Strategie di economia aziendale per lo sviluppo sostenibile
Se gli obiettivi per il nostro pianeta sono proiettati al 2030 e al 2050, anche le politiche delle imprese devono adattarsi: c’è bisogno di un orizzonte a lunga scadenza.
di Renato Chahinian
Rilevanza della strategia economica aziendale
Anche se recentemente si sta facendo qualche passo indietro sul fronte dell’obiettivo della sostenibilità, per i timori di non riuscire a superare economicamente le sfide che il processo di transizione ci impone, la consapevolezza, che alla fine il risultato sarà positivo e che soltanto con una condotta virtuosa potremo evitare le minacce catastrofiche (naturali e umane) che si profilano all’orizzonte, non ci dovrebbe esimere dal proposito di continuare verso il perseguimento dello sviluppo sostenibile.
Proprio per proseguire su questa via, giova servirsi degli strumenti di economia aziendale, al fine di rendere meno traumatico (e quindi più efficiente ed efficace) l’arduo processo di transizione, che tanto spaventa per l’inevitabile esigenza di investire molto in iniziative ancora poco sperimentate. D’altro canto, la progressiva normativa della rendicontazione non finanziaria impone alle imprese di dimensioni maggiori l’illustrazione delle strategie e politiche aziendali adottate in materia di sviluppo sostenibile in maniera sempre più dettagliata e convincente, a meno che non si ammetta di non sapere o voler fare alcunché per migliorare la società e il pianeta (e quindi facendo intendere implicitamente che stiamo contribuendo alla distruzione totale).
Ma il ricorso all’economia aziendale, valevole per qualsiasi tipo di organizzazione (sebbene la materia sia stata approfondita per lo più con riferimento al mondo delle imprese), abbisogna di qualche adattamento e precisazione rispetto all’applicazione di alcuni principi microeconomici tradizionali, derivati da assunti che prima non tenevano in considerazione la sostenibilità, tra cui il fine del massimo profitto, il quale costituiva anche il principale obiettivo della strategia economica aziendale.
La strategia per la sostenibilità
Il principale adattamento dei principi microeconomici a livello aziendale, per realizzare la sostenibilità delle imprese[1], deve tener conto che:
- il fine di lucro permane, ma il massimo profitto per l’investitore del capitale di rischio va sostituito con l’equo profitto, per dar modo a tutti gli altri stakeholder dell’azienda di ottenere dei vantaggi economici;
- la tensione verso la massimizzazione dei risultati economici deve pure permanere, ma ora il risultato migliore va riferito al valore aggiunto di lungo termine per l’intera collettività;
- un’altrettanta tensione deve essere riservata alla massimizzazione dello sviluppo sostenibile, inteso come massimo risultato integrato di crescita economica, sviluppo sociale e salvaguardia ambientale, tenendo pure presente che le tre dimensioni si possono anche reciprocamente alimentare;
- questo assieme di obiettivi viene programmato e realizzato nell’ambito dell’attività produttiva esercitata dall’impresa stessa e pertanto ogni singola azione deve essere sinergica e il meno possibile dispersiva.
Come si può già intuire, rispetto al solo fine di lucro, ora le strategie devono essere molto più ampie, complesse e rigorose e ciò esige competenze e impegno, prima molto inferiori. Ovviamente, questo maggiore sforzo da compiere a livello produttivo spaventa una società che sinora contava su benefici quasi automatici derivanti da un progresso generato da poche ricerche scientifiche e innovazioni, ma che ha prodotto pure effetti negativi sulla società medesima e sull’ambiente.
La convenienza economica dell’investimento ambientale
Per completare l’argomento sulla convenienza economica degli investimenti sostenibili, questa volta ci occupiamo dell’investimento ambientale.
di Renato Chahinian
In realtà, le necessità attuali impongono un impegno più diffuso, ma non impossibile da sostenere, e i corretti comportamenti aiuteranno a superare i problemi della sostenibilità, consentendo così vantaggi successivi sinora inimmaginabili, i quali, però, si manifesteranno in tempi non ravvicinati.
Proprio per tale motivo, l’orizzonte delle strategie deve essere fissato a lunga scadenza: se gli obiettivi per il nostro pianeta sono riferiti al 2030 e al 2050, anche le nostre strategie aziendali devono essere rapportate a tali date. Ma, a questo punto, notiamo una discrepanza con il luogo comune sinora dominante nella prassi che suggerisce di programmare a tre o al massimo a cinque anni, perché gli scenari esterni all’azienda variano continuamente e quasi quotidianamente succedono fatti (quasi sempre negativi) che ci impongono di cambiare indirizzo. In realtà, occorre notare che il degrado della società e dell’ambiente durano almeno da circa 50 anni (per intenderci, dagli anni Settanta), senza che vi abbiamo posto ancora rimedio con le nostre strategie a breve. Pertanto, pur aggiornando anche gli usuali piani a tre o cinque anni, non possiamo esimerci dall’impostare una strategia più lunga per arrivare alla neutralità climatica della nostra impresa, entro il 2050 o possibilmente prima.
