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La Catalogna ci avverte: il mondo sta finendo l'acqua dolce. Che fare?

Il cambiamento climatico e l'impatto delle attività umane minacciano i bacini idrici. Il prosciugamento delle acque interne è una delle sfide globali più urgenti, con gravi impatti ecologici, economici, sociali e geopolitici. Ma le soluzioni non sono indolori.

martedì 6 febbraio 2024
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 “Nella vita di tutti giorni ancora non si nota, hanno diminuito pressione dei rubinetti e a breve dovrebbero togliere l’acqua dalle docce delle palestre; vietato lavare macchine e i parchi pubblici non vengono più annaffiati” racconta una cittadina italiana residente a Barcellona, dove questa settimana è iniziato il razionamento dell’acqua potabile. Negli ultimi tre anni infatti, la Catalogna ha sperimentato la peggiore siccità che la regione abbia mai sofferto da quando sono iniziate le registrazioni (1916) e che ha portato la situazione delle riserve idriche di Barcellona e di circa 200 comuni (nei quali vivono sei milioni di persone) a scendere al di sotto della soglia di rischio del 16%. “Si sentono molte critiche sulla gestione di questa crisi: hanno aspettato troppo per decretare lo stato d’emergenza, quando avrebbero potuto farlo prima e fare scelte razionali per la distribuzione delle poche risorse che ci sono; in più hanno tagliato l’80% della disponibilità di acqua all’agricoltura, ma niente ai settori edilizio e turistico”. Il 2 febbraio infatti, Generalitat, competente nella gestione dei bacini interni, ha ufficialmente dichiarato lo stato di emergenza in questa vasta area, che si aggiunge ai 37 comuni di Girona e Tarragona, dove lo stato di emergenza è già in vigore da tempo. Si tratta della fase peggiore prevista dal Piano speciale di siccità (Pes), in cui le restrizioni più severe si applicano all'industria (25%), ai consumi agricoli (80%), agli allevamenti (50%) ed è stato imposto un limite di 200 litri per persona per il consumo generale nella prima fase dell'emergenza.

Quello che sta accadendo in Catalogna ci conferma che in un'era segnata da cambiamenti climatici e da un impatto umano sempre più evidente sugli ecosistemi naturali, il problema del prosciugamento dei bacini idrici emerge come una delle sfide ambientali più critiche a livello mondiale con ripercussioni ecologiche, economiche, sociali e geopolitiche. Questa problematica non solo testimonia la fragilità dei nostri ecosistemi acquatici, ma solleva anche questioni urgenti riguardo alla sostenibilità delle risorse idriche, fondamentali per la vita sul nostro pianeta.

La crisi climatica e il consumo umano hanno contribuito a una diminuzione del 53% dei grandi laghi e bacini idrici dal 1992 al 2020. L’indagine, pubblicata lo scorso maggio sulla rivista Science, utilizza tre decenni di osservazioni satellitari, dati climatici e modelli idrologici, analizza i 1972 laghi più grandi del mondo, che rappresentano il 95% dello stoccaggio totale delle acque di lago del globo. Guidato da Fangfang Yao (visiting fellow del Cooperative institute for research in Environmental sciences degli Stati Uniti e attualmente ricercatore sul clima presso l’Università della Virginia), lo studio indica che alcune delle principali fonti di acqua dolce del mondo, come il Mar Caspio (tra Europa e Asia) e il Lago Titicaca (in Sud America) hanno registrato una perdita d'acqua con un tasso cumulativo di circa 22 gigatonnellate all'anno (che equivalgono a 22 miliardi di tonnellate, che considerando il peso specifico dell’acqua acqua sono pari a 22 chilometri cubi) per quasi tre decenni. I ricercatori mettono in luce l'urgenza di adottare azioni coordinate e investimenti mirati per affrontare le sfide legate alle risorse idriche su scala globale.

La crisi idrica del 2022 è il segnale di un futuro difficile

La crescente domanda per le risorse idriche e le conseguenze dei cambiamenti climatici rendono l’acqua un bene sempre più scarso, con effetti geopolitici, sociali ed economici di grande rilevanza.

Secondo il rapporto UN Water 2023, l'uso globale dell'acqua ha registrato un incremento medio dell'1% annuo negli ultimi quarant'anni, con proiezioni che indicano un persistente aumento fino al 2050. Complessivamente, il 10% della popolazione mondiale vive in Paesi con livelli significativi di stress idrico. Indipendentemente dai livelli di reddito, tutti i Paesi evidenziano segnali di rischio associati alla qualità e quantità di acqua disponibile.  

La complessa dinamica di questo fenomeno è innescata da diverse cause interconnesse ma il cambiamento climatico e le attività umane svolgono ruoli critici, intrecciati in un complicato gioco di forze che minaccia l'equilibrio idrico dei bacini su scala mondiale.

