Decidiamo oggi per un domani sostenibile

Per un’economia armonica

Il localismo differenziato come soluzione per affrontare i costi della globalizzazione. Essere comunità è forse la sfida più difficile che ci attende oggi.

di Francesco Cicione

In un precedente contributo allo sviluppo di questo utilissimo ed interessante ciclo di riflessioni promosso dagli amici Bacci Costa e Valentino Bobbio di NeXt – Nuova Economia per Tutti, Paolo Cacciari ci ricorda, molto opportunamente e con efficace capacità di sintesi, come il capitalismo sia fondato su due pilastri (impresa privata e Stato) in liberto mercato.

Due pilastri che, nel corso dei secoli, combinandosi progressivamente e talvolta evolutivamente secondo forme, modalità e pesi diversi, hanno determinato un sistema macroeconomico egemone che, tuttavia, negli ultimi decenni sta sempre più manifestando fragilità e debolezze strutturali insuperabili.

È giusto premettere che mi avventuro nel solco di questa riflessione con l’approssimazione e la semplicità che mi deriva dal non essere né economista, né storico, né scienziato sociale: porto in dote, dunque, semplicemente qualche idea frutto di elaborazioni personali e pertanto inevitabilmente e necessariamente criticabili da chi ha scienza e competenza consolidata in materia.

A ben vedere però, mi sembra quasi banale evidenziare che i segni dei limiti e delle debolezze della dottrina capitalistica, non possono e non debbono essere considerati una acquisizione recente.

Essi, probabilmente, hanno, infatti, a che fare con la natura stessa del capitalismo.

A tal proposito, abbiamo già scritto, di recente, con Luca De Biase:

“Fernand Braudel, lo storico francese che ha guidato la scuola delle Annales alla metà del secolo scorso, riconosceva una distanza incommensurabile tra la dimensione del capitalismo e quella del mercato. Da storico, vedeva il mercato nella sua manifestazione concreta, ripetuta in mille modi diversi attraverso il pianeta: il mercato era prima di tutto la piazza del mercato. Visto così, studiando i comportamenti dei produttori e dei venditori che vanno al mercato a cercare compratori, osservando i gesti dei compratori che contrattano e confrontano le offerte, il mercato appare per quello che è: un insieme di consuetudini, una struttura di luoghi di incontro, una quantità di regole pratiche che garantiscono la concorrenza e favoriscono una leale competizione economica, in relazione a un sistema produttivo e sociale nel quale nessuno può approfittare più di tanto delle sue risorse e nel quale la redistribuzione della ricchezza è tendenzialmente collegata alla generazione di valore che ciascuno produce e che chiunque facilmente riconosce. Nella dimensione del capitalismo la realtà è totalmente diversa. Braudel ricostruisce i primi passi del capitalismo nelle borse veneziane e nelle speculazioni valutarie genovesi, nel controllo delle grandi vie del commercio globale affidato dalle potenze imperialiste alle compagnie destinate a sfruttare le colonie e molto altro ancora. Nel capitalismo non c’è il mercato: ci sono alcuni finanzieri, grandi mercanti, enormi proprietari terrieri, megaindustriali, che hanno risorse straordinarie, che riescono a costruire alleanze con i poteri politici, che accumulano un potere economico tale da riuscire a mettersi al riparo dalla concorrenza. Il capitalismo si finge concorrenziale ma è vocazionalmente monopolistico. Ed è stato il capitalismo a governare negli ultimi quarant’anni, non certo il mercato.” (tratto da Innovazione Armonica. Un senso di futuro, Francesco Cicione e Luca De Biase, Rubbettino 2021)

Ne deriva che associare il concetto di capitalismo a questo tipo di libero mercato, rischia di assumere le sembianze di una ingenua semplificazione, poiché tale mercato è, forse, per il capitalismo solo un sofisticato paravento da strumentalizzare e piegare ai propri scopi.

“La competizione è peccato” amava affermare John Davison Rockfeller, denunciando una visione del capitalismo (di cui lui è esponente di vertice nella storia contemporanea) più prossima al feudalesimo che non ad una moderna concezione dell’economia al servizio del progresso, per quanto arricchita e contemperata da propositi (formalmente) illuminati.