Anche se l’orizzonte programmatorio è così lontano, non possiamo attendere oltre, in quanto l’impostazione del piano richiede tempo e soluzioni strategiche non usuali, né preconfezionate, mentre poi la realizzazione sarà ugualmente lunga e faticosa. Pertanto, occorrerà delineare al più presto una vision e una mission di sviluppo sostenibile, in relazione alle attività d’impresa, che guidino la strategia per soddisfare i quattro principali requisiti sopra delineati.
Equo profitto e valore aggiunto per soddisfare tutti gli stakeholder
Per meglio chiarire l’esposizione, conviene far riferimento al “conto economico” di una qualsiasi impresa, che attualmente consegue un certo utile di esercizio, massimizzato per il profitto dell’azionista.
Se questo è superiore a un equo rendimento, valutabile agli attuali tassi di mercato intorno al 5 – 6% (rendimento dei titoli pubblici più un modesto incremento per il basso rischio, dato che l’investimento sostenibile è meno soggetto a rischi rispetto agli altri), vuol dire che questo si può abbassare a tale limite e il residuo utile può essere indirizzato verso la copertura di nuovi costi in favore di iniziative sostenibili (sociali e/o ambientali). Se invece l’utile destinato alla distribuzione è uguale all’equo rendimento, o addirittura inferiore, non si può decidere alcuna variazione e anzi, nel secondo caso, bisognerà valutare qualche correzione alla gestione economica sin qui seguita. Comunque, esauriti i margini di superiorità dell’utile, il costo di ulteriori investimenti per la sostenibilità non può essere autofinanziato, ma deve essere coperto da finanziamenti esterni.
Rimanendo nell’ambito sociale, gli altri stakeholder (oltre all’azionista, già soddisfatto dalla distribuzione dell’utile) sono nell’ordine: il personale dipendente e autonomo che collabora stabilmente con l’azienda, i fornitori e i clienti (tutti soggetti che hanno diritto a un trattamento soddisfacente, ma equo). Pertanto, non si tratta soltanto di adeguare i compensi per chi è scarsamente remunerato, ma anche di imporre restrizioni a chi pretende troppo.
In linea generale, si può osservare che spesso i dipendenti e gli autonomi fornitori di servizi semplici sono mal pagati, mentre dirigenti e amministratori a volte ricevono compensi eccessivi. Anche con riferimento ai fornitori si devono compiere analoghe valutazioni, pure tenendo conto che questi dovranno adeguarsi alle regole della sostenibilità, al fine del miglioramento sostenibile dell’intera filiera. Infine, bisogna considerare che, tra i clienti, il più importante è il consumatore finale, il quale deve pure pagare un giusto prezzo, in relazione alla qualità del prodotto o del servizio.
Ma se comprendiamo nella qualità anche il valore economico di un bene che non è stato prodotto mediante sfruttamento delle persone e nemmeno provocando danni ambientali, il giusto prezzo sarà superiore a quello dello stesso bene che invece è stato ottenuto calpestando i diritti umani e l’equilibrio della natura. Ovviamente tale surplus dovrà essere contenuto al massimo con miglioramenti produttivi e innovazioni, per fare in modo che il consumatore medesimo possa sopportare il maggior costo, accedendo così al nuovo bene sostenibile.
Come si può notare, sono tutti interventi che in parte peggiorano, ma in parte anche migliorano l’attuale situazione economica aziendale e quindi, alla fine della decisione strategica, i costi aggiuntivi possono ridimensionarsi. In ogni caso, il valore aggiunto aziendale, che tradizionalmente è riferito alla differenza tra ricavi (o valore della produzione) meno costi dei beni e servizi acquisiti all’esterno, finisce per coinvolgere anche questi ultimi con effetti positivi per il Pil di tutta la comunità interessata. D’altro canto, anche gli interventi per la transizione ecologica possono essere razionalizzati e contenuti con un maggiore risparmio energetico, per cui l’imprescindibile ricorso agli investimenti in energie rinnovabili può essere parzialmente ridimensionato.
Massimizzazione del valore aggiunto di lungo periodo per l’azienda e la collettività
Nonostante tutti gli accorgimenti sinora esposti, nella maggior parte dei casi l’entità degli investimenti necessari per una completa strategia di sostenibilità, quale si richiede per lo sfidante obiettivo del 2050, è superiore a quanto attualmente il valore aggiunto aziendale è in grado di garantire. Allora bisogna fare in modo che questo (ma, più estesamente, tutto il conto economico, per il soddisfacimento delle esigenze degli stakeholder e dell’ambiente) sia sufficientemente capiente a coprire i maggiori ammortamenti (per i nuovi investimenti) e i maggiori oneri finanziari (per il maggiore capitale proprio e/o di credito investiti).
