Donne e bambini prime vittime in guerra
Un medico presente nei luoghi di conflitto apre uno squarcio su un aspetto poco conosciuto. E accusa il femminismo di non occuparsene abbastanza.
È stato in Bosnia, in Medio Oriente, in America Latina e ha visto con i propri occhi la distruzione che le guerre lasciano sul campo. Era a Srebrenica quando hanno aperto le fosse comuni, un’esperienza che lo ha profondamente segnato.
Maurizio Bonati è medico, è stato Responsabile del dipartimento di Salute pubblica e del Laboratorio per la salute materno-infantile dell’Istituto Mario Negri di Milano, consulente per l’Organizzazione mondiale della sanità e collaboratore di organizzazioni non governative per progetti sanitari in Paesi con scarse risorse. Direttore di redazione della rivista Ricerca&Pratica nonché autore di diverse pubblicazioni, ha di recente dato alle stampe per Il Pensiero Scientifico Editore un volume dal titolo Il cronico trauma della guerra. Donne e bambini le prime vittime.
Inevitabile quindi parlare con lui di quell’arma odiosa che tutti gli eserciti invasori usano contro le donne: lo stupro.
Lo si è visto anche di recente. Il New York Times ha confermato con testimonianze inequivocabili quello che molti stentavano e stentano tuttora a credere, ovvero stupri di massa delle donne israeliane da parte di Hamas.
Possibile che questa pratica barbara sia a tutt’oggi utilizzata?
“La guerra è violenza e la violenza si manifesta in tanti modi”, afferma Bonati. “Non solo: la guerra è conquista, e la conquista si dimostra con l’appropriarsi di terre altrui ma anche con il possesso delle donne. Per gli aggressori la distruzione deve essere totale, quindi distruggono tutto e soprattutto quello che gli aggrediti hanno di più caro, la casa e la famiglia; vogliono dimostrare che le vittime non sono nessuno e vanno annientate in tutti i modi possibili”.
A questo, continua il medico, “possono aggiungersi elementi culturali”, come il ritenere le donne esseri inferiori, con minori diritti e minor valore degli uomini.
Violenza sulle donne: senza prevenzione non se ne esce
Molto diffusi, anche tra i giovani, gli stereotipi di genere. E se ci sono dei figli le donne non denunciano per salvaguardare la famiglia.
In alcune guerre operano anche milizie mercenarie, come la Wagner in Ucraina o le Tigri di Arkan nell’ex Jugoslavia, che “sono esenti da qualsiasi vincolo e con i loro atti mirano ad annientare sentimenti e princìpi di una comunità”.
Un altro aspetto, del tutto differente, ma che in qualche modo vede coinvolte le donne in qualità di madri, è il calo della fecondità come conseguenza delle guerre.
Qualche anno fa Bonati è tornato in Bosnia per verificare le condizioni di salute delle popolazioni e ha potuto toccare con mano come durante la ricostruzione questo tema non venga considerato importante e come ci sia scarsa attenzione per i servizi riguardanti l’area materno-infantile.
Anche in Ucraina, dove tuttora è in corso una guerra, la natalità risulta dimezzata.
Del resto, sottolinea il medico, “la componente femminile risulta marginale sia a livello di comando negli eserciti sia nei luoghi dove si contratta la pace”.
Un raro esempio positivo è quello di Gloria Arias Nieto, pediatra e direttrice dell’ospedale pediatrico di Bogotà, che ha svolto e svolge un ruolo importante nelle trattative di pace con le Farc in Colombia. Coinvolgendo altre donne, tra cui alcune giuriste, è riuscita a incidere anche sugli aspetti legislativi, promuovendo nei villaggi il lavoro femminile e ritardando l’inserimento lavorativo dei minori.
Se il ruolo delle donne nella risoluzione dei conflitti è tuttora marginale è anche perché “il femminismo a livello globale non si occupa a sufficienza di questi problemi”, è l’amara constatazione.
E ciò nonostante il tema sia già stato avanzato nel 1915 in occasione della Prima guerra mondiale da un testo di Mary Sargant Florence e Charles Key Odgen (Militarism versus feminism) e nonostante nel 2023 si sia costituito il Global women for peace united against Nato che si sta mobilitando affinché aumenti il ruolo delle donne nei processi di pace, grazie al rispetto delle intenzioni della risoluzione 1325 delle Nazioni Unite del 2000 (“Donne, pace, sicurezza”) sulla partecipazione delle donne ai negoziati.
Sul ruolo poco incisivo del femminismo non è del tutto d’accordo Anna Maria Romano, presidente di Uni Global finance e responsabile Politiche internazionali di Cgil Toscana, oltre che attivista della rete Donne per la pace.
Romano cita diverse associazioni che a livello globale si occupano di queste tematiche, per esempio la Nobel women's initiative, fondata da sei vincitrici del Premio Nobel per la pace, la Women's international league for peace and freedom, fondata nel 1915, una delle organizzazioni più antiche del mondo, o la statunitense Codepink.
Nel campo dell’informazione poi si nota una presenza più numerosa di giornaliste come inviate nei teatri di guerra.
È un dato di fatto, però, che nei conflitti che purtroppo occupano ormai quasi quotidianamente le cronache, non si vedono mai citate donne come possibili mediatrici nei processi di pace.
“Ma questo è un problema più generale, che ha a che fare con il rapporto tra le donne e il potere”, sostiene Romano. “Stiamo cercando di conquistare la parità con grande fatica, anche perché spesso le donne che arrivano ai posti di comando adottano modelli maschili. L’indice sulla gender equality sviluppato dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige) mostra che negli ultimi dieci anni il ‘potere’ è l’area in cui sono stati compiuti maggiori progressi, ma è anche quella in cui il divario rimane più ampio. Il divario era tale che i passi avanti sono ancora nettamente insufficienti”.