Un congedo di paternità uguale alle madri
Lo chiede il 57% dei manager under 45, secondo un’indagine Ipsos per Manageritalia riguardante la parità di genere nelle aziende.
Andrea Bandini, 37 anni, un figlio di poco più di due, manager in una multinazionale con 1800 dipendenti a livello globale, sposato con una dirigente di azienda nel settore della moda, pianifica con la moglie la settimana in modo da conciliare gli impegni lavorativi di entrambi nella gestione familiare.
Fabrizio Marazzi, 49 anni, due figli di 11 e 15, manager in una multinazionale con 500 dipendenti nel settore delle ricerche di mercato, usa i due giorni settimanali di smartworking di cui usufruisce per trovare momenti di condivisione genitoriale con la moglie, socia nell’azienda della propria famiglia di origine.
Potrebbero essere due dei 547 dirigenti italiani (58% uomini, 41% donne) intervistati da Ipsos per Manageritalia nell’ambito di un’indagine avente lo scopo di indagare la parità di genere nelle aziende e la condivisione della genitorialità.
Al loro racconto abbiamo affidato il compito di rendere meno freddi i dati della ricerca, che tuttavia hanno riservato alcune sorprese piuttosto confortanti, pur in un panorama di luci e ombre.
La prima riguarda l’alta percentuale di dirigenti consapevoli del problema: il 78% considera la parità di genere un problema reale, ma la percentuale arriva all’80% tra i manager under 45.
Ancora più incoraggiante la percentuale di coloro che ritengono giusto che il congedo di paternità sia obbligatorio: il 61% degli uomini, ma il dato sale all’85% tra coloro che hanno meno di 45 anni, un dato perfino superiore alla percentuale (83%) delle manager donne.
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Secondo le ricerche occorre più occupazione stabile, un’equa suddivisione del lavoro domestico e un cambio di paradigma nella narrazione.
Attualmente in Italia il congedo di paternità è di soli 10 giorni, un’inezia soprattutto se confrontato con altri Paesi come quelli del nord Europa o la vicina Spagna.
La maggioranza degli intervistati (68% e 67%), con uno stacco di circa 10 punti percentuali in più per le manager donne, ritiene anche che un ampliamento del congedo attuale favorirebbe percorsi di carriera più paritari tra i due sessi e una maggiore occupazione femminile.
Ma di quanto bisognerebbe aumentarlo? Il 44% ritiene che sarebbe opportuno equipararlo a quello di maternità, percentuale che sale al 57% tra i giovani manager.
“Il momento della nascita è quello più difficile”, conferma Andrea Bandini, “io ho avuto la fortuna di poter usufruire di tre mesi di congedo retribuiti al 100% grazie alla policy in atto nella azienda per cui lavoro. Questo ha aiutato tantissimo non solo nella gestione pratica della routine quotidiana, ma anche per il piacere di poter stare con mio figlio e poter creare da subito un legame con lui. Oltretutto mia moglie, che è thailandese, non poteva avere il supporto dei suoi genitori e trattandosi del primo figlio sarebbe stato per lei un momento davvero un po’ complicato”.
Per Fabrizio Marazzi al momento della nascita dei suoi figli avrebbe aiutato molto avere un nido all’interno dell’azienda. Adesso che i figli sono cresciuti sarebbe invece utile una palestra dover poter praticare attività sportiva e potersi così ritagliare dei momenti per sé, un lusso quando devi conciliare un’attività lavorativa di livello elevato con gli impegni familiari.
“Per me l’ostacolo maggiore è il fattore tempo”, racconta, “esco alla mattina presto e torno verso le 19,30, a volte per pranzo mangio solo qualcosa al volo e mi manca molto fare attività sportiva”.
Dalle interviste a entrambi i manager emerge tutto sommato una situazione di genitorialità condivisa: i compiti di accudimento e di gestione della casa vengono equamente ripartiti e laddove non riescono ad arrivare i genitori si ricorre a un aiuto esterno.
Ma analizzando i dati dell’indagine, correttamente scorporati in base al sesso degli intervistati, emerge una diversa percezione a seconda che gli interpellati siano uomini o donne: queste ultime infatti ritengono in maggior misura che le conseguenze dell’arrivo di un figlio siano più penalizzanti per la componente femminile della coppia, la quale in molti casi deve ritardare il rientro al lavoro o è costretta a ricorrere al part time.
Riguardo ai principali ostacoli sul luogo di lavoro emerge dall’indagine una percezione diversa tra uomini e donne: mentre i primi indicano soprattutto la loro maggior flessibilità per spostamenti e orari di lavoro e le maggiori assenze delle colleghe per l’assistenza ai figli o ai genitori anziani, le seconde indicano al primo posto il pregiudizio sociale che vede gli uomini come più adatti a ricoprire ruoli di alto livello.
“Questo aspetto culturale riguarda soprattutto l’Italia e purtroppo poi si riverbera anche sulle politiche per la genitorialità”, sostiene Bandini, che nei suoi viaggi di lavoro all’estero ha l’opportunità di venire a contatto con mentalità e approcci differenti dai nostri.
L’internazionalità, ancor più delle dimensioni dell’impresa, sembra essere un fattore fondamentale per quanto riguarda la parità di genere in azienda.
Ne è convinto Fabrizio Marazzi: “Non si parla più ormai di inclusione ma di parità vera e propria nell’accesso alla carriera, ovviamente sempre nel rispetto del fattore meritocrazia. Per quanto riguarda la mia esperienza, da una decina d’anni le donne ai vertici non sono più una minoranza, anzi a volte il loro numero supera quello dei colleghi maschi”.
“I pregiudizi ci sono”, ammette Bandini, “e spesso sono inconsci, tant’è vero che le stesse donne ne sono colpite. Noi infatti in azienda ci sottoponiamo a molti training riguardo gli stereotipi di genere, proprio per poter prendere decisioni corrette”.
Con questa indagine, Manageritalia, che vanta anche un’iniziativa pionieristica voluta dal Gruppo Donne manager denominato “Un fiocco in azienda” (nata inizialmente per facilitare il rientro delle donne dopo la maternità, ma centrata oggi sulla genitorialità condivisa), ha lanciato un sasso nello stagno.
Raccoglierlo spetta ora a differenti attori: il mondo della politica innanzitutto, che ancora troppo sottovaluta i rischi economici e sociali del crollo della natalità; il mondo delle imprese, che possono fare molto per rendere la maternità e la paternità un evento non penalizzante per i diretti interessati ma anzi arricchente per l’intera azienda; e infine il mondo dell’informazione, che può contribuire in grande misura ad abbattere stereotipi discriminatori e purtroppo ancora radicati nella nostra società.
Immagine di copertina: Kelli McClintock/unsplash