La convenienza economica dell’investimento sociale
L’investimento sociale non è donazione e nemmeno elargizione a fondo perduto, ma impiego di capitale che dà benefici economici superiori nel lungo termine e pertanto può attuare anche lo sviluppo economico di ogni organizzazione.
di Renato Chahinian
Può succedere che inizialmente risulti qualche temporaneo squilibrio economico – finanziario, ma, se la strategia è ben impostata, i ritorni non si faranno attendere, per tutti i motivi già evidenziati nei due articoli precedenti in Futura Network (La convenienza economica dell’investimento sociale e La convenienza economica dell’investimento ambientale). In pratica, gradualmente, ma progressivamente, si affermano tanti risparmi di costi, per l’eliminazione delle azioni non sostenibili, e maggiori ricavi derivanti da vari fattori socioeconomici, quali: reputazione, reciprocità, solidarietà e competitività di mercato.
Naturalmente, tutti questi benefici comportano una forte tensione verso l’innovazione produttiva, sia tecnologica, che organizzativa e di mercato. Inoltre, deve verificarsi un radicale mutamento anche della politica di comunicazione aziendale, orientata non più a promuovere gli appariscenti contenuti di un prodotto comune, ma volta a evidenziare le sostanziali qualità di un prodotto etico.
Infine, è da osservare che la massimizzazione del valore aggiunto a vantaggio di tutti gli stakeholder determina la massimizzazione anche degli impatti esterni all’azienda, e pertanto ne beneficia l’intera collettività di riferimento a seconda dell’estensione dell’attività aziendale (mondo, Paese, regione, territorio locale).
Massimizzazione dello sviluppo sostenibile futuro
Poiché il fine dello sviluppo sostenibile è tridimensionale, cioè reciprocamente integrato negli aspetti economici, sociali e ambientali, bisogna sempre fare attenzione che il miglioramento di un aspetto non vada a detrimento degli altri due. Pertanto, si può dire che ogni azione deve prevedere la massimizzazione di ciascuno nel lungo termine, a condizione che gli altri due non peggiorino.
Dato che nella maggior parte dei casi si parte da una situazione economica soddisfacente, la priorità deve essere assegnata ai miglioramenti sociali e ambientali, i quali, poi, come abbiamo osservato, porteranno pure a miglioramenti economici. In generale, si può affermare che la maggior parte delle azioni di carattere sociale o ambientale determinano, in un tempo più o meno lungo, anche impatti economici favorevoli.
Soltanto quando la situazione economica di partenza è precaria, spesso non si verificano miglioramenti, ma ciò dipende dalla inadeguatezza del business oggetto dell’attività aziendale e quindi la strategia deve prima soffermarsi sulla fattibilità del proseguimento della stessa impresa. Ma può anche succedere che, in fase di revisione dello stesso business plan, si scoprano idonee soluzioni di miglioramento economico proprio nella strategia di passaggio a un’attività sostenibile. Infatti, il ripensamento del processo produttivo può portare a individuare occasioni di risparmio, riduzioni di sprechi, materiali più convenienti e così via.
Ovviamente, soprattutto la massimizzazione dello sviluppo comporta un’approfondita analisi che porta a soluzioni ottimali soltanto se deriva dal lavoro congiunto e sinergico di tre professionalità ben competenti rispettivamente in scienze economiche, sociali e ambientali. Nelle grandi imprese tali competenze devono permanere nell’organico aziendale e posizionarsi pure a livelli direttivi; nelle Piccole e medie imprese sono anche sufficienti consulenze esterne per la definizione della strategia, purché comunque ci sia personale dedicato all’attuazione sostenibile dei piani previsti.
Esecuzione, monitoraggio e rendicontazione delle strategie
Se le attività d’impresa sono molto varie, ci potranno essere più strategie che comunque devono essere interconnesse e integrate in un’unica aziendale, facendo ben attenzione che non si prospettino azioni dispersive o che si ostacolino tra loro.
Comunque, è molto delicata anche la fase di attuazione, che deve trasferire in azioni concrete e progressive (da inserirsi in programmi annuali) quanto deciso strategicamente per raggiungere i traguardi alle lunghe scadenze del 2030 e del 2050, con la determinazione di opportuni risultati intermedi in termini di output (risultati del programma operativo) e di outcome (risultati degli impatti derivati dai programmi).
Il monitoraggio di tutti gli interventi dovrà essere affidato a un controllo di gestione efficace, in grado di mettere in relazione automaticamente quantità, importi monetari e grado di attuazione degli obiettivi, con riferimento alla previsione, all’attuazione e agli scostamenti conseguenti.
Se tutto ciò funziona, sarà facile rendicontare adeguatamente secondo gli standard previsti dalla recente normativa europea e dai principi internazionali di rendicontazione sostenibile. Allora, la rendicontazione medesima non si ridurrà a un adempimento aggiuntivo per abbellire un’attività ancora dedita sostanzialmente al mero profitto (social washing e greenwashing), ma costituirà l’occasione di comunicare a tutti il percorso virtuoso intrapreso e i risultati meritori ottenuti.
[1] Sulle nuove teorie dell’impresa che spostano progressivamente il fine dal massimo profitto alla responsabilità sociale e ambientale dell’impresa, si veda L. Becchetti, L. Bruni, S. Zamagni (2014), Microeconomia. Un testo di economia civile, il Mulino, Bologna.
Immagine di copertina: Austin Distel/unsplash