La corsa all’oro blu, i conflitti attuali e le guerre del futuro
Mancanza di accordi internazionali e poca disponibilità alla cooperazione: l’approvvigionamento idrico rischia di essere una delle ragioni di conflitto nei prossimi decenni.
di William Valentini
Era il 2019 quando, in occasione della Giornata mondiale dell’acqua, l’allora Alta rappresentante per la politica estera dell’Unione europea Federica Mogherini esprimeva l’opinione “fortemente contraria all’uso dell’acqua come arma da guerra” garantendo l’azione internazionale “instancabile” di Bruxelles nella prevenzione e nella soluzione dei conflitti. Inoltre, in quell’occasione la numero uno della diplomazia europea specificò anche l’impegno da parte dell’Unione a “contribuire a una gestione equa, sostenibile e integrata delle risorse idriche” promuovendo la resilienza nei confronti dei cambiamenti climatici e di qualsiasi altra cosa che “abbia un impatto sull’acqua”.
In questo senso, la comunità internazionale ha già preso coscienza da anni della necessità di una gestione multilaterale della risorsa più preziosa, necessaria per lo sviluppo economico e sociale di qualsiasi realtà. “Se le guerre del 20° secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del 21° avranno come oggetto l’acqua” dichiarava già nel 1995 l’ex vicepresidente della Banca mondiale, nonché fondatore della Nuova biblioteca di Alessandria d’Egitto, Ismail Serageldin.
Tuttavia, nonostante venga sottolineata da più parti la necessità di una gestione multilaterale delle risorse idriche, anche oggi i governi nazionali sembrano ignorare il pericolo espresso 25 anni fa da Serageldin. A oggi, infatti, mancano azione concrete a favore di una gestione equa e sostenibile della risorsa. E le notizie di nuovi conflitti che hanno come ragione d’essere proprio l’acqua ne sono sono solo una conseguenza che, se non si interviene, rischia di peggiorare con l’aumento degli effetti del cambiamento climatico.
Water grabbing
Con water grabbing, o accaparramento dell’acqua, ci si riferisce al fenomeno che vede governi o grandi industrie prendere il controllo o deviare a proprio vantaggio risorse idriche preziose, sottraendole alle esigenze di comunità locali o di intere nazioni. Spiega un’analisi realizzata da Pietro Mecarozzi per il sito Linkiesta. “Sempre più Stati si appropriano di bacini acquiferi di piccole comunità locali o nazioni confinanti”. Un fenomeno che ha già dato vita a numerosi conflitti in Medio Oriente, America Latina, Africa e Asia.
Nonostante l’urgenza di regolamentare in maniera equa la gestione dell’acqua, la Convention on the protection and use of transboundary watercourses and international lakes approvato dall’Assemblea generale delle Nazioni unite che sarebbe in grado di incidere su questo problema, è stata ratificata da soli 38 Paesi più l’Unione europea, ma non da Stati Uniti e Cina. Il risultato? Migrazioni forzate, privatizzazione delle fonti idriche, controllo forzato per progetti di agrobusiness di larga scala, inquinamento delle acque per scopi industriali a beneficio di pochi ma con il danneggiamento di interi ecosistemi, controllo delle fonti idriche da parte di forze militari per limitare lo sviluppo. Si tratta di solo alcuni dei fenomeni con il quale si manifestano gli effetti del water grabbing.
Le ragioni del fenomeno, che in futuro rischia di assetare sempre più persone nel mondo, risiedono nella scarsità della risorsa. Il 97,5% dell'acqua che copre la Terra, infatti, è salata e si trova principalmente negli oceani. Solo il 2,5%, dunque, è potabile e può essere utilizzata da piante, animali ed esseri umani. Tuttavia, quasi il 90% non è disponibile, perché è concentrata nelle calotte polari dell'Antartico. Solo lo 0,26% dell'acqua di questo mondo, dunque, è a disposizione per l'uomo e per gli altri organismi. Si tratta di soli 93mila chilometri cubi, pari a un cubo con meno di 50 chilometri per lato.
