Asili nido, perché i fondi stanziati superano le richieste
Al Nord progetti in esubero, ma latitano le regioni del Sud che rischiano di perdere un’occasione storica.
di Annamaria Vicini
Parlare di asili nido non dovrebbe essere argomento solo per donne. Ma purtroppo sappiamo che la cultura della genitorialità condivisa stenta a prendere il posto di quella della maternità solitaria, e sarà forse anche per questo che la natalità è crollata nel nostro Paese (12.500 nascite in meno tra gennaio e settembre 2021, quasi il doppio di quanto osservato nello stesso periodo dell’anno precedente secondo i dati Istat).
E allora parliamone, perché l’Italia sta perdendo un’occasione storica, quella di aumentare i posti nei servizi per l’infanzia, sanando lo storico divario tra un Nord che negli anni ha recuperato punti e un Sud rimasto ancora al palo.
Ed è proprio nelle regioni del Mezzogiorno che i fondi stanziati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza rischiano di non arrivare, a causa della mancata attivazione dei progetti da parte dei Comuni.
Perché se complessivamente i progetti presentati coprono 1,2 miliardi di spesa sui 2,4 miliardi stanziati, a fronte di una regione come l’Emilia-Romagna che ha presentato piani in eccesso rispetto alla propria quota troviamo regioni come la Sicilia e la Campania che risultano invece essere molto al di sotto (in Campania 119 milioni sui 328 disponibili, in Sicilia 71 su 300 e anche in Calabria la richiesta resta inferiore al 50%).
Un intoppo che ha spinto il governo a prorogare i termini per la presentazione delle domande dal 28 febbraio al 31 marzo.
Ma sarà sufficiente?
Il timore è che non basti un mese in più, perché i problemi sono ben più profondi e vanno dalla difficoltà dei piccoli Comuni a elaborare gli studi, dal timore delle amministrazioni di accollarsi spese insostenibili per la gestione, alla carenza del personale educativo per questa fascia di età.
“Non sono solo fondi per costruire mura, ma anche per il funzionamento delle strutture”, ha rassicurato la ministra Mara Carfagna intervenendo alla due giorni sulla parità di genere organizzata a Roma da 27esima ora e Io Donna del Corriere della Sera insieme all’associazione Le Contemporanee. La stessa ministra ha però poi aggiunto che “forse i sindaci non ne sono a conoscenza”.
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Qualcosa in ogni caso deve essere stato errato alla fonte visto che per le scuole e i poli dell’infanzia sono stati presentati progetti per 2,1 miliardi a fronte di 600 milioni disponibili e per mense e palestre si è addirittura arrivati a proporre domande per 3,4 miliardi a fronte dei 700 milioni previsti.
Oltre alle difficoltà delle amministrazioni locali, forse persistono ancora, soprattutto al Sud, resistenze culturali nei confronti di un servizio che viene visto come troppo distante dall’accudimento materno considerato ancora il modello privilegiato per bambini al di sotto dei tre anni di età.
Il dubbio è suggerito dal fatto che, mentre in tutta Italia la natalità crolla, dati positivi sono segnalati nelle provincie autonome di Bolzano e di Trento dove si è affermato da tempo il modello delle Tagesmutter, micro-strutture con basso rapporto tra educatrici e assistiti e con orari flessibili di entrata e uscita. Qualcosa insomma di più simile a una struttura familiare che non a un servizio scolastico.
Il tema non è secondario e andrebbe affrontato dalle istituzioni con maggiore impegno.
La maternità infatti è ancora vista come un ostacolo all’occupazione femminile sia dalle donne stesse, che temono di non riuscire a conciliare lavoro e vita familiare, sia dalle aziende, che la considerano esclusivamente un costo.
Di recente ha fatto scalpore un fatto di cronaca che dovrebbe invece costituire la normalità: un’impresa ha assunto una donna che durante il colloquio di lavoro ha ammesso di essere in attesa di un figlio.
Vale ricordare che la partecipazione femminile al mercato del lavoro, attualmente al 52,7%, qualora aumentasse al 60% porterebbe, secondo quanto stimato da Banca d’Italia, un aumento del Pil pari al 7%.
Non solo. I dati dimostrano anche che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, un maggior tasso di occupazione porterebbe anche un innalzamento del tasso di fecondità nel nostro Paese, attualmente tra i più bassi all’interno dell’Unione europea.