Molestie sul lavoro: penalizzano le donne e le aziende
Le vittime in difficoltà a denunciare, pesa il timore della perdita del posto. Ma un ambiente tossico danneggia anche le imprese.
Sono oltre un milione e 400mila le donne che hanno subito molestie sessuali sul luogo di lavoro secondo l’ultimo rapporto Istat del 2018.
Un dato probabilmente calcolato per difetto, perché denunciare espone chi lo fa al rischio di restare disoccupato e sappiamo quanto sia difficile ancora oggi per le appartenenti al genere femminile avere un’occupazione stabile ed equamente retribuita.
Ma gli effetti deleteri non riguardano solo le vittime, anche se già il malessere personale basterebbe per indurre a parlarne e ad agire al fine di contrastare questa pratica esecrabile e purtroppo diffusa.
Le ripercussioni riguardano anche le aziende perché, come spiega Tatiana Biagioni, avvocata giuslavorista e consulente esperta in politiche di genere presso il dipartimento Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri, “un ambiente di lavoro tossico fa sì che le persone non riescano a dare il meglio delle proprie capacità. E questo vale non solo per chi subisce direttamente le molestie; anche le colleghe e i colleghi che stanno intorno ne risentono in modo negativo”.
Il fatto poi che non se ne parli – spesso le vittime anziché denunciare chiedono di cambiare ufficio o addirittura abbandonano l’impiego – non fa che peggiorare la situazione.
Il fenomeno, afferma la giuslavorista, riguarda le aziende di tutte le dimensioni, non solo le piccole e medie o le micro.
“Spesso chi mette in atto le molestie non ne è nemmeno del tutto consapevole, tanto la nostra cultura è impregnata di sessismo”, denuncia l’esperta.
Così però vengono penalizzate ulteriormente le possibilità di carriera per le donne, che si sottraggono a straordinari e trasferte per evitare di ritrovarsi a tu per tu con il molestatore di turno che magari è anche il loro capo.
Ma cosa si intende per molestia?
Il Dl 198 del 2006 ne definisce le caratteristiche all’articolo 26, laddove afferma che si tratta di “comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore, e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.
Il fatto che si verifichino in un luogo di lavoro rende questi comportamenti ancora più dannosi, non solo perché chi li subisce è in qualche modo sotto il ricatto di perdere il posto, ma anche perché è più complicato sottrarvisi trattandosi di un ambiente in cui si è costretti a vivere quotidianamente.
“Se la molestia avviene in un luogo pubblico posso chiamare i carabinieri, se viene agita da un amico o conoscente posso evitare di frequentarlo, cose entrambe molto difficili da mettere in atto nell’ambiente lavorativo”, esemplifica la giuslavorista.
Come si diceva, però, a pagare lo scotto di questi comportamenti inappropriati sono anche le imprese che, tra l’altro, in base alla normativa sarebbero tenute, qualora abbiano più di 50 dipendenti, a redigere un rapporto biennale sullo stato dell’arte.
Un altro strumento che può contribuire ad accendere un faro su questo fenomeno è anche la recente introduzione, facoltativa per le aziende, della certificazione di genere. Per ottenerla le imprese devono dimostrare di rispettare determinati parametri in sei aree di valutazione tra cui anche quella che riguarda le opportunità di crescita e di inclusione per le dipendenti di genere femminile.
“Rispetto ad alcuni anni fa da parte delle aziende c’è maggiore consapevolezza del problema”, sostiene Biagioni. “L’importante ora è agire, perché questa situazione non è degna di una società civile”.
Fonte dell'immagine di copertina: Tim Gouw/unsplash