In questo scenario, lo Stato, depositario delle funzioni regolatorie, si è rivelato, in molte circostanze, inadeguato ed impreparato, sterilizzato e compromesso nella sua efficacia da visioni politiche e sociali fortemente ideologizzate e radicali (o in senso neoliberista o in senso statalista), imprigionate nel pregiudizio asfittico delle camicie di nesso di riferimento e pertanto insufficienti o inadeguate a promuovere forme di società giuste e sostenibili.

Tutto ciò, per alcuni (molti) versi potenziato e per altri (pochi) mitigato nei suoi effetti dalla globalizzazione della governance mondiale, dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla digitalizzazione dei modelli relazionali e produttivi, ha determinato una grave polarizzazione della struttura sociale, generando forme di distribuzione della ricchezza pericolosamente ingiuste e squilibrate che hanno condotto il 2% della popolazione mondiale a detenere il 50% della ricchezza.

Oggi in molti, e tra questi l’economista Raghuram Rajan, ci ricordano che in un periodo storico in cui il mercato (e dunque il primato dell’interesse privato) sembra avere irrimediabilmente vinto sullo Stato (quindi sul primato dell’interesse pubblico), bisogna ripartire dal terzo pilastro, ovvero dalle comunità (il primato del bene comune e della comunione nel bene). È nella comunità che dobbiamo riscoprire la capacità di custodire i processi e le dimensioni relazionali e partecipative, la soggettività territoriale e sociale, la creazione di valore condiviso, il consolidamento del senso di un cammino comune, come antidoto alla crescente espropriazione di sovranità che si sta consumando nei confronti degli stati nazionali: ovvero il localismo differenziato come soluzione per affrontare i costi della globalizzazione, preservandone i benefici. Essere comunità è, forse, la sfida più difficile che ci attende poiché esige capacità di perdonare se stessi e gli altri, capacità di riscoprire l’altro come dono verso se stessi e me stesso come dono verso l’altro. Essere comunità è la sfida più difficile, perché significa ristabilire un patto di fiducia tra le persone, tra le istituzioni e tra di esse; significa far rivivere la necessaria comunione dei talenti; significa riaffermare il primato della dolcezza della correzione fraterna sulla violenza della pena ad ogni costo; significa riscoprire il gusto raffinato del dialogo e dell’amore rispetto al sapore forte delle antinomie, della contrapposizione e della rabbia; significa riscoprirsi veri fratelli; significa riscoprire le regole di una giustizia sociale, economica, civile e penale ricca di misericordia e non di prepotenza; significa avere desiderio di riabbracciarci e di pacificarci; significa unirci in uno sforzo comune di ricostruzione; significa rinunciare alle nostre convinzioni ideologiche e culturali inscalfibili e consolidate; significa affermare di voler essere futuro tutti insieme.

Ci troviamo, quindi ed evidentemente, alla fine di una fase storica segnata da semplificazioni, populismi ed ingiustizie (molto probabilmente vi è una forte correlazione con i mali del capitalismo), mentre una nuova non è ancora del tutto iniziata.

L’avvento di una nuova e diffusa sensibilità su questi temi, sui problemi che li caratterizzano e sulle soluzioni possibili, sta, infatti, progressivamente facendo crescere un vasto movimento interessato a promuovere la cultura della sostenibilità, della finanza d’impatto, dell’impresa etica e della nuova economia.

I Ceo delle principali società quotate nella Borsa di New York sono arrivati a firmare insieme un manifesto nel quale affermano: Siamo decisi a liberare l’umanità dalla tirannia della povertà e vogliamo guarire e rendere sicuro il nostro pianeta per le generazioni presenti e future. Siamo determinati a fare i passi coraggiosi e trasformativi che sono urgenti e necessari per mettere il mondo su un percorso più sostenibile e duraturo. Mentre iniziamo questo cammino comune, promettiamo che nessuno sarà escluso”.

Il framework delle policy globali si sta riorientando in maniera radicale: si pensi ai programmi Agenda 2030 ed Addis Abeba dell’Onu, il New green deal e Next generation Eu della Commissione europea, sino alle accorate encicliche Laudato Si' e Fratelli tutti di Papa Francesco.

Si tratta di un percorso ambizioso, necessario ed utile che, tuttavia, interpella la nostra coscienza morale individuale e collettiva con interrogativi fondamentali ed essenziali, se si vuole evitare il rischio di produrre banale storytelling.

Proviamo a tratteggiarne alcuni in maniera sintetica, confidando che farlo, possa risultare utile ad arricchire la nostra riflessione iniziale.

