubblicata nel 2023 dal Guardian e dall’organizzazione di giornalismo investigativo Organized crime and corruption reporting project ha rivelato come il Solomon Star, uno dei principali quotidiani locali, abbia ricevuto finanziamenti dalla Cina per “promuovere la verità sulla generosità della Cina e le sue reali intenzioni nel supportare lo sviluppo” del Paese. A fine del 2023 gli Stati Uniti hanno annunciato di voler supportare l’informazione libera e indipendente nella regione, ritenendola un elemento fondamentale per la democrazia.
La crescente rilevanza cinese nel Pacifico, e il continuo aumento delle spese militari della Cina, hanno portato a un generale rafforzamento delle alleanze tra gli Stati che hanno interesse nella regione. Negli ultimi anni, ad esempio, l’India, gli Usa, l’Australia e il Giappone hanno rilanciato le attività del Quad (Dialogo quadrilaterale di sicurezza), un’alleanza informale di cooperazione nata nel 2007 per contenere l’espansionismo cinese nel Pacifico. Nel 2021 l’Australia, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno firmato un accordo militare, chiamato Aukus dall’acronimo di Australia, United Kingdom e United States, con lo scopo di condividere tecnologie per la difesa navale e, implicitamente, contrastare la Cina. Il piano prevede, tra le altre misure, di dotare l’Australia di sottomarini a propensione nucleare, più veloci e strategici di quelli tradizionali, a partire dalla fine di questo decennio.
Sopravvivere al clima che cambia
Oltre al ruolo centrale nella rivalità tra Cina e Stati Uniti, gli Stati insulari dell’Oceania stanno acquisendo un ruolo sempre più importante anche per l’azione climatica, a causa della loro vulnerabilità alle conseguenze dei cambiamenti climatici. Nella primavera del 2023, ad esempio, le Nazioni unite hanno approvato una risoluzione per chiedere alla Corte internazionale di giustizia, il principale organo giudiziario dell’Onu che disciplina le controversie tra Stati, un parere consultivo (advisory opinion) sugli obblighi legali dei Paesi nel contrasto ai cambiamenti climatici. La proposta era stata avanzata da Vanuatu, uno Stato insulare dell’Oceania di 300mila abitanti. Nel 2022 inoltre Vanuatu, intervenendo all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, aveva chiesto agli Stati di negoziare un trattato di non proliferazione dei combustibili fossili.
A dicembre del 2022 la Commissione dei piccoli stati insulari sul cambiamento climatico e il diritto internazionale, un gruppo di nove Stati insulari guidati da Tuvalu, Antigua e Barbuda, aveva chiesto al Tribunale internazionale per il diritto del mare (Itlos) un parere sugli obblighi degli Stati di proteggere gli ecosistemi marini in base alla Convenzione Onu sul diritto del mare. Il Tribunale, a maggio del 2024, ha concluso che i 168 Stati firmatari della Convenzione devono legalmente prevenire, ridurre e controllare con ogni mezzo necessario le emissioni di gas serra in quanto costituiscono una forma di inquinamento per gli ambienti marini. Anche se non vincolante, il parere del Tribunale è una vittoria per gli Stati insulari e può essere alla base di nuovi contenziosi climatici.
L’azione degli Stati insulari dell’Oceania si estende anche ad altri ambiti. Nel 2022, ad esempio, Palau ha presentato l’Alliance of countries calling for a deep-sea mining moratorium, una coalizione di 27 Paesi che richiedono una sospensione dello sfruttamento minerario dei fondali abissali. Tra i primi Paesi ad aderire ci sono stati tre Stati insulari dell’Oceana (Fiji, Samoa e gli Stati Federati della Micronesia); mentre dal 2018 Vanuatu ha adottato alcune misure per ridurre la quantità di rifiuti in plastica e l’inquinamento delle proprie acque, vietando ad esempio prodotti in plastica monouso come le cannucce e le posate.
Altri Paesi, minacciati dalle conseguenze del cambiamento climatico e dall’innalzamento del livello del mare, stanno cercando soluzioni per le persone che rimarranno senza casa. Nel 2014, ad esempio, Anote Tong, allora presidente delle Kiribati, una repubblica insulare nel Pacifico centrale, ha comprato dei terreni nelle isole Fiji. Le stesse Fiji, tuttavia, hanno adottato un piano per ricollocare alcuni villaggi a rischio per gli effetti del cambiamento climatico: sei sono già stati spostati, mentre altri 42 sono stati individuati per essere ricollocati nei prossimi cinque o dieci anni. Tuvalu, che rischia di scomparire entro la fine del secolo a causa dell’innalzamento del livello del mare, a novembre 2023 ha stretto un accordo con l’Australia che si è impegnata a stanziare fondi per l’adattamento e ad accogliere ogni anno 280 abitanti di Tuvalu, garantendo loro asilo climatico e accesso a istruzione, lavoro e protezione sociale.
Copertina: Vicki Garside/unsplash