Climate litigation: aumenta il peso delle aule giudiziarie nella battaglia climatica
Oltre 2.300 cause nel mondo: le azioni promosse dalle organizzazioni della società civile investono non solo i governi ma anche le banche e le aziende produttrici di combustibili fossili, anche in Italia.
di Ivan Manzo
Aumentano in tutto il mondo i casi giudiziari sui cambiamenti climatici. Le climate litigation, questo il termine usato per indicare le azioni basate sul “contenzioso climatico”, stanno assumendo un ruolo considerevole: anche l’Ipcc nel suo ultimo rapporto ne certifica l’importanza perché si tratta di “azioni capaci di influenzare l’ambizione sul taglio delle emissioni climalteranti”.
Le climate litigation rappresentano un’area del diritto ambientale accessibile ai singoli cittadini e vengono utilizzate per obbligare i Paesi, le imprese pubbliche o quelle private a rendere conto dei propri sforzi di mitigazione senza dimenticare le responsabilità storiche per aver provocato l’attuale degrado ambientale.
Secondo lo studio del Grantham research institute on climate change and the enrvironment, dal titolo “Global trends in climate change litigation”, rilasciato il 29 giugno, nel mondo il numero di casi giudiziari collegati al riscaldamento globale è più che raddoppiato dal 2015 a oggi con una chiara accelerazione dall’anno 2020. Inoltre, più passa il tempo, più i contenziosi vengono collegati alle questioni che emergono durante i summit internazionali: nei prossimi anni sono infatti attese nuove azioni legali basate sulle connessioni tra clima e biodiversità, e sulle perdite e i danni generati dalla crisi climatica, tutti argomenti molto dibattuti nelle ultime Cop, le riunioni mondiali annuali dedicate all’ambiente. In crescita anche i casi legati alle pratiche di greenwashing cioè alle azioni che alimentano la disinformazione tra i consumatori.
Fino al giugno 2023 si contano 2.341 cause aperte nel mondo nei confronti di Stati e imprese accusati di aver violato l’integrità ambientale. Come mostra la seguente figura, gli Stati uniti presentano la più alta concentrazione di ricorsi legali, ma anche l’Italia ha le sue climate litigation. Analizziamo qualche caso.
Le climate litigation nel mondo
Dalla sentenza in Indonesia che ha bloccato le centrali elettriche inquinanti fino al comitato delle Nazioni unite che ha dichiarato che l'Australia ha violato i diritti degli abitanti delle isole dello stretto di Torres, continuano a moltiplicarsi nel mondo i casi climatici.
Sebbene la maggior parte delle cause intentate negli Stati uniti sia stata respinta dai tribunali o impantanata in discussioni procedurali, nel corso del 2023 potrebbe esserci una sorpresa in terra a stelle e strisce. Ma facciamo prima un piccolo passo indietro. Il 13 marzo 2020, 16 giovani hanno intentato una causa costituzionale - la prima nella storia degli Usa che tira in ballo la Costituzione - contro lo Stato del Montana, sostenendo che il sistema energetico basato sui combustibili fossili del Montana sta degradando ed esaurendo le risorse pubbliche tutelate dalla Costituzione, tra cui l'atmosfera, i fiumi e i laghi, i pesci e la fauna selvatica. La causa mira alla modifica del “Montana environmental policy act” che non considera gli impatti dell’economia energetica dello Stato. Durante la prima fase del processo, andata in scena il 20 giugno, i giovani hanno affermato che i funzionari e le agenzie dello Stato devono essere ritenuti responsabili per aver esacerbato la crisi climatica, mentre la difesa ha sostenuto che siamo di fronte a un problema globale. È attesa per i prossimi mesi una decisione che potrebbe cambiare le sorti del Montana e di altri Stati americani con azioni legali in attesa di giudizio.
In Canada è invece prevista la prima sentenza climatica del Paese. Sette giovani guidati da una quindicenne (Sophia Mathur) nell’autunno del 2021 hanno contestato al governo dell'Ontario di essersi ritirato dal suo obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra posto al 2030. Stesso discorso per il contenzioso messicano dove 15 ragazzi chiedono al governo di emanare regolamenti e politiche pubbliche per attuare correttamente la legge sui cambiamenti climatici che il Messico ha varato da oltre dieci anni, nel 2012.
Spostandoci in Sudafrica, qui si aspetta l’esito dell’azione portata avanti dagli attivisti per il clima che hanno trascinato il Governo in tribunale poiché “responsabile di aver messo in piedi un piano energetico basato sul carbone” (fonte che costituisce circa l'80% del mix energetico del Paese), contravvenendo così ai principi costituzionali.