Prima questione. Esiste un modello economico migliore dell’altro? Ogni modello economico è definibile e giudicabile con precisione? Se sì, secondo quali criteri e parametri? Difficile, almeno per me, rispondere con esattezza. Spesso il giudizio rischia di essere ingannevole, gravato da retaggi e sovrastrutture che deformano, finanche in maniera inconsapevole, la prospettiva. Può essere utile, invece, un approccio “possibilista” di impronta “umanistica”. Ovvero: quale che sia il modello, si cerca di orientarlo al bene più grande, ponendo la persona (e solo la persona) al centro. Per uno strano paradosso, ne deriva che proprio i modelli peggiori hanno bisogno di essere umanizzati. Tale approccio implica un esercizio profondo della responsabilità.

Seconda questione. Cosa significa essere sostenibili? Azzardo una risposta: significa essere veri, veri ontologicamente, veri antropologicamente, veri storicamente e cosmologicamente, significa ricomporre la frattura tra verità dell’essere e verità del fine. Oggi si crea per consumare e ciò ha generato la società del consumo. Ma il vero fine è la necessità ed il bisogno essenziale. Consumare in maniera responsabile significa recuperare il vero fine, recuperare la perfetta sintesi tra essere e fine, significa recuperare un rapporto armonico tra uomo e creato, tra uomini e uomini, attingendo a quella sapienza primigenia che in maniera sorprendente ha caratterizzato tutte le più antiche culture della storia.

Terza questione. Come si persegue (e si realizza) la centralità dell’uomo in un modello economico? Giova citare quanto sostiene Nicola Rotundo: “L’odierna bizzarra visione antropocentrica sta facendo di un uomo autonomo ed al contempo despota, la “misura” di tutte le cose. La più grande fragilità oggi non è nell’economia, nell’ecologia, nella politica, nella medicina, nella scienza. Certamente anche in questi ambiti le fragilità sono grandi. Ma ciò che maggiormente è in crisi, oggi, è l’uomo che governa tutti questi ambiti ed è in crisi per carenza di sapienza. Un uomo non sapiente è un uomo “non uomo”. Ed è questo oggi il male più radicale, il punto più debole, la ragione più profonda delle molteplici crisi sociali, finanziarie, ecologiche, politiche che stanno investendo l’umanità. Se è falso l’uomo che fa economia, falso sarà il sistema economico da lui teorizzato e praticato. Se è falso l’uomo che pensa l’economia, mai l’economia sarà o potrà essere sostenibile perché mai sarà pensata e realizzata a servizio dell’uomo e di tutti gli uomini, ma soprattutto a misura dell’uomo e di tutti gli uomini. La vera economia è quella che è pensata a servizio di tutto l’uomo (anima compresa) ed a servizio di tutti gli uomini. Sono economie non sostenibili e come tali sempre andranno in crisi, quei sistemi economici che non rispettano questi due principi. Anche un solo uomo escluso dai benefici di un sistema economico denuncia una carenza del sistema economico sul piano etico.” (L’Uomo al Centro. Per una Ecologia Integrata, a cura di Nicola Rotundo, Rubbettino 2021).

Quarta questione. È solo una questione di equa distribuzione della ricchezza o anche di equa produzione di valore economico diffuso? Il Pil mondiale, rappresentato secondo le regole del diagramma di Voronoi, è stimato in 87,8 migliaia di miliardi di dollari. Attualmente la popolazione mondiale è di 7,8 miliardi di persone e quella attiva dal punto di vista lavorativo è di circa cinque miliardi. Questo vuol dire che mediamente ogni individuo attivo produce ogni anno ricchezza per 17.918 dollari. Tuttavia, poiché sappiamo che il 50% della ricchezza mondiale (che non è il Pil ma comunque è un indicatore significativo) è concentrato nel 2% della popolazione mondiale, dobbiamo dedurne che il 98% della popolazione mondiale attiva (ovvero 98 milioni di persone) producono 43,9 mila miliardi di ricchezza (ovvero circa 447.959 a testa) mentre, i restanti 4,9 miliardi di persona producono i restanti 43,9 mila miliardi (ovvero circa 9.142 a testa). Se non vi sono bug nel ragionamento, mi domando: il tema è solo quello delle diseguaglianze (tanto e giustamente approfondito) oppure vi è (anche) un tema di produttività (e responsabilità) dei singoli e di modello di sviluppo?

