New Orleans, Giacarta, Saint Louis: ha ancora senso salvare le città che affondano?
Aumentano fenomeni estremi e investimenti per aree a rischio. Finora ha prevalso la politica del salvataggio, ma c’è chi dubita. Una panoramica delle risposte al disastro, dagli Usa al Senegal. E per Venezia si cerca di guadagnare mezzo secolo.
Alcune volte bisogna capire se arrendersi o continuare. Può succedere nella vita di ognuno di noi, come in quella di intere comunità o, addirittura, città. Con gli eventi climatici estremi che si susseguono a un ritmo sempre più frequente e a intensità sempre maggiore, c’è chi comincia a chiedersi se la ricostruzione di quartieri o intere città dopo alluvioni, inondazioni, uragani, sia un’opzione da percorrere sempre o se debba essere vagliata a seconda delle situazioni. A vent'anni dall'uragano Katrina che ha devastato la costa del Golfo e distrutto New Orleans, il governo federale ha speso 125 miliardi di dollari per ricostruire un territorio che ospita solo 1,4 milioni di persone. Se non ci fosse stato questo ingente investimento governativo, la città sarebbe probabilmente scomparsa dai radar (come accadde a Galveston, in Texas, dopo il devastante uragano del 1900), ma è anche vero che l’economia di Nola (soprannome degli abitanti per New Orleans) è tutt’altro che fiorente, come sottolinea l’Economist in un articolo dedicato al ventennale da Katrina. Le tre principali industrie della città stanno perdendo posti di lavoro, le persone si stanno trasferendo, il sindaco è stato recentemente incriminato per corruzione. E la città sta sprofondando a causa della subsidenza, un fenomeno che consiste nell’abbassamento del livello del suolo a causa della compattazione di strati argillosi e sabbiosi del terreno. La causa? Le numerose trivellazioni e urbanizzazioni che nel 20esimo secolo hanno martoriato la zona. E la situazione è destinata a peggiorare con l’aumento del livello dell’oceano causato dalla crisi climatica.
Il futuro è ancora meno roseo. Nei prossimi 50 anni la Louisiana perderà probabilmente la stessa quantità di territorio costiero degli ultimi cento. La probabilità di tempeste di grandi dimensioni raddoppierà. Kasey Sullivan, una venditrice di gamberetti, racconta al settimanale inglese di avere attacchi di panico ogni volta che il suo telefono vibra per un'allerta meteo: “Non riesci a respirare, ti manca l'aria e ti chiedi: ‘Qual è la mia prossima mossa?’”
Oltre New Orleans
Ma la città della Louisiana non è sola in questo dilemma. Negli ultimi cinquant'anni Giacarta, capitale dell’Indonesia, ha vissuto uno sviluppo urbano fuori controllo, arrivando a quasi 11 milioni di abitanti (diventano 30 se consideriamo anche le amministrazioni vicine), facendone una delle megalopoli ai primi posti nel mondo per traffico e inquinamento. La città sta inoltre sprofondando anno dopo anno a causa della subsidenza, dovuta in questo caso all’estrazione selvaggia e fuori controllo di acqua dal sottosuolo.
Lo stesso problema ce l’hanno alcune città dell’Africa occidentale come Saint Louis, ex capitale coloniale del Senegal, soprannominata la “Venezia dell’Africa”. La città è seriamente minacciata dai cambiamenti climatici e dall’innalzamento del livello del mare: secondo le previsioni di uno studio commissionato dal governo senegalese entro il 2080 l’80% della città sarà a rischio di allagamento. Per il Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc), entro la fine del secolo il livello del mare potrebbe salire tra 0,3 e 1 metro (in uno scenario a basse emissioni) e 0,5-1,9 metri (emissioni elevate). A queste condizioni geografiche e meteorologiche sfavorevoli si aggiunge (di nuovo) il fenomeno della subsidenza, che riguarda anche alcune zone di Lagos, la capitale economica della Nigeria.
A causa di uno sviluppo urbanistico senza controllo e della scarsa manutenzione del sistema di drenaggio, la città sta affondando a un ritmo di 87 millimetri all’anno. Trovare una soluzione all’avanzata del mare non è semplice. A Saint Louis, dopo la disastrosa alluvione del 2007, la Francia e la Banca mondiale hanno finanziato la costruzione di una diga, ma questi piani di protezione, dice l’Economist, “non sono una soluzione di lungo periodo per la maggior parte dei Paesi a basso reddito”. Alcune dighe in Senegal e in Ghana sono infatti crollate. Le barriere coralline e le foreste di mangrovie, oltre alle altre soluzioni basate sulla natura, potrebbero essere un’alternativa, ma anche queste specie sono minacciate dalle conseguenze dei cambiamenti climatici e dallo sfruttamento intensivo dei territori.