Le climate litigation in Europa
Il caso che ha fatto scuola è sicuramente quello olandese. La causa promossa dalla fondazione Urgenda contro i Paesi bassi è infatti la prima al mondo che ha avuto successo, la prima in cui i cittadini hanno stabilito che il loro governo ha il dovere legale di prevenire gli effetti nefasti della crisi climatica. Il 24 giugno 2015 la Corte distrettuale dell’Aia ha così imposto allo Stato di ridurre il livello nazionale di emissioni di gas serra di almeno il 25% entro la fine del 2020 (rispetto al 1990). Una decisione confermata anche il 20 dicembre 2019 dalla Corte suprema olandese, la più alta corte del Paese. Un climate case innescato da 886 cittadini olandesi che ha ispirato la nascita di nuovi contenziosi in Belgio, Canada, Colombia, Irlanda, Germania, Francia, Nuova Zelanda, Norvegia, Regno Unito, Svizzera e persino contro le istituzioni europee. Presso il Tribunale dell'Ue, nel maggio 2018 dieci famiglie (bambini compresi) hanno intentato una causa proprio contro il Parlamento e il Consiglio europeo. Le famiglie ricorrenti, provenienti da Portogallo, Germania, Francia, Italia, Romania, Kenya, Isole Fiji e da Sáminuorra, l'associazione svedese dei giovani Sami, avevano fatto presente che l'obiettivo di riduzione dell’Ue del 40% al 2030 rispetto al 1990. oggi alzato al 55%,non era sufficiente a garantire i diritti fondamentali alla vita, alla salute e all’occupazione. A maggio 2019 il Tribunale europeo ha però archiviato la causa poiché “non soddisfaceva il criterio di ammissibilità”. Un criterio, secondo i ricorrenti, che ha storicamente limitato l'accesso dei cittadini ai tribunali dell'Ue. Nel marzo 2021 la Corte di giustizia europea ha respinto il ricorso per gli stessi motivi procedurali.
Poco prima, per la precisione il 3 febbraio 2021, è stata emessa una decisione definita rivoluzionaria in Francia su “l'Affaire du siècle”: il tribunale amministrativo di Parigi ha riconosciuto per la prima volta la responsabilità legale dello Stato francese per il suo contributo alla crisi climatica. La Corte ha ammesso che una scarsa politica climatica contribuisce a causare danni ambientali in Francia, valutandola pertanto illegale. Un giudizio confermato anche nell’ottobre 2021, quando il tribunale amministrativo di Parigi ha emesso una sentenza senza precedenti sanzionando e ordinando allo Stato francese di adottare misure di mitigazione più stringenti. Il caso, avviato nel marzo 2019 dalle associazioni Notre affaire à tous, Oxfam France, Fondation pour la nature et l'homme e Greenpeace France, conta oggi più di 2,3 milioni di sostenitori che hanno firmato la petizione online (si tratta della petizione più sostenuta nella storia del Paese).
In Germania la svolta si è invece avuta nell’aprile del 2021. Anche qui la Corte costituzionale federale, la più alta corte del Paese, ha sancito che la legge tedesca sulla protezione del clima viola i diritti fondamentali dei giovani e delle generazioni future e deve pertanto essere migliorata. Il caso è stato promosso da diversi gruppi, tra cui un gruppo di giovani che aveva precedentemente intentato una causa sul clima davanti al Tribunale amministrativo di Berlino. I ragazzi hanno sostenuto che la legge tedesca sul clima (che fissava un obiettivo di riduzione del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990) era insufficiente; inoltre la Corte ha riconosciuto che il cambiamento climatico rappresenta una minaccia “catastrofica o addirittura apocalittica” per la società e che lo Stato ha il dovere costituzionale di proteggere i cittadini dal riscaldamento globale.
Passiamo ora a due delle cause più famose che interessano attività commerciali. È su suolo europeo la prima al mondo contro una banca. Friends of the Earth France, Notre affaire à tous e Oxfam France il 23 febbraio 2023 hanno citato in giudizio Bnp Paribas, istituto di credito che secondo l’accusa è il più grande finanziatorein Europa , e quinto al mondo, di attività legate ai combustibili fossili. Per questo motivo le tre organizzazioni hanno sollecitato il management a interrompere i finanziamenti indirizzati all’espansione fossile e ad adottare un piano di uscita da petrolio e gas.
In Olanda, infine, il 26 maggio 2021 il Tribunale distrettuale dell'Aia ha ritenuto Shell responsabile di aver causato “pericolosi cambiamenti climatici”. A seguito di un'azione legale intentata da Friends of the Earth Netherlands insieme a 17 mila co-querelanti e altre sei organizzazioni, il tribunale ha stabilito che Shell deve ridurre le proprie emissioni di CO2 del 45% nel giro di dieci anni. Un altro importante verdetto che ha aperto la strada alle climate litigation, dato che è ricordato come il primo episodio in cui un giudice ordina a un colosso dei combustibili fossili di allineare i suoi piani con l’obiettivo dell’Accordo di Parigi. Shell ha appellato questa sentenza, ma in attesa di sviluppi l’azienda deve comunque continuare a tagliare le emissioni derivanti da tutte le attività che svolge.
