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Sfruttare o salvare i fondali oceanici? La sfida è diventata geopolitica

Dalla Conferenza sugli oceani di Nizza un allarme sui rischi ambientali dell’estrazione mineraria in acque profonde. Si intensifica la competizione tra Stati Uniti, Cina e alcuni piccoli Stati insulari.

martedì 17 giugno 2025
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I fondali marini non possono diventare il selvaggio West”. Con queste parole il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha aperto la Conferenza delle Nazioni Unite sugli oceani che si è svolta a Nizza dal 9 al 13 giugno 2025. Un avvertimento forte, rivolto a governi e industrie, che rivela la posta in gioco: il futuro delle profondità oceaniche, ambienti in gran parte inesplorati, ma già al centro delle contese globali.

L’estrazione mineraria in acque profonde (deep seabed mining) è stato uno dei temi più dibattuti durante la Conferenza. I fondali oceanici sono infatti ricchi di minerali (come il nichel, il cobalto, il rame e le terre rare) fondamentali per la transizione ecologica e digitale. La loro estrazione comporta gravi rischi per gli ecosistemi marini. La dichiarazione finale della Conferenza, il “Nice ocean action plan”, ha riaffermato la necessità di approfondire la conoscenza scientifica degli ecosistemi del mare profondo e di definire urgentemente una regolamentazione internazionale condivisa per evitare danni irreversibili ai fondali oceanici.

Regolamentazione cercasi

L’Autorità internazionale dei fondali marini (International seabed authority – Isa), entrata in funzione nel 1994 nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare è l’organismo incaricato di regolamentare le attività minerarie al di fuori delle zone economiche esclusive degli Stati (le acque marine che si estendono fino a 200 miglia dalle coste). Nonostante siano passati oltre 30 anni dalla sua istituzione, i suoi 170 membri (169 Stati e l’Unione Europea) non hanno ancora trovato un accordo sul codice normativo da adottare. Per questo motivo non sono ancora state autorizzate operazioni di estrazione mineraria per uso commerciale. Sono invece state rilasciate 30 licenze (con una durata massima di 15 anni) a 21 appaltatori per l’esplorazione dei fondali in aree chiave come la zona di Clarion-Clipperton, l'Oceano Indiano, la dorsale medio-atlantica e l'Oceano Pacifico nord-occidentale.

La maggior parte di queste licenze sono sponsorizzati da grandi potenze come Russia, Cina e Corea del Sud, ma anche alcuni Stati più piccoli, come Kiribati, Nauru, il Regno di Tonga e le Isole Cook, sono particolarmente attivi negli investimenti. Nel 2021 è stato proprio Nauru ad attivare la “clausola dei due anni” della Convenzioni delle Nazioni Unite sul diritto del mare, richiedendo all’Isa di adottare un quadro normativo entro due anni. La richiesta di Nauru, che insieme a Kiribati e il Regno di Tonga sponsorizza The metals company, una delle principali aziende interessate all’estrazione, ha accelerato notevolmente il dibattito internazionale, ma ha anche generato forte preoccupazione tra scienziati, ambientalisti e diversi governi, timorosi che si possa procedere con l’attività estrattiva prima che siano chiariti i rischi ambientali e adottate regole adeguate.

Geopolitica subacquea

Nel frattempo, la competizione geopolitica è sempre più serrata. Il 24 aprile 2025 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per avviare un programma di attività estrattive in acque internazionali. Una mossa che sfida apertamente il diritto internazionale che riconosce l’alto mare come common good of the mankind (bene comune dell’umanità). Non è un caso isolato: a gennaio del 2024 la Norvegia era diventato il primo Paese al mondo ad autorizzare l’estrazione mineraria, su scala commerciale, nei propri fondali, salvo poi ritirare la legge pochi mesi dopo a causa di pressioni politiche interne.

Altri attori si stanno muovendo rapidamente. A settembre del 2024, la Cina ha effettuato con successo una serie di test in mare aperto, con immersioni a più di 4mila metri di profondità, grazie al robot Kaituo 2 (“pioniere”) realizzato dalla Shanghai Jiao Tong University. Per assicurarsi la possibilità di sfruttare le risorse sommerse, la Cina sta inoltre allargando le sue influenze all’interno dell’Autorità internazionale dei fondali marini, inviando un numero sempre maggiore di rappresentanti alle sessioni annuali e ostacolando le iniziative volte a fermare o limitare l’estrazione di materie prime nei fondali. Altri Paesi, come la Corea del Sud e il Giappone, stanno investendo in questo ambito per poter ridurre la dipendenza delle importazioni dalla Cina di terre rare e materie prime critiche.