Il mare sale, le megacittà africane affondano
Secondo uno studio l’80% di Saint Louis è a rischio alluvioni entro il 2080. Lagos sprofonda di 87 millimetri all’anno. Crescita demografica ed espansione urbana, sottolinea un articolo di The Economist, aggraveranno la situazione.
E poi ovviamente c’è Venezia che, nonostante gli effetti positivi dopo la costruzione del Mose – il sistema di paratie per impedire che l'acqua alta allaghi la città – ha visto nell’ultimo secolo un abbassamento dei suoi fondali di 25 centimetri. La città, costruita su una laguna fatta di sedimenti alluvionali del Po e di altri fiumi, ha un terreno relativamente instabile. Questi sedimenti tendono a compattarsi col tempo, causando un abbassamento naturale del terreno. La subsidenza, di nuovo.
Soluzioni?
La domanda ancora resta: quali città vale la pena salvare e quali stanno andando incontro a una fine irreversibile? Le strategie di adattamento (combinate con quelle di mitigazione) possono attenuare, rallentare, ma non invertire il decorso di quello che sta accadendo. Per questo alcune metropoli decidono di agire e altre semplicemente di cambiare obiettivo.
Per New Orleans la questione è ancora aperta. Già nei giorni successivi all’uragano Katrina, mentre i soccorritori recuperavano i cadaveri dalle case, Dennis Hastert, allora presidente della Camera dei Rappresentanti, interruppe il briefing di Russel Honoré, generale dell'esercito e responsabile delle operazioni di recupero, per chiedere se New Orleans dovesse essere ricostruita. Altri esperti di ispirazione religiosa tracciarono parallelismi con la storia biblica di Sodoma e Gomorra – New Orleans è considerata città particolarmente disinibita. Gli ambientalisti premevano invece per spostare la città lungo il fiume in aree meno pericolose. Nancy Pelosi, allora leader della minoranza democratica, si alzò e colpì la mappa davanti a sé esclamando: “Ricostruiremo questa dannata città”, e il presidente Bush fu d’accordo. Da allora (e fino a oggi) la politica di New Orleans è andata in questa direzione.
Per quanto riguarda Giacarta invece la situazione è diversa. Di fronte a un processo di sprofondamento che appare inesorabile, nel 2019 il presidente Joko Widodo ha annunciato di voler costruire una nuova capitale, una metropoli chiamata Nusantara – “arcipelago” in lingua giavanese. Dopo tre anni di studi di fattibilità, in gennaio la Camera dei rappresentanti dell’Indonesia ha approvato un disegno di legge che ne prevede la realizzazione a più di 1200 chilometri di distanza da Giacarta, nell’isola del Borneo. L’investimento supera i 32 miliardi di dollari e prevede la realizzazione di numerosi palazzi governativi e la costruzione di case per un milione e mezzo di dipendenti pubblici. La fine dei lavori è prevista per il 2045.
Il sito scelto è sicuramente vantaggioso dal punto di vista economico, dato che l’isola del Borneo costituisce un crocevia strategico ed economico fondamentale, essendo suddivisa tra Indonesia, Malesia e Sultanato del Brunei. Il Borneo è inoltre molto più al riparo dai cataclismi naturali rispetto all’isola di Giava, dove si trova oggi la sede governativa. Tuttavia gran parte dei 180mila ettari di proprietà del governo su cui dovrebbe sorgere Nusantara (e che dovrebbero arrivare a 256mila a fine lavori) sono ricoperti dalla foresta tropicale del Borneo, un habitat quasi incontaminato, già compromesso dalle piantagioni di palma da olio. La costruzione della nuova capitale metterebbe così a serio rischio la biodiversità dell’isola.
Le cose non stanno comunque procedendo come avrebbe voluto l’ormai ex presidente Widodo. Dopo l'avvio dei lavori nel 2022, il colosso giapponese SoftBank, che avrebbe dovuto coprire finanziariamente gran parte dell’operazione, ha deciso di ritirarsi dal progetto. E nonostante Widodo abbia provato ogni strada per rendere attrattiva la nuova città – anche invitando alcuni influencer e assicurando agli investitori diritti speciali (tra cui quello di proprietà terriera fino a 190 anni nella futura capitale) – i privati non hanno trovato convincente il progetto. Gli edifici sono comunque in costruzione e Widodo ha provato ad abitare per qualche periodo nella sede governativa. Ma Prabowo Subianto, suo successore, è più scettico sul progetto, che potrebbe subire forti rallentamenti.
