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Boccaletti: “Il futuro del clima non è un’apocalisse. Guai a separare la natura da noi”

Il direttore scientifico del Cmcc: “Il territorio è infrastruttura, non solo paesaggio. Dobbiamo imparare a governare un sistema dinamico. Per decenni ci siamo disinteressati dei nostri fiumi. E oggi porto l’acqua anche a teatro”.

venerdì 12 dicembre 2025
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Fisico di formazione, tra i maggiori esperti internazionali di sicurezza idrica e climatica, Giulio Boccaletti è direttore scientifico del Cmcc, il centro che studia come i cambiamenti climatici interagiscono con la società. Nel suo nuovo libro, Il futuro della natura – Soluzioni per un pianeta che cambia (Frecce Mondadori), spiega che il progresso umano e la sostenibilità ambientale possono non solo coesistere, ma anche nutrirsi a vicenda. Abbiamo già conoscenze e tecnologie per farlo.

Lei scrive che dipingere scenari apocalittici sul clima non funziona. Perché?

È un approccio un po’ manicheo e morale. L’apocalisse come narrazione e come strumento di energizzazione politica non produce una visione progressista del futuro, ma pentimento. Veniamo da una tradizione ambientalista degli anni ’70 e ’80, culminata con il successo dell’Accordo di Montreal, basato sul controllo di un inquinante. Il Trattato quadro sui cambiamenti climatici del 1992 si è ispirato a quella tradizione: l’idea era di definire limiti sui gas serra, utilizzando degli scenari per illustrare cosa sarebbe successo se le concentrazioni fossero cresciute senza limite, per convincere la popolazione a impedirlo. Dobbiamo continuare a cercare di ridurre le emissioni il più rapidamente possibile, ma è indubbio che questo approccio basato sulla sensibilizzazione di un futuro che vogliamo evitare non ha funzionato quanto speravamo. Fino ad ora, l’unico momento in cui le concentrazioni di CO2 in atmosfera non sono salite è stato durante il Covid, con il risultato che ora il cambiamento climatico che speravamo di evitare si sta manifestando. E poi c’è un altro motivo.

Quale?

Nel movimento ambientalista c’è stato un grande fraintendimento: l’idea che la politica sia convincere tutti a credere negli stessi valori. Ma la politica non è una chiesa: è fare sintesi tra persone che hanno valori diversi. Questo slittamento verso una visione moralista ha impoverito il linguaggio politico, portandolo su un piano etico, quasi religioso. Un approccio che non funziona ed è anche un po’ naïf.

Sulle alluvioni in Emilia-Romagna ha detto: “La natura si è ripresa ciò che un tempo controllava”.

Nel Novecento abbiamo adottato la teoria del controllo. Con dighe, argini e canali abbiamo trasformato un segnale variabile in un segnale costante, per adattare la natura ai tempi dell’industria e dell’economia. In Italia gran parte delle infrastrutture idrauliche è stata costruita fino agli anni Settanta, separando i fiumi dal resto del paesaggio. Ha funzionato, ma oggi il cambiamento climatico sta superando le dimensioni delle difese che avevamo costruito. La Romagna è un caso emblematico.

Qual è l’alternativa?

Passare dal controllo alla gestione: rallentare i flussi, intervenire sul territorio, dal tipo di piante ai terrazzamenti. E se non possiamo più controllare rigidamente i fiumi, dobbiamo decidere noi dove farli esondare. Questo vuol dire però gestire il territorio in maniera più dinamica.

Non sta accadendo?

No. L’industria moderna è fondata sull’idea che il paesaggio sia statico, ma la nostra esperienza millenaria ci dice l’opposto: il paesaggio è dinamico ed è un agente enorme che può cambiarci la vita ogni anno.

Nel libro parla di conciliare la modernità con la tutela degli ecosistemi.

