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Tra clima estremo e infrastrutture inefficienti l’Italia rischia una crisi idrica sempre più grave

I casi di emergenza idrica non sono episodi isolati, ma segnali di problemi strutturali aggravati dal cambiamento climatico. Gli interventi di manutenzione sono ostacolati da una governance non coordinata.

martedì 11 marzo 2025
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L’estate è ancora lontana, ma in Puglia la situazione idrica è già preoccupante. Il presidente del Consorzio per la bonifica della Capitanata, Giuseppe De Filippo, lo ha detto chiaramente in un’audizione al Consiglio regionale della Puglia: l’insufficienza idrica dovuta alle scarse piogge è così grave da far prevedere l’impossibilità di iniziare la stagione irrigua, il periodo (di norma compreso tra il 1° aprile e il 31 ottobre) in cui i Consorzi mettono a disposizione le risorse idriche per l’irrigazione dei campi. Come riporta l’Associazione nazionale Consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue (Anbi), l’impatto negativo sull’economia della provincia di Foggia potrebbe essere di 1 miliardo e 400 milioni di euro su un prodotto complessivo di circa 7 miliardi. Già nel 2024 la siccità aveva colpito il settore agricolo foggiano e la produzione di grano si era ridotta del 50%, quella dei pomodori del 25%.

Se in Puglia l’allarme è già alto, in Basilicata la crisi idrica si è temporaneamente attenuata dopo alcune piogge e nevicate di gennaio che hanno riempito l’invaso artificiale del Camastra. Il commissario straordinario per l’emergenza idrica e presidente della Regione, Vito Bardi, ha permesso alla società che gestisce la rete idrica della Basilicata di utilizzare l’acqua del lago e ha sospeso il razionamento nei 29 comuni interessati. A dicembre del 2024 le scuole di cinque comuni della provincia di Avellino, in Campania, sono state chiuse a causa della siccità: per mesi molti comuni della zona sono rimasti periodicamente senza acqua corrente per mancanza di pioggia e per le pessime condizioni delle reti pubbliche. Nell’estate del 2024 la crisi idrica è stata particolarmente grave in Sicilia, Sardegna e Abruzzo, dove molti comuni hanno dovuto razionare l’acqua o integrarne la fornitura con le autobotti. E ancora prima, tra il 2022 e il 2023, a dover affrontare una grave crisi idrica è stato il Nord Italia, con il Po in secca e il livello dei laghi al di sotto della media storica ed enormi conseguenze per l’agricoltura, l’allevamento e la produzione di energia elettrica.

Queste emergenze non sono solo un’anticipazione del futuro che ci aspetta: il cambiamento climatico renderà la siccità sempre più frequente e intensa. Ma sono anche il segnale di una crisi strutturale che nel nostro Paese si trascina da decenni, tra reti idriche inefficienti, prelievi eccessivi, infrastrutture obsolete e una governance frammentata.

Senza politiche adeguate il 95% delle terre sarà degradato entro il 2050

Dalla Cop 16 sulla desertificazione 12 miliardi per i Paesi più colpiti, ma servirebbero almeno 2600 miliardi entro il 2030 per ripristinare le aree degradate. Nel Sahel la Grande muraglia verde avanza a rilento.

Sempre meno acqua a disposizione?

L’Italia, per le sue caratteristiche climatiche, è tra le aree del mondo maggiormente esposte al rischio di siccità. Secondo il Rapporto ASviS 2024, tra il 2016 e il 2020 il 41,6% del territorio italiano ha vissuto almeno un mese di siccità estrema con gravi conseguenze, tra cui la riduzione della disponibilità di acqua potabile, un calo della produttività agricola e un aumento dei rischi di incendi. I dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), riportati anche nel Rapporto Territori 2024 dell’ASviS, mostrano un aumento nella frequenza degli episodi di siccità estrema: dagli anni ’50 ad oggi sono stati cinque i casi di siccità estrema che hanno caratterizzato oltre il 20% del territorio italiano, quattro dei quali negli ultimi vent’anni (nel 2002, 2012, 2017 e 2022).

Parallelamente, continua a diminuire la disponibilità naturale di risorsa idrica rinnovabile, ovvero la quantità di acqua disponibile negli ecosistemi e per i diversi usi, al netto della perdita per evapotraspirazione (la quantità d’acqua che torna nell’atmosfera per l’evaporazione dagli specchi d’acqua e dal terreno e dalla traspirazione delle piante). Nel 2023 si è ridotta del 16% rispetto al trentennio climatologico 1991-2020, un dato che riflette il crescente impatto del cambiamento climatico.

Il futuro non promette miglioramenti: l’aumento delle temperature e la riduzione delle precipitazioni porteranno a un’ulteriore contrazione delle risorse idriche. Come evidenziato da un documento elaborato dal Gruppo degli Enti meteo nazionali, la riduzione potrebbe essere del 10% nel 2030, anche con un approccio di mitigazione. Senza interventi per ridurre le emissioni, il calo può raggiungere il 40% entro il 2100 (con picchi del 90% nel Sud Italia).