Le guerre per l’oro blu
“Etiopi in patria e all’estero, per il bene del nostro Paese dobbiamo tutti difendere la seconda fase di riempimento della Grande diga della rinascita. Sforziamoci di proteggere la nostra sovranità e la nostra diplomazia”. Con queste parole, Abiy Ahmed, premier etiope vincitore nel 2019 del premio Nobel per la Pace, ha annunciato l’accelerazione della costruzione di The grand Ethiopian renaissance dam (Gerd), come ricorda l’analisi pubblicata a fine luglio da Repubblica. La diga della rinascita etiope rischia di sconvolgere i tradizionali equilibri tra Etiopia, Sudan ed Egitto nella gestione della risorsa idrica più importante di tutta l’area. La costruzione diventerà infatti il più grande sbarramento idroelettrico di tutto il continente, con una potenza annunciata di 5.150 megawatt, secondo Repubblica. Per domare le acque del Nilo Azzurro, che nasce in Etiopia e sfocia poi nel Nilo proprio nei pressi della capitale sudanese Khartoum, Addis Abeba ha investito “sei miliardi di dollari, più della metà del budget dello Stato, e utilizzato dieci milioni di tonnellate di calcestruzzo, con cui è stato eretto un muro alto 170 metri e lungo quasi due chilometri. La prima pietra di quest’opera titanica è stata posata nel 2011 e da allora la sua realizzazione suscita aspre tensioni diplomatiche tra i tre Paesi”. Basti pensare che la popolazione egiziana - che già conta 100 milioni di abitanti e che cresce esponenzialmente - dipende per il 97% del suo approvvigionamento idrico dal più lungo fiume del pianeta.
Il progetto rischia di ridurre del 25% la portata del Nilo, mettendo in grande crisi la sicurezza alimentare dell’Egitto e del Sudan, coinvolgendo soprattutto popolazioni contadine povere che non sono preparate a gestire una situazione di siccità perenne.
Un problema che rischia di mettere in crisi anche la produzione di energia rinnovabile più a valle, con ovvie conseguenze sull’impatto ambientale. “Arriva meno acqua e per immagazzinarla siamo stati costretti a chiudere alcune valvole, il che ha prodotto meno energia idroelettrica e ciò ha già comportato frequenti tagli di corrente a Khartoum” raccontano ai giornalisti alcuni testimoni sudanesi, che lamentano anche incursioni dell’esercito etiope oltre il confine del loro Paese.
Sul piano internazionale la situazione rischia di scompaginare i fragili equilibri locali, mettendo a rischio la pace nei prossimi anni: lo scorso “martedì 6 luglio, un giorno dopo la notizia secondo cui l’Etiopia aveva iniziato a riempire il serbatoio della diga per il secondo anno consecutivo, l’agenzia di stampa statale saudita Spa ha riferito che il Regno sosterrà l’Egitto e il Sudan nel “preservare i loro legittimi diritti sulle proprie risorse idriche”, così come i loro sforzi “per contenere questa crisi e le loro richieste di risolvere la disputa secondo le norme del diritto internazionale”, spiega Chiara Gentili su SicurezzaIntrnazionale. Dichiarazioni che suonano come una discesa in campo da parte dei sauditi in un’area nella quale la pressione geopolitica delle grandi potenze come Cina e Francia è già altissima.
Una diga contro l’autocrate
Un’altra diga, costruita questa volta durante un’operazione segreta del 2014, oggi rischia di essere una vera spina nel fianco di Vladimir Putin. Una delle ragioni principali della tensione tra Ucraina e Russia è, infatti, il canale della Crimea settentrionale. Lungo circa 420 chilometri, il condotto collega la Crimea, penisola che la comunità internazionale riconosce essere sotto la giurisdizione di Kiev, ma che è stata occupata dai russi nel 2014, con il fiume Dnepr in Ucraina.