La Cina vuole vincere la corsa per estrarre materie prime critiche dal fondo del mare

Pechino aumenta gli investimenti tecnologici nel settore e l’influenza nella International seabed authority. L’obiettivo è garantire la catena di rifornimento della sua industria green. Alcuni Stati temono che possano nascondersi attività di spionaggio.

Parallelamente cresce anche un fronte di opposizione. Oltre 37 Paesi fanno oggi parte dell’Alliance of countries calling for a deep-sea mining moratorium, un’iniziativa lanciata nel 2022 da Palau, un piccolo Stato insulare nel Pacifico, per chiedere una moratoria sullo sfruttamento dei fondali marini fino a che non saranno stabiliti con maggiore certezza gli impatti sugli ecosistemi marini.

Distruggere l’inesplorato

Ma cosa comporta, concretamente, estrarre risorse dal fondo del mare? Dopo una prima fase di esplorazione, svolta con veicoli sottomarini a comando remoto, sulla superficie dell’area individuata viene installata una stazione galleggiante che funge da base operativa. A quel punto l’estrazione mineraria può avvenire in due modi: tramite una draga che scava il fondale o un veicolo che aspira il materiale. I sedimenti raccolti vengono smistati sulla stazione galleggiante: i minerali restano, mentre gli scarti vengono ributtati in mare.

Entrambe le tecniche comportano rischi enormi per gli ecosistemi. L’azione meccanica delle draghe e dei mezzi di aspirazione può distruggere i fondali marini e alterare gli equilibri di habitat che si sono formati in migliaia di anni. L’inquinamento acustico e luminoso inoltre potrebbe disturbare gravemente la fauna marina.

I sedimenti scartati e rigettati in acqua devono percorrere centinaia di chilometri per ritornare sul fondale, attraversando anche aree vitali come la “zona crepuscolare”, un ricco ecosistema con un ruolo fondamentale nel ciclo del carbonio. “I sedimenti potrebbero soffocare i pesci e gli organismi filtratori come gamberi e spugne. Potrebbero bloccare la poca luce trasmessa nell'oceano, impedendo ai pesci lanterna di trovare partner e alle rane pescatrici di attirare le prede” racconta il New York Times.

Gli effetti a lungo termine restano sconosciuti. Un esempio concreto? Le tracce lasciate da un’esplorazione condotta nel 1979 nel fondale dell’Oceano Pacifico sono visibili ancora oggi e l’ecosistema non si è completamente generato nemmeno dopo 40 anni.

In cerca di alternative più sostenibili

Chi sostiene l’importanza dell’estrazione minerarie in acque profonde sostiene che l’impatto ambientale potrebbe essere minore rispetto alle miniere sulla terraferma. Ma, come spiega il Guardian, alcuni scienziati mettono in dubbio la necessità stessa di ricorrere alle risorse dei fondali oceanici: lo sviluppo tecnologico e il miglioramento delle attività di riciclo potrebbero permettere di ridurre la domanda, che si avvicinerebbe alla disponibilità sulla terraferma.

Nel frattempo, alcune aziende stanno studiando soluzioni meno invasive. Come racconta la Bbc, ad esempio, l’azienda californiana Impossible metals ha sviluppato un robot sottomarino in grado di scansionare i noduli polimetallici per individuare la presenza di organismi presenti ed evitare di prelevarli dal loro habitat: l’azienda ha dichiarato una precisione del 95% nel riconoscimento di forme di vita di dimensioni pari o superiori a un millimetro grazie all’utilizzo dell’AI.

L’azienda norvegese Seabed solutions sta lavorando a un dispositivo per estrarre esclusivamente le croste o gli strati superficiali contenti minerali, riducendo il volume di sedimenti che verrebbero rimossi. La compagnia olandese Allseas, invece, sta testando la possibilità di rilasciare i sedimenti scartati a profondità intermedie per limitarne la dispersione.

I fondali oceanici rappresentano l’ultima frontiera dell’estrazione mineraria, ma anche una prova per l’umanità: riusciremo a trovare un modo per sfruttare i fondali rispettando gli ecosistemi marini?