In cerca di soluzioni, tra invasi e dissalatori

Il problema non riguarda solo la quantità di pioggia, ma anche quanta può essere effettivamente utilizzata. Nel 2023, ad esempio, quasi il 60% dell’acqua caduta è tornata in atmosfera a causa dell’evapotraspirazione. È un dato in aumento rispetto alla media di lungo periodo (pari al 52%) ed è destinato a peggiorare con l’aumento delle temperature. Il restante 40% è rimasto nel terreno, alimentando le falde acquifere, i fiumi e i laghi (naturali e artificiali).

Per raccogliere e conservare l’acqua piovana occorrono infrastrutture di stoccaggio efficienti, come invasi e laghetti. Secondo i dati del ministero dei Trasporti, al 31 dicembre 2024, in Italia sono presenti 525 grandi dighe, ovvero di altezza maggiori ai 15 metri e con un volume di invaso superiore a un milione di metri cubi. Non sono invece disponibili le stime ufficiali del numero delle “piccole dighe” di competenza delle regioni.

Molti invasi, tuttavia, non possono essere utilizzati a pieno regime a causa dei sedimenti accumulati negli anni: come riporta la relazione della cabina di regia del Commissario straordinario nazionale per l’adozione di interventi urgenti connessi al fenomeno della scarsità idrica, Nicola Dell’Acqua, su un totale di 468 grandi invasi strategici il volume di acqua disponibile è di 8406 milioni di metri cubi, ben al di sotto dei 10 352 milioni previsti. Per aumentare la capacità di invaso sono quindi necessari interventi di sghiaiamento e sfangamento: il Commissario Dell’Acqua ha stimato una spesa di 508 milioni di euro per rimuovere 58 milioni di metri cubi di sedimenti e recuperare in media il 5% del volume di invaso.

Tra le soluzioni sperimentate per affrontare la carenza idrica c’è la desalinizzazione. A novembre del 2024 la Regione Sicilia ha annunciato un investimento di 100 milioni di euro (di cui 90 provenienti dal Fondo di sviluppo e coesione dello Stato) per riattivare quattro dissalatori in disuso. I dissalatori trasformano l’acqua del mare in acqua potabile: potrebbero sembrare la soluzione perfetta dato che il 97% dell’acqua presente sulla Terra è salato; tuttavia, consumano grandi quantità di energia e producono scarti difficili da smaltire. Nonostante i progressi tecnologici, i dissalatori restano poco diffusi. Si stima che nel mondo siano attivi 15-20mila dissalatori che forniscono acqua dolce a 300 milioni di persone.

Preoccupa ancora la dispersione idrica

Un altro problema cronico è la dispersione delle reti idriche: nel 2022 era pari al 42,2%, in aumento rispetto al 2018. Secondo il Rapporto ASviS 2024, con questo trend sarà impossibile raggiungere l’obiettivo di ridurre del 15%, entro il 2026, la dispersione idrica rispetto ai valori registrati nel 2015, portandola al 35,2%. Circa un quarto delle reti idriche ha più di 50 anni e necessiterebbe di importanti lavori di manutenzione.

Lo stato delle reti idriche è strettamente legato alle tariffe del servizio, troppo basse per coprire i costi di manutenzione. Il Rapporto ASviS 2024 evidenzia anche la necessità di migliorare le politiche di water pricing per incentivare un uso più efficiente dell’acqua. Questo permetterebbe di valorizzare gli sforzi fatti negli anni per migliorare la contabilità idrica nei diversi settori, incluso quello irriguo.

Una gestione frammentata

In Italia la gestione delle risorse idriche è suddivisa tra diversi enti, con competenze frammentate. A livello territoriale, dal 2016 l’Italia è suddivisa in sette distretti idrografici, ognuno affidato a un’Autorità di bacino distrettuale responsabile della gestione e della pianificazione delle risorse idriche dei rispettivi bacini.

Lo Stato e le Regioni finanziano le opere pubbliche, come la costruzione degli invasi, mentre i consorzi di bonifica e irrigazione (che sono associazioni di privati e sono oltre 150 in tutto il Paese) si occupano della manutenzione e della gestione delle infrastrutture, a volte operando su più Regioni. Gli Enti di governo dell’Ambito territoriale ottimale sono responsabili della regolazione del servizio idrico integrato (l’acquedotto, la fognatura e la depurazione). Attualmente l’Italia è divisa in 62 Ambiti territoriali ottimali sottoposti alla regolazione dell'Autorità di regolazione energia, reti e ambiente (Arera). Come evidenziato dai dati pubblicati dall’Istat nel 2023, la gestione del servizio idrico per uso civile è ancora frammentata: ci sono 2391 gestori, di cui 1997 enti locali e 394 gestori specializzati. È un numero in calo rispetto ai 7826 del 1999, ma ancora elevato in particolare in Calabria, Campania, Molise, Sicilia, Valle D’Aosta e nelle province autonome di Trento e di Bolzano.

Questa complessa rete di enti e suddivisione delle competenze si inserisce in un quadro normativo stratificato, caratterizzato da sovrapposizione e da una mancanza di una governance unitaria, rendendo spesso difficile il coordinamento degli interventi e la programmazione a lungo termine.

Copertina: Ansa