Internet è morto o sta “solo” morendo il web? La battaglia tra megalomani e utopisti
Proliferazione delle app, ottimizzazione dei motori di ricerca e teorie complottiste. Sulla sopravvivenza della rete come la conosciamo è in corso uno scontro su più fronti tra chi vuole dominarla e chi ne difende la libertà.
di Flavio Natale
Per comprendere perché si parli, ormai già da qualche anno, di “morte di Internet”, c’è bisogno di chiarire un concetto: il web e le app sono due mondi distinti, e mentre il primo riguarda Internet come l’abbiamo conosciuto finora, le seconde riguardano Internet come lo stiamo conoscendo (e lo conosceremo).
Chris Anderson, in un lungo articolo pubblicato su Wired, illustra molto chiaramente il concetto: “Ti svegli e controlli la posta sul tuo iPad accanto al letto: questa è un'app. Durante la colazione navighi su Facebook, Twitter e The New York Times, altre tre app. Sulla strada per l'ufficio, ascolti un podcast sul tuo smartphone. Un'altra app. Al lavoro, scorri i feed Rss in un lettore e hai conversazioni su Skype. A fine giornata, torni a casa, prepari la cena ascoltando Pandora, giochi su Xbox Live e guardi un film sul servizio di streaming di Netflix. Hai passato la giornata su Internet, ma non sul web”.
Questa distinzione non è scontata. Come ricorda sempre Anderson, uno degli smottamenti più consistenti avvenuti negli ultimi anni nel mondo digitale ha riguardato proprio il passaggio da un web “aperto” a “piattaforme semichiuse” (le app, per l’appunto) che utilizzano Internet come strumento per il trasporto dei dati, ma non il browser come sistema di visualizzazione. Il motivo più banale di questo spostamento è che le app sono più comode, più eleganti e semplici rispetto alle corrispettive pagine web. La seconda ragione, legata alla prima, è la variazione dello strumento con cui si naviga: il cellulare, invece del computer (a oggi, nel mondo, il 58,27% del traffico su Internet avviene via mobile e il 39,72% da desktop, divario che si restringe in Italia, con un 51,65% contro 46,58%). Con schermi più piccoli c’è infatti bisogno di una navigazione più immediata e agile.
Questo slittamento verso poche e selezionate “piattaforme chiuse” ha però favorito anche un altro movimento: l’accentramento di capitale nelle mani di alcuni predatori apicali. Un esempio: il miliardario Yuri Milner ha acquistato negli anni il 10% di Facebook, e lo ha fatto, come si legge su Wired, minando le strategie dei venture capitalist americani. “Il tradizionale venture capitalist ha un portafoglio di siti web, e si aspetta che alcuni di essi siano dei successi: una buona metafora del web stesso, ampio e trasversale, dipendente dalle connessioni tra i siti piuttosto che da qualsiasi proprietà autonoma”. Investendo su un modello strategicamente diverso, Milner ha scommesso invece su un blocco di potere unico: non solo infatti Facebook è più semplice di un sito web, ma con un 1,929 miliardi di utenti attivi quotidianamente è “il più grande sito web che ci sia mai stato, così grande da non essere affatto un sito web”. Questa affermazione di Milner è vera a tal punto che molti utenti, provenienti in particolare dai Paesi del terzo mondo (ma non solo), pensano che Facebook equivalga a tutto ciò che si può trovare su Internet, equivoco coltivato da Zuckerberg stesso, che già dai primi anni di Facebook domandò ai programmatori di produrre applicazioni e giochi per l’utilizzo esclusivo sul social, in modo da creare una piattaforma su cui gli utenti potessero veder soddisfatta ogni loro curiosità, una specie di “web dentro al web” dove le informazioni, invece che da freddi motori di ricerca, sarebbero state veicolate dai consigli dei nostri “amici”.
Alla luce di queste considerazioni, l’acquisto di Twitter (237,8 milioni di utenti attivi nel primo trimestre del 2022, di cui 41,5 milioni solo negli Stati uniti) da parte di Elon Musk sembra assumere ancora di più i tratti di una lotta tra oligopolisti per la conquista di un monopolio. “Il grande mangia il piccolo”, ha dichiarato Yuri Milner. “In teoria puoi avere pochi individui di grande successo che controllano centinaia di milioni di persone. Puoi diventare grande in modo veloce e questo favorisce il dominio delle persone forti”.