Il canale, spiega il New York times, è stato, fino all’annessione della Crimea, la principale fonte d'acqua per tutta l’area. Dopo il 2014, però, Kiev ha costruito in grande fretta la diga per bloccare il flusso del canale. “Ora, la fertile pianura attraverso la quale scorre il canale nella regione di Kherson, nel sud dell'Ucraina, emerge come uno dei principali focolai geopolitici d'Europa. Le tensioni sul canale sono aumentate negli ultimi mesi dopo che una siccità ha aggravato la crisi idrica della Crimea” scrive la testata newyorkese. Il rischio di un’escalation è forte. E l’aumento delle temperature e la diminuzione delle precipitazioni dovuti al surriscaldamento terreste potrebbero facilmente determinare un peggioramento della situazione nei prossimi anni.
Dopo la grave siccità dello scorso anno, la scarsità d'acqua è diventata così grave che i funzionari russi hanno iniziato a evocare lo spettro della morte di massa. Bloccare il canale, hanno affermato gli uomini di Mosca che controllano la penisola, rappresenta “un tentativo di distruggerci come popolo, un tentativo di omicidio di massa e genocidio”. Per questa regione, Putin si è impegnato a spendere 670 milioni di dollari per far fronte alla carenza d'acqua, ma quest'anno i bacini idrici si sono prosciugati ulteriormente e l'acqua viene razionata.
L’opinione politica in Ucraina sembra irremovibile: “Secondo la Convenzione di Ginevra, dicono, è responsabilità della Russia come potenza occupante fornire acqua, e aggiungono che esistono sufficienti falde acquifere sotterranee per provvedere alla popolazione”, un’opinione ribadita anche dal delegato del governo del presidente Volodymyr Zelensky che si occupa della questione della Crimea e che ha illustrato la politica del governo del suo Paese. Anche in questo caso, non esistono regole o convenzioni internazionali per gestire la situazione e non ci sono garanzie per il futuro.
Negli ultimi mesi il capo del governo di Kiev ha visitato gli avamposti e le truppe sul territorio. Mentre a Washington gli analisti statunitensi, che registrano per la prima volta una forte difficoltà in termini di consenso popolare del presidente Putin, ritengono piuttosto probabile un’incursione russa per garantire l'approvvigionamento idrico di tutta l’area.
Una questione di valori
Quest’anno il Rapporto mondiale delle Nazioni unite sullo sviluppo delle risorse idriche fotografa un contesto internazionale nel quale difficilmente nel prossimo futuro si riuscirà a trovare una soluzione alle possibili guerre dell’acqua, nonostante lo stato attuale evidenzi già da decenni la necessità di interventi che permettano una gestione più efficiente e che evitino possibili conflitti.
La ragione alla base di questo immobilismo è la concezione, quasi filosofica, che gli attori che competono sullo scenario geopolitico danno al valore dell’acqua, che è anche il focus dell’edizione 2021 del report delle Nazioni unite.
“I soggetti che determinano il valore attribuito all’acqua ne determinano anche le modalità di utilizzo. Il valore costituisce un elemento essenziale, che definisce i rapporti di potere e l’equità nella governance delle risorse idriche” scrivono gli autori nell’introduzione del lavoro. “Fino ad oggi, purtroppo, il ruolo dell’acqua nel contesto di conflitti, pace e sicurezza è stato paradossale. Sebbene siano numerose le pubblicazioni sul valore positivo dell’acqua quale promotrice di pace, in numerosi casi l’acqua stessa è stata un fattore determinante nello scoppio di conflitti”.
Secondo il report, saper riconoscere, misurare ed esprimere il valore dell’acqua, e tenerlo in considerazione nell’ambito dei processi decisionali, risulta fondamentale per una gestione sostenibile ed equa delle risorse idriche e per il conseguimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile inclusi nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite., che al Goal 6 prevede £ l'accesso universale ed equo all'acqua potabile sicura e alla portata di tutti”.
Se la comunità internazionale e tutti gli attori non facessero proprie queste indicazioni, allargando contestualmente gli accordi contro il Water grabbing, nei prossimi decenni il mondo rischierebbe di assistere al moltiplicarsi di conflitti relativi all’approvvigionamento idrico, rendendo la corsa all’oro blu ancora di più una causa di conflitto e la profezia di Ismail Serageldin sempre più drammaticamente attuale.
di William Valentini