Dal caso Shell alla Cedu: come le cause stanno cambiando la giustizia climatica
Sempre più governi e multinazionali vengono chiamati a rispondere dei danni ambientali generati dalla crisi climatica, anche in Italia. La protezione dei diritti umani è al centro della battaglia legale.
Nel 2024 il fronte della giustizia climatica ha fatto registrare diverse novità. Se da una parte rallenta il ritmo di crescita dei contenziosi climatici, dall’altra aumentano quelle strategiche, capaci di influenzare decisioni politiche ed economiche. Dalle aule di tribunale agli organismi internazionali, dalle grandi compagnie petrolifere ai governi, la climate litigation si conferma uno degli strumenti più potenti per spingere verso azioni concrete contro la crisi climatica.
Il nuovo rapporto del Grantham research institute on climate change and the environment, “Global trends in climate change litigation: 2025 snapshot”, rilasciato il 25 giugno, fotografa un fenomeno in rapida evoluzione: nel 2024 sono stati depositati almeno 226 nuovi procedimenti legali legati al cambiamento climatico, portando a 2.967 il numero totale di casi registrati a livello globale in quasi 60 Paesi (nel giugno del 2023 si contavano 2.341 cause). Inoltre, più dell’80% delle cause avviate lo scorso anno possono essere definite “strategiche”, cioè pensate per influenzare le decisioni politiche e gli standard normativi.
Gli Stati Uniti restano il Paese con il maggior numero di procedimenti (164 solo nel 2024), anche se nella parte più povera del mondo c’è un certo fermento. Grazie anche al ruolo dei giovani, dal 2020 quasi il 60% dei procedimenti è stato avviato nel Sud globale. Dal 2015 al 2024, 276 casi sono arrivati alle corti supreme o costituzionali: 117 negli Usa e 159 in altri Paesi. Oltre l’80% ha visto i governi come imputati, ma i procedimenti contro le imprese hanno registrato tassi di successo più elevati.
Su quest’ultimo punto, tra le climate litigation più note c’è quella tra l’organizzazione Friends of the earth Netherlands e la compagnia petrolifera Shell. Si tratta di un contenzioso climatico che ha avuto già due gradi di giudizio. La sentenza di primo grado del 2021, emessa dal Tribunale distrettuale dell'Aia, ha ordinato a Shell di ridurre le emissioni globali di CO2 del 45% entro il 2030, rispetto ai livelli del 2019. Una sentenza passata alla storia per due motivi: ha esteso a un attore privato il principio della “due diligence” per la protezione dal cambiamento climatico stabilito nel caso giudiziario tra la fondazione Urgenda e i Paesi Bassi; ha ritenuto responsabile Shell anche delle emissioni catalogate come “Scope 3”, cioè le emissioni indirette che si verificano lungo la catena del valore di un'azienda, comprese quelle dei consumatori finali. Shell ha poi impugnato tale sentenza e, il 12 novembre 2024, la Corte d'Appello dell'Aia ha annullato l’ordine di riduzione del 45%, sostenendo che imporre una percentuale specifica equivarrebbe quasi a un intervento di natura legislativa, ma ha confermato l’aspetto più significativo della vicenda: l’azienda è legalmente responsabile del suo impatto climatico anche per quanto riguarda le emissioni Scope 3 (le Scope 1 sono le emissioni dirette dell’azienda, le Scope 2 sono quelle indirette provenienti dall’acquisto di energia generata fuori sede).

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di Monica Sozzi
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In tema di climate litigation una importante decisione è stata resa pubblica il 23 luglio dalla Corte Internazionale di Giustizia. L'organo giudiziario principale delle Nazioni unite ha stabilito che gli Stati hanno l’obbligo giuridico di contrastare il cambiamento climatico, sulla base del diritto internazionale e dei trattati multilaterali vigenti. L’opinione richiesta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite su impulso del governo di Vanuatu (nazione nel Sud dell’Oceano Pacifico) ha così riconosciuto che l’inazione climatica può costituire una violazione dei diritti umani e un atto illecito che comporta responsabilità legali. Infatti, secondo la Corte, la Convenzione quadro dell’Onu sul clima, il Protocollo di Kyoto e l’Accordo di Parigi impongono agli Stati obblighi chiari in termini di mitigazione delle emissioni gas serra, adattamento e cooperazione internazionale.
Sebbene l’opinione della Corte internazionale di giustizia non abbia carattere vincolante, il suo peso politico e giuridico è enorme. Pur senza riferirsi a casi specifici, la decisione apre la possibilità di avanzare richieste di risarcimento da parte di comunità colpite da eventi estremi, perdita di territori, degrado ambientale o danni socioeconomici legati alla crisi climatica. Un pronunciamento che, per rilevanza, può essere paragonato a quello della Corte europea dei diritti umani (Cedu) di Strasburgo, che nell’aprile 2024 aveva stabilito per la prima volta che i governi che non rispettano gli impegni assunti in materia di politiche climatiche mettono a rischio la salute dei cittadini.