In Italia tutto è frutto di una co-evoluzione tra noi e gli ecosistemi. Su 30 milioni di ettari, circa 12 sono foreste, 16 sono agricoli e altri spazi aperti e solo due sono costruiti. Quando parlo di integrazione tra ecosistemi e modernità intendo che questi spazi sono infrastrutture vere e proprie: regolano il ciclo dell’acqua, garantiscono stabilità idrogeologica, assorbono carbonio e producono valore economico. Tutto il territorio italiano è un’infrastruttura di sicurezza, e va gestita come tale. Ma per decenni ce ne siamo dimenticati.

E ora?

Dobbiamo subordinare le funzioni degli ecosistemi ai nostri bisogni. Che non vuol dire deteriorarli, ma averli abbondanti. Negli ultimi 15 anni il Manifesto degli ecomodernisti ha sostenuto un’idea: concentriamo gli esseri umani nelle città e lasciamo metà della Terra alla natura. Una visione che ritroviamo anche oggi, per esempio nella Convenzione sulla biodiversità. Ma separare il mondo in questo modo, con la natura da una parte e noi dall’altra, non è la risposta.

La tecnologia ha un ruolo in tutto questo?

Molto importante. Per gestire un’infrastruttura devi sapere a quale leva corrisponde un certo comportamento del territorio e quando attivarla. Le leve riguardano, per esempio, la vegetazione, la struttura geomorfologica, la rinaturazione, la zonazione. E oggi abbiamo molte più informazioni. Le osservazioni remote, la telemetria e la modellistica ci permettono di costruire modelli simili a “gemelli digitali” dei territori, con cui simulare gli scenari e pianificare le risposte.

Il Cmcc lavora molto sugli scenari climatici.

Siamo circa 500 persone: un’infrastruttura scientifica grande, con molta operatività. Supportiamo il processo dell’Ipcc, di cui siamo focal point in Italia. Siamo uno dei 12 centri al mondo che fanno simulazioni globali di lungo periodo e uno dei quattro centri europei che producono previsioni climatiche stagionali. Lavoriamo su tutte le scale temporali, dagli scenari di lungo periodo alle previsioni stagionali. Ma lo scenario non serve a dire che tempo farà tra trent’anni: serve a capire quanto il sistema climatico è sensibile ai gas climalteranti e, soprattutto, a misurare il costo del non fare nulla.

Il vostro supercomputer è uno dei più potenti d’Europa per la simulazione climatica.

Lo stiamo trasformando per affrontare la sfida dell’intelligenza artificiale, che ha già investito in modo forte il nostro campo. Oggi le previsioni meteorologiche non si basano più solo sui modelli tradizionali: l’impatto dell’AI, ovvero della modellistica empirica, è una nuova frontiera della ricerca scientifica. Con potenzialità enormi, perché permette di risolvere alcuni problemi che i modelli classici faticano ad affrontare.

Lei nel 2021 ha fondato, insieme ad altri soci, una società di analisi geospaziale.

La conservazione ambientale ha una tradizione poco empirica: i risultati si misurano sulle azioni compiute, non sugli effetti fisici reali. Anche i target della biodiversità, come il “30% protetto”, sono obiettivi di attività, non di risultati osservabili. Ma la domanda vera è un’altra: quell’ecosistema ha fermato l’acqua? Ha assorbito carbonio? Lo stesso è avvenuto con i mercati del carbonio dopo Kyoto: tutto è basato su attività, ma alla fine contano le concentrazioni reali di CO2. Oggi con Chloris Geospatial, la compagnia che ho fondato con Alessandro Baccini, Marco Albani e Mark Friedl, possiamo misurare dallo spazio la struttura e il peso reale della biomassa, pixel per pixel, vedendo ciò che accade alle foreste.

Come nasce Bestiario Idrico, lo spettacolo teatrale che ha scritto con Marco Paolini?

Marco aveva letto il mio libro Siccità e da tempo stava lavorando sul tema dell’acqua. Ci siamo conosciuti, il progetto gli è piaciuto ed