Sempre in Indonesia, dopo il terremoto del 2006 e le eruzioni del vulcano Merapi, la città di Yogyakarta nell’isola di Giava è stata quasi completamente ricostruita. Tuttavia, la ripianificazione urbana ha puntato tutto su quartieri moderni, residenze private e complessi destinati a ceti medio-alti e turisti, rendendo molti spazi inaccessibili alla popolazione originaria.
A Saint Louis invece più di 3mila residenti si sono già trasferiti in altre zone della città e molte delle case costruite di fronte al mare sono pronte per essere demolite. Alle Maldive, a causa dell’innalzamento del livello del mare, è in fase di progettazione il Maldives floating city, l’ambizioso progetto per costruire isole artificiali da sostituire a quelle naturali, presto sommerse dall’acqua. La Cina ha avviato, a partire dal 2015, progetti pilota per rendere le aree urbani meno vulnerabili alle inondazioni: si tratta delle “città spugna”, metropoli in cui le zone coperte da asfalto e cemento sono limitate a favore di giardini e aree verdi che permettono di assorbire l’acqua in eccesso.

Anche abbattendo le emissioni il mare salirà: occorre adattarsi all’inevitabile
Il livello delle acque aumenterà di 10-25 centimetri entro il 2050 e continuerà a crescere nella seconda metà del secolo. Dalle isole galleggianti alle città spugna: ecco come i Paesi provano ad affrontarlo.
Il piano per Venezia
Per quanto riguarda la tutela della città lagunare, c’è in ballo un’idea abbastanza divisiva. Pietro Teatini, professore di Idrologia e ingegneria idraulica all’università di Padova, ha suggerito di utilizzare il processo di subsidenza al contrario: se con l’estrazione di acqua e idrocarburi nel sottosuolo il terreno si abbassa, inserire nuovamente fluidi porterebbe a un innalzamento del terreno. “Lo hanno confermato numerose osservazioni satellitari condotte in tutto il mondo”, ha dichiarato Teatini a Wired.
È iniziato quindi un processo di raccolta di dati geologici per calcolare l’effettiva fattibilità del progetto. La città potrebbe alzarsi secondo le migliori prospettive di 25-30 centimetri, un modo per guadagnare tempo e capire come preservarla. Il Mose, dice Teatini, “sarà ancora presente, e ci si aspetta che faccia il suo dovere, ma la combinazione dei due interventi garantirebbe le condizioni ottimali per Venezia e la laguna nel prossimo mezzo secolo. Dopo di che, ci aspettiamo che la tecnologia faccia passi avanti che oggi nemmeno riusciamo a immaginare, e ci consenta di risolvere definitivamente il problema di salvare la città dei Dogi”. Il rischio che molti studiosi vedono nel progetto è la possibilità che gli edifici, sottoposti a ulteriori stimoli, crollino.
Altre metropoli sono riuscite ad applicare soluzioni che sembrano funzionare a dovere. Nei dintorni di Rotterdam è attiva ormai da anni il Maeslantkering, la barriera mobile anti-tempesta lunga 420 metri che entra in funzione in caso di innalzamento del livello del fiume. Un esempio di difesa costiera high-tech funzionante, ma con costi crescenti sul lungo termine. Tokyo e Shanghai hanno visto una riduzione drastica dei fenomeni di subsidenza dopo che hanno regolato i loro prelievi idrici con norme molto stringenti, dimostrando che questo fenomeno può essere rallentato se gestito a dovere. Stesso discorso vale per Bangkok.
Scegliere se salvare o abbandonare una città dipende da una serie di fattori – condizioni climatiche, investimento economico, politiche pubbliche, patrimonio culturale. E anche dal volere dei cittadini. Tra questi c’è chi è più fiducioso, e crede nella possibilità che nuove tecnologie possano risollevare le sorti della propria terra, e chi è più disilluso, come la signora Yvonne Blue, che si è salvata a nuoto durante l'uragano Katrina. Intervistata dall’Economist, Blue ha detto che New Orleans “affonderà” nei prossimi 50 anni, indipendentemente da quanti soldi verranno investiti. A causa dell'umidità del terreno, il giardino davanti casa sua cresce così velocemente che deve tagliarlo due volte a settimana. Lo considera un presagio per il futuro. “Potrei non essere qui per vederlo”, ha commentato, “ma New Orleans non è altro che una palude e tornerà a essere una palude”.
Copertina: MSI Sakib/unsplash