Le parole di Milner, fa notare Anderson, “suonano più come quelle di un tradizionale magnate dei media che come quelle di un imprenditore del web”, considerazione che permette di comprendere quanto il progressivo distacco da un web aperto, gratuito e orizzontale dipenda (anche e soprattutto) dalla crescente influenza in rete di uomini d’affari “più inclini a pensare nei termini del ‘tutto o niente’ dei media tradizionali che in quelli dell’utopismo collettivista del web”. O, per dirla con le parole di Randall Rothenberg, presidente dell'Interactive advertising bureau degli Stati uniti, vuol dire lasciare il web in mano a “un branco di megalomani che vogliono possedere l'intero mondo”.
E le possibilità operative di questi “megalomani”, invece di restringersi, si stanno allargando. Basti pensare che a dicembre 2017 la Federal communication commission statunitense, con tre voti contro due, ha abrogato le norme a tutela della net neutrality, principio fondamentale di Internet che permette a ogni contenuto in rete – dal blockbuster di una grande casa produttrice al blog di quartiere – di avere la medesima opportunità di ogni altro di comparire sullo schermo degli utenti. Questo principio, reso legge dal governo Obama nel 2015, è stato abrogato dal governo Trump nel 2017, e ha dato la possibilità a giganti delle telecomunicazioni come Verizon, AT&T o Comcast di vendere accessi privilegiati alla banda larga al miglior offerente, favorendo la nascita di un internet “a più velocità”, dove i contenuti delle aziende con più disponibilità economiche vengono veicolati con una qualità più elevata rispetto ad altri. Biden ha provato a riaprire la partita, finora con scarsi risultati.
Nonostante le aspirazioni utopistiche e comunitarie, c’è però da dire che il web è già da tempo dipendente da logiche che con la libera proliferazione dei contenuti non hanno nulla a che vedere. L’ottimizzazione per i motori di ricerca (meglio conosciuta come Search engine optimization, o più semplicemente Seo) riunisce tutte quelle attività volte a orientare e indicizzare il traffico sulla rete, e privilegia con la visibilità i siti che rispettano i criteri Seo (ovvero l’utilizzo di specifiche parole chiave nei testi per emergere dalla melma del web), condannando tutti gli altri all’oblio. Per non parlare dei problemi legati alla privacy e alle cookie policy, argomenti a cui sono stati dedicati interi libri e documentari.
Se per alcuni Internet è morto perché lo è il web, per altri invece la causa del decesso risalirebbe a una sorta di infestazione. Secondo la teoria della morte di internet, diffusa nel gennaio 2021 attraverso un post sul forum online Agora road's macintosh cafe, il web sarebbe morto ufficialmente nel 2016 (o all’inizio del 2017) e da quel momento in poi sarebbe dominato dall’intelligenza artificiale. Per l’utente IlluminatiPirate, autore del post, dal 2016-2017 gran parte dei contenuti “presumibilmente creati dagli esseri umani” sarebbe stato prodotto dalle IA, propagato attraverso dei bot e sostenuto “forse” da influencer sul libro paga delle multinazionali in lotta contro il governo americano. Questa teoria, a detta dell’autore, è stata elaborata con il supporto di utenti “esperti di paranormale” del forum 4chan e di altri utenti provenienti da Wizardchan, forum fondato sull’idea del celibato come “strumento per raggiungere la saggezza e ottenere poteri magici”.
Le prove a favore di questa ipotesi, secondo IlluminatiPirate, sarebbero molte: “Ho visto gli stessi thread, le stesse foto e le stesse risposte ripostate più e più volte nel corso degli anni”, ha dichiarato, aggiungendo che l’intrattenimento odierno sarebbe ormai “generato e proposto” da un algoritmo e che la proliferazione dei deep fake non ha altro obiettivo se non l’incremento del senso di entropia e ingannevolezza che domina il web. IlluminatiPirate, per consolidare la sua teoria, si rifà anche a un articolo del New York Magazine in cui lo scrittore Max Read osserva che, in effetti, la maggior parte del traffico web viene ormai generato da bot, e che in alcuni periodi su YouTube è stato registrato un traffico così elevato di bot da temere “l’inversione”, ovvero il confine oltre cui il sistema avrebbe iniziato a considerare i bot umani e gli umani bot.
“Su queste basi, penso sia evidente ciò che sto velatamente suggerendo qui”, ha concluso IlluminatiPirate nel suo intervento su Agora road's macintosh cafe. “Il governo degli Stati uniti è impegnato in una subdola attività di manipolazione psicologica dell’intera popolazione mondiale, alimentata dall’intelligenza artificiale”. Il post è stato visualizzato 231.985 volte.
Teorie complottiste o meno, il futuro del web (se ci sarà) è un’incognita. L’unica certezza è che su questo terreno si combatterà nei prossimi anni una battaglia sempre più aspra: quella tra “megalomani arricchiti” e utenti che credono ancora in un luogo dove chiunque possa sentirsi libero di aprire un sito e di scriverci dentro ciò che desidera.