Le prime azioni in Italia
È tra i casi più recenti su scala globale e interessa proprio l’Italia. Il 9 maggio di quest’anno Recommon, Greenpeace e 12 tra cittadine e cittadini, hanno deciso di portare Eni in tribunale. L’azienda è accusata di essere corresponsabile della crisi climatica, al pari di altre che traggono enormi profitti dai combustibili fossili. Le due organizzazioni hanno intentato una causa civile non solo nei confronti di Eni ma anche nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze e di Cassa depositi e prestiti che esercitano “un’influenza dominante” sul “cane a sei zampe”, dato che ne possiedono rispettivamente il 4,411% e il 26,213% cioè la maggioranza relativa delle azioni. Secondo i ricorrenti, Eni non è una società per azioni “normale”: il suo bilancio è infatti “sottoposto a verifica da parte della Corte dei Conti che ne relaziona ai Presidenti di Camera e Senato”, si legge nel media briefing diffuso. Dalle scelte dell’azienda si può dunque risalire, secondo questa tesi, alle responsabilità di tutti governi italiani che si sono succeduti nel corso degli anni.
Le produzioni fossili di Eni, affermano le due organizzazioni, nel 2021 hanno provocato circa 456 milioni di tonnellate di CO2: una quantità di gas climalteranti che supera quella rilasciata dall’intero sistema Italia nello stesso periodo (407 milioni di tonnellate). La società a inizio 2023 ha inoltre aggiornato la sua strategia pluriennale rivedendo al rialzo la produzione di gas, fonte che rappresenterà entro questo decennio il 60% del suo business totale. I ricorrenti ricordano che Eni prevede di raddoppiare da qui al 2026 i contratti di gas naturale liquefatto (passando dalle nove mega tonnellate del 2022 alle 18 mega tonnellate del 2026), e di destinare il 75% del totale degli investimenti ai combustibili fossili. Secondo il rapporto “Big Oil Reality Check 2023” di Oil Change International, infine, gli investimenti di Eni in gas e petrolio nel 2022 sono stati 15 volte superiori a quelli nelle rinnovabili.
Ecco perché Recommon e Greenpeace, anche in base “alle modifiche degli articoli 9 e 41 della Costituzione italiana”, hanno chiesto “al Tribunale di Roma l’accertamento del danno e della violazione dei loro diritti umani alla vita, alla salute e a una vita familiare indisturbata” e “che Eni sia obbligata a rivedere la propria strategia industriale per ridurre le emissioni derivanti dalle sue attività di almeno il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020, come indicato dalla comunità scientifica internazionale per mantenere l’aumento medio della temperatura globale entro 1.5°C”. Per la “Giusta causa”, questo il nome della campagna, viene poi chiesta “la condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze, azionista influente di Eni, per imporgli di adottare una politica climatica che guidi la sua partecipazione nella società in linea con l’Accordo di Parigi”.
Da parte sua, l’Eni ha affermato dalle colonne del giornale britannico “The Guardian” che dimostrerà che si tratta di una “causa infondata" e che la sua strategia “combina e bilancia gli obiettivi essenziali di sostenibilità, sicurezza energetica e competitività dell'Italia”.
Ma la prima controversia per inazione climatica su suolo italiano risale al 2021 con l’avvio della campagna “Giudizio universale”, quando più di 200 ricorrenti (compleso il climatologo Luca Mercalli) e 24 associazioni impegnati per la giustizia ambientale e nella difesa dei diritti, tra cui A sud onlus, hanno deciso di citare in giudizio lo Stato italiano per inadempienza climatica. “Oggi i cambiamenti climatici rappresentano un’emergenza ambientale globale e minacciano il godimento dei diritti umani fondamentali quali, tra gli altri, il diritto alla vita, alla salute, all’alimentazione, all’acqua, all’alloggio, alla vita familiare – si legge sul sito di riferimento -. Tra questi, va ricompreso anche il diritto umano a un clima stabile e sicuro: dal momento che le condizioni climatiche influenzano la tutela degli altri diritti, il riconoscimento di un diritto specifico alla stabilità climatica fornisce un ulteriore livello di protezione a tutti i diritti condizionati dal clima. Un’insufficiente azione climatica a livello globale, così come a livello nazionale, pur di fronte a prove scientifiche schiaccianti, è di fatto “la più grande violazione intergenerazionale dei diritti umani della storia”.
Le principali richieste avanzate dai ricorrenti al giudice sono: dichiarare lo Stato responsabile di inadempienza nel contrasto all’emergenza climatica e condannarlo a ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 92% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, “una percentuale calcolata tenendo conto delle responsabilità storiche dell’Italia nelle emissioni climalteranti e delle capacità tecnologiche e finanziarie attuali”. Nelle due precedenti udienze i rappresentanti legali dello Stato, oltre a ricordare le diverse strategie messe in campo tra cui figura il Piano per la transizione ecologica, hanno rivendicato l’insindacabilità delle proprie scelte e “l’impossibilità di giudicarne le condotte”. Entrambi le parti sono ora in attesa: la prossima udienza è fissata al 13 settembre.
Come si può vedere da tutti questi casi, gli effetti della climate litigation quasi ovunque nel mondo sono limitati dalla lentezza dell’azione giudiziaria e anche da interpretazioni controverse sulle effettive responsabilità giudizialmente rilevanti nelle emissioni passate, presenti e future. Ma si tratta ormai di un movimento di massa che Stati e imprese non possono ignorare.