In quell’occasione, i giudici avevano condannato la Svizzera per violazione del “diritto alla vita familiare”, sottolineando come l’inadeguatezza delle misure adottate avesse esposto le persone a un “rischio di morte prematura durante le ondate di calore”. Fenomeno estremo che, secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, rappresenterà la principale minaccia per la salute pubblica nei prossimi anni: basti pensare che nella sola estate del 2022 le ondate di calore hanno provocato tra le 60 mila e le 70 mila morti premature in Europa.
È la prima volta che una sentenza collega gli impegni climatici internazionali alla protezione dei diritti fondamentali. Per le protagoniste del ricorso, le KlimaSeniorinnen — un’associazione di 2.400 donne svizzere — si è trattato di una vittoria destinata a generare un effetto domino nei tribunali di tutto il mondo.
Da segnalare, inoltre, la decisione del Tribunale del diritto del mare - organo indipendente delle Nazioni unite – che a maggio 2024 ha stabilito che “per proteggere la salute degli ecosistemi marini gli Stati devono prevenire e ridurre le emissioni climalteranti”.
Infine, la climate litigation italiana. Lo scorso 22 luglio la Corte di Cassazione ha stabilito che è possibile avviare una causa climatica nel nostro Paese con lo scopo di accertare le responsabilità di istituzioni e grandi aziende, come quelle dei combustibili fossili, negli effetti del riscaldamento globale. La decisione rappresenta l’ultima tappa, al momento, de “La giusta causa”. Si tratta di una causa civile intentata il 9 maggio 2024 da ReCommon, Greenpeace Italia e 12 tra cittadine e cittadini nei confronti di Eni, ed estesa al ministero dell’Economia e delle finanze e a Cassa depositi e prestiti poiché possiedono la maggioranza delle azioni del cane a sei zampe (rispettivamente il 29,751% e il 2,085% delle azioni).
Grazie alla decisione presa dalla Corte, tra le più significative sentenze europee e internazionali nell’ambito delle climate litigation, la causa potrà dunque entrare nel merito. In sostanza, i ricorrenti chiedono al Tribunale di Roma l’accertamento del danno e della violazione dei diritti umani alla vita e alla salute, sulla base delle attività condotte in ambito energetico dall’Eni, e chiedono all’azienda di rivedere la propria strategia industriale, in modo da ridurre le emissioni di almeno il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020 (per stare al passo con quanto stabilito dall’Accordo di Parigi nel 2015).
La prima fonte del diritto su cui si basa questa climate litigation sono gli articoli 9 e 41 della Costituzione italiana, di recente modificati – l’8 febbraio 2022 -, anche grazie all’azione compiuta dal basso dalle organizzazioni della società civile come l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS). A seguito della modifica costituzionale, il nuovo articolo 9 della Costituzione prevede la “tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”, mentre il riformato articolo 41 sancisce che l’iniziativa economica “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute e all’ambiente”.
Ondate di calore e aziende petrolifere: c’è il collegamento
In attesa di conoscere i risvolti di questi contenziosi climatici, dalla comunità scientifica è arrivato un contributo che potrebbe rafforzare la base scientifica su cui poggiano le climate litigation. Lo studio “Systematic attribution of heatwaves to the emissions of carbon majors”, pubblicato il 10 settembre dalla rivista Nature, ha infatti collegato per la prima volta le emissioni di carbonio delle più grandi compagnie petrolifere alle ondate di calore. Secondo la ricerca, le emissioni di una sola delle 14 più grandi aziende — tra cui Soviet union, People’s republic of China for coal, Saudi Aramco, Gazprom, ExxonMobil, Chevron, National Iranian oil company, Bp e Shell — sarebbero sufficienti a causare oltre 50 nuove ondate di calore. In particolare, i gas serra generati da ExxonMobil o da Saudi Aramco avrebbero reso 51 ondate di calore almeno 10 mila volte più probabili rispetto a uno scenario senza riscaldamento globale. Nel complesso, le attività di queste 14 compagnie rappresentano circa il 30% delle emissioni climalteranti di origine antropica (comprendendo tutte le attività, come l’estrazione, l’utilizzo del suolo e le emissioni classificare Scope 3).
L’analisi sottolinea inoltre che le emissioni totali delle 180 “carbon majors” considerate sono responsabili di circa metà dell’aumento di intensità delle ondate di calore - dal 2000 al 2009 la temperatura media delle ondate di calore è aumentata di 1,4°C, tra il 2020 e il 2023 l’incremento è salito a 2,2°C -, mentre la deforestazione contribuisce in gran parte al resto.
Tra sentenze, cause e dati scientifici senza precedenti, la responsabilità delle compagnie e l’urgenza di azioni efficaci diventano sempre più dei fatti verificabili. E, in questo contesto, le decisioni dei tribunali possono tracciare la strada verso un futuro in cui il rispetto dei diritti umani e la protezione del clima siano inseparabili.
Copertina: Ansa