Il turismo del futuro viene dal passato: il roots tourism e i benefici per l’Italia
Sempre più visitatori alla ricerca delle radici nel nostro Paese. Comunità della diaspora soprattutto da Brasile, Argentina e Stati Uniti. Ma serve digitalizzazione e migliore programmazione per evitare l’overtourism.
L'Italia è una potenza turistica mondiale e i dati lo dimostrano: nel 2023, il nostro Paese si è classificato quinto a livello mondiale per fatturato di settore, con oltre 134 milioni di visitatori e 451 milioni di pernottamenti, e i turisti internazionali che hanno superato (anche se di poco, 52,4%) quelli nazionali. All’interno di questo andamento positivo, c’è un trend che si sta affermando negli ultimi anni, e che potrebbe portare numerosi benefici: non solo un incremento del flusso turistico, ma anche una distribuzione più omogenea e una riduzione dell’overtourism.
Si tratta del roots tourism, ovvero il “turismo delle radici”, tema a cui The European House Ambrosetti ha dedicato un interessante paper di approfondimento pubblicato durante il Forum di Cernobbio (6-8 settembre). “La ricca storia di emigrazione dell'Italia ha creato una vasta diaspora, con circa 80 milioni di discendenti nel mondo a seguito di due grandi ondate di emigrazione, la prima dal 1861 al 1915 e la seconda dal 1946 al 1973”, si legge nel documento. Una diaspora che sta ritornando in forma di desiderio di visitare la patria ancestrale.
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Il turismo cerca una via sostenibile, ma l’overtourism pone grandi sfide
Il turismo delle radici è un fenomeno abbastanza consolidato: rappresenta circa il 15% delle presenze complessive del settore in Italia. L'analisi del think tank rivela che Brasile, Argentina e Stati Uniti sono le principali fonti di turisti delle radici, riflettendo i modelli migratori storici. Veneto, Campania e Sicilia sono le regioni più visitate, rispecchiando anche qui i trend di emigrazione del nostro Paese. A oggi, questa nicchia di mercato genera notevoli introiti, con un fatturato annuo stimato di 650 milioni di euro (solo dal continente americano) e un impatto potenziale di 65 miliardi di euro di spesa diretta, che sale a 141 miliardi di euro se si considera il moltiplicatore economico del turismo (ovvero gli effetti sugli altri settori). I turisti delle radici tendono a rimanere più a lungo (una media di 9,8 giorni, rispetto ai 6,8 giorni degli altri visitatori internazionali) e a contribuire alle economie locali, soprattutto nelle regioni meno conosciute.
Inoltre, il roots tourism potrebbe svolgere un ruolo importante per il turismo stagionale in Italia. Con le giuste accortezze e offerte mirate, si potrebbe generare un flusso di visitatori più costante durante l’anno. “Questa forma di turismo non solo offre sostanziali benefici economici, ma contribuisce anche a un settore turistico più sostenibile e stabile”, rileva il report.
Come migliorare?
In risposta a questo crescente interesse, il governo Meloni ha dichiarato il 2024 l’“Anno delle radici italiane nel mondo”. Al centro delle varie iniziative a tema il programma “Italea”, nato per sfruttare le potenzialità del roots tourism e finanziato con 20 milioni di euro attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza.
“Italea” si pone l’obiettivo di collegare i discendenti italiani esteri con il loro patrimonio culturale e genealogico attraverso viaggi, itinerari personalizzati (anche nelle regioni meno conosciute) e risorse digitali per la ricerca dei rami parentali. Il programma prevede anche l’ampliamento delle opzioni linguistiche sui siti web di riferimento e l’espansione dei partner commerciali.
Riconoscere la doppia cittadinanza è un’altra “pietra angolare” della strategia, poiché rafforzerebbe il contatto tra comunità locali e diaspora. Ma la burocrazia attuale è da riformare: si parla infatti di 4-5 anni per la richiesta di cittadinanza, mentre il governo punta a ridurre i tempi di elaborazione fino a sei mesi, scommettendo su: digitalizzazione delle procedure, maggiori risorse consolari e aggiornamento del quadro legislativo.
Insomma, come si legge nello studio, in un mondo “altamente competitivo e interconnesso” come quello di oggi, “la capacità di una nazione di stabilire e coltivare connessioni con la sua comunità” appare fondamentale.
Copertina: George Karelitsky/Unsplash