Queste premesse portano ad alcune conclusioni sommarie che, traslando il concetto di innovazione armonica che siamo impegnati a promuovere come Entopan, potremmo riassumer in una idea: l’economia armonica.

Come l’innovazione armonica anche l’economia armonica può e deve essere “nobile e gentile”.

Come l’innovazione armonica anche l’economia armonica può e deve essere etica (senza macchia, tersa, inoffensiva, amante del bene, benefica, libera, incontaminata, autentica); intelligente (sottile, acuta, amica dell’Uomo, stabile, sicura, utile, nuova); generativa (performante, emanazione della potenza creativa, nel contempo unica e molteplice); pervasiva (penetrante, mobile, agile, multidisciplinare); sostenibile (circolare, riflesso dell’equilibrio perenne).

Come l’innovazione armonica anche l’economia armonica può e deve credere nell’economia che “dopo aver interrogato la ragione è disponibile ad aprirsi ad una luce più grande, ispirata da un approccio sapienziale costantemente rivolto a perseguire l’incontro tra immanenza e trascendenza, tra finitudine e infinitudine, tra presente ed eternità, tra ricerca scientifica e ricerca morale, nella costante valutazione delle implicazioni etiche di ogni intervento, accettando di confrontarsi con il concetto di “limite” e, più ancora, disponibile ad assumere il concetto di “limite” come centrale nello sviluppo di una coerente, efficace e sana teoria e pratica economica, poiché l’economia “si è”, non la “si fa”.

Noi tutti siamo chiamati a promuovere una economia armonica, nel tempo, nello spazio, nelle relazioni ad ogni livello.

L’economia è uno scambio mirabile: si produce una cosa per avere un’altra cosa. È il seme che muore che produce molto frutto: ancora una volta mirabile scambio. Nella vera economia si consuma la vita per rimanere in vita, si offre il sudore del proprio lavoro per guadagnare il pane quotidiano. Ogni diritto è un dovere maturato. E non il contrario. È una economia che esige la purificazione dal vizio, dai tanti vizi che producono sprechi ed ingiustizie. I piccoli vizi generano sempre gravi squilibri macroeconomici. È certamente questa vera economia etica dai frutti eterni e universali, poiché il frutto prodotto è sempre infinitamente ed eternamente più alto del dono offerto. Oggi, invece e purtroppo, molte economie sono per la morte: si mortifica o finanche si uccide l’uomo solo per sete di guadagno disonesto. Quando per un profitto maggiore si conduce un uomo alla perdita della dignità ed alla morte non si produce vera economia. Il Vangelo ci fornisce, forse, uno degli esempi più esemplari in tal senso: il ricco cattivo, detto un tempo ricco epulone, che usò i beni solo per se stesso e non vide Lazzaro, il povero coperto di piaghe e affamato, seduto dinanzi alla sua porta. Lazzaro invece che visse la sua economia di povertà e di miseria secondo onesta e verità ed ebbe in cambio la sua eternità di gloria: il guadagno è altissimo.

Ma oggi chi crede in questa economia di vera comunione, vera condivisione e vera eternità?

Non credendo né nell’eternità come frutto di un presente armonico ed autentico, l’economia umana tende a definire le proprie regole con l’obiettivo di massimizzare il momento attuale e l’utilità di pochi.

Questo difetto di “trascendenza”, reca, a mio avviso, conseguenze gravi anche in chi si impegna nella promozione di forme orientate a creare un mondo più giusto, poiché è manchevole di una verità piena ed audace.

È necessario, dal mio punto di vista, uno sforzo collettivo di ripensamento dei fondamentali più autentici: senza una riflessione libera ed aperta su di essi il rischio di restare intrappolati nel perimetro limitato di formule, teorie e propagande, sterili ed infruttuose, è altissimo.

Non si sprechi la lezione della storia, dunque: si abbia il coraggio di un cambiamento ontologico.

L’emergenza da Covid-19 ci offre (e ci impone) una grande possibilità (e necessità) di cambiamento.

Oltre il capitalismo, oltre ogni modello economico, per l’affermazione di un paradigma generativo, coesivo, sostenibile, inclusivo ed armonico.

Per l’Uomo e per l’Umanità, nell’autenticità.

 

di Francesco Cicione, founder e presidente di Entopan

martedì 2 marzo 2021