Il cambiamento climatico, innescato dall'aumento delle emissioni di gas serra, sta provocando un riscaldamento globale con effetti diretti sui corpi idrici. Secondo il Quinto Rapporto di valutazione dell'Ipcc, l'incremento delle temperature medie globali accelera l'evaporazione dell'acqua dai laghi, riducendone il volume e alterandone la biodiversità. Questo processo è aggravato dalla riduzione delle precipitazioni in molte regioni, che diminuisce ulteriormente l'apporto idrico ai laghi, portando a una loro progressiva contrazione. La situazione del lago Ciad ne è un chiaro esempio.

Attualmente, questo grande bacino idrico sta attraversando una gravissima crisi che impatta in maniera molto significativa sulla vita, società ed economia di circa 30/35 milioni di persone residenti in prossimità del lago. Vista la sostanziale assenza di emissari, il Ciad fa necessariamente affidamento sulle precipitazioni piovose per circa il 90% del proprio approvvigionamento idrico. In caso di riduzione del volume delle precipitazioni, la principale linea di rifornimento viene a mancare, mandando in affanno le risorse idriche del lago.

Stando ai dati, si è verificato un deficit pluviometrico accertato del 50-65% dal 1970. Ciò ha contribuito a rendere critica una situazione che stava già lentamente aggravandosi, vista soprattutto la scarsa profondità media (1.5 metri) che contraddistingue il Lago Ciad. La trentennale siccità ha inoltre favorito una massiccia evaporazione delle acque, stressando in tal modo ulteriormente il bacino idrico già in affanno. Secondo l’Onu, negli ultimi decenni il bacino lacustre si è ridotto del 90%.

Parallelamente, le attività umane esacerbano il problema. L'agricoltura intensiva, che si avvale di massicce quantità d'acqua per l'irrigazione, è uno dei maggiori consumatori di risorse idriche dolci. Secondo la Fao, l'agricoltura rappresenta circa il 70% del prelievo globale di acqua dolce, una quota che in alcune aree aride raggiunge il 95%. Questo sfruttamento intensivo spesso supera la capacità naturale di ricarica dei laghi, portando a una loro riduzione. L'urbanizzazione e l'industrializzazione contribuiscono ulteriormente al prosciugamento dei bacini, attraverso la deviazione dei corsi d'acqua, la costruzione di dighe e la contaminazione delle acque con sostanze inquinanti. Il lago d'Aral, un tempo uno dei più grandi del mondo, è il più grande esempio di disastro idrogeologico causato dall’uomo. Durante la guerra fredda, il regime sovietico deviò i corsi d'acqua che alimentavano il lago per irrigare le nuove coltivazioni di cotone, portando a una diminuzione irreversibile delle sue dimensioni. La sua superficie si è ridotta del 75% dal 1960 ad oggi. Inoltre, l'uso intensivo di diserbanti nelle piantagioni di cotone ha inquinato sia il lago che i terreni circostanti. Le conseguenze includono cambiamenti climatici nella regione, con aumento dell'aridità e violenti tempeste di sabbia che diffondono polveri inquinanti per centinaia di chilometri. Queste azioni hanno avuto impatti negativi sulla popolazione locale, creando una serie di problemi ambientali, economici e sociali.

Le conseguenze di questo progressivo prosciugamento sono estremamente ampie e vanno ben oltre la semplice perdita di acqua.

Dal punto di vista ecologico, la diminuzione dei livelli d'acqua nei laghi minaccia la diversità biologica, alterando gli ambienti vitali di numerose specie acquatiche e terrestri che dipendono da questi ecosistemi. Il Rio delle Amazzoni, il più grande fiume del mondo per volume, e molti dei suoi affluenti hanno registrato nel 2023 i livelli più bassi mai raggiunti in 120 anni. La deforestazione dell'Amazzonia, la più estesa e diversificata foresta pluviale del mondo, ha contribuito a una diminuzione delle precipitazioni e ha indebolito la capacità degli alberi e del suolo di trattenere l'umidità. Ciò ha accentuato la siccità e reso la foresta meno resistente alla distruzione operata dagli esseri umani (inclusi gli incendi). In alcune aree, l'Amazzonia si sta trasformando: da una foresta pluviale che immagazzina considerevoli quantità di gas a un habitat più arido che rilascia questi gas nell'atmosfera. Questa situazione rappresenta una doppia minaccia per gli sforzi globali contro il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità.

Sul versante economico, i laghi e i fiumi rappresentano risorse cruciali per la pesca, il turismo e altre attività che sostengono le comunità locali; la loro riduzione può quindi avere impatti significativi sull'economia a livello locale e globale.

Dal punto di vista sociale, il prosciugamento dei laghi influisce sull'accesso all'acqua potabile e sulle pratiche culturali e ricreative legate alla presenza di questi corpi idrici. È il caso dei ghiacciai dell’Himalaya che contribuiscono alle risorse di acqua dolce di quasi due miliardi di persone. La regione dell'Hindu Kush Himalayan (Hkh) che copre oltre 4,2 milioni di chilometri quadrati, è una fonte vitale di ghiaccio e neve, contribuendo a 12 bacini fluviali, tra cui fiumi cruciali come l'Amu Darya, il Brahmaputra, il Gange e il Mekong, che attraversano 16 Paesi asiatici. La temperatura media sta aumentando in tutta la regione con una tendenza osservata di +0,28°C per decennio dal 1951 al 2020. Ciò comporta impatti significativi sullo scioglimento dei ghiacciai e sui modelli di precipitazione che porterà al "picco dell'acqua" entro metà secolo nella maggior parte dei bacini fluviali, con una prevista diminuzione complessiva della disponibilità d'acqua entro il 2100. Questo trend impatterà sulla vita di 240 milioni di persone nella regione dell'Hkh e 1,65 miliardi a valle.

La corsa all’oro blu, i conflitti attuali e le guerre del futuro

Mancanza di accordi internazionali e poca disponibilità alla cooperazione: l’approvvigionamento idrico rischia di essere una delle ragioni di conflitto nei prossimi decenni.

di William Valentini

Ancora, la progressiva mancanza d'acqua dolce disponibile causerà un aumento delle guerre per “l’oro blu”. Nel 2018, un rapporto della Banca Mondiale identificò 507 conflitti globali correlati al controllo delle risorse idriche, con il Medio Oriente e l’Africa identificati come regioni particolarmente vulnerabili. Queste aree, oltre a essere caratterizzate da instabilità politica e problemi di sicurezza, si trovano ad affrontare gravi carenze idriche. Il Darfur, ad esempio, è stato teatro di conflitti etnici e politici accentuati dalla progressiva desertificazione, dovuta a prolungate siccità. Le controversie legate alle risorse idriche tra agricoltori e pastori nomadi hanno contribuito ai sanguinosi conflitti, causando migliaia di vittime e numerosi sfollati. I conflitti legati all'acqua sono destinati a crescere, influenzati dall'incremento demografico, dal fabbisogno energetico e dai cambiamenti climatici.

Per quanto riguarda invece la situazione italiana, non si arresta il trend in calo registrato dall'Ispra sul fronte della disponibilità idrica nazionale. Nel 2022, con un valore medio che supera di poco i 221 mm (corrispondenti a un volume totale di 67 chilometri cubi) e una riduzione di oltre il 51% rispetto alla media riferita al periodo 1951-2022, ha toccato il minimo storico. La riduzione sarebbe decisamente consistente (quasi il 50%) anche facendo riferimento solo all’ultimo trentennio climatologico 1991-2020. I nostri principali laghi e fiumi stanno vivendo una situazione critica, con minacce crescenti dovute a siccità, alluvioni e intense ondate di calore.

Il rapporto del Wwf “L’ultima goccia” analizza il regime fluviale del Po, che negli ultimi decenni ha subito notevoli alterazioni a causa dei cambiamenti climatici. Si osserva una crescente alternanza tra periodi eccezionali di scarsità idrica e periodi di sovrabbondanza d'acqua. Nel 2005, l'Autorità di bacino del Po evidenziava le principali criticità legate alle concessioni e al bilancio idrico nel bacino padano. Nonostante la ricchezza d'acqua della regione, il deflusso medio superficiale attraverso la rete idrografica rappresentava il 60% degli afflussi totali, con una portata continua di 1473 metri cubi al secondo su un totale di 46,5 miliardi di metri cubi. Le risorse idriche sotterranee, stimate in nove miliardi di metri cubi, erano anch'esse parte del quadro.

Gli invasi idroelettrici e i grandi laghi alpini avrebbero dovuto contribuire a migliorare la disponibilità idrica, ma le crisi idriche erano giustificate da un deficit strutturale, evidenziato dal confronto tra la portata media annua di 1470 metri cubi e i diritti di prelievo delle concessioni pari a 1850 metri cubi al secondo, creando un deficit medio di 380 metri cubi al secondo. L'Autorità di bacino del fiume Po ha recentemente evidenziato che, dall'esame dei disciplinari di concessione (obblighi, condizioni e clausole cui è vincolata la concessione) per l'utilizzo delle risorse, emerge come l’ammontare totale dei volumi concessi superi notevolmente la disponibilità idrica media nei mesi estivi. Ciò implica che tutti i diritti concessi non potrebbero essere esercitati simultaneamente, favorendo gli utenti situati a monte che esercitano il diritto per primi. La predominanza dell'irrigazione emerge chiaramente come la causa principale e prioritaria delle problematiche affrontate dal Piano di gestione delle acque del bacino del Po.

Il futuro, dunque, è incerto. L’interazione tra siccità e pressioni antropogeniche è evidente: resta da capire quali strategie si dovranno utilizzare per arginare il fenomeno e, soprattutto, quanto velocemente bisognerà metterle in campo.

Immagine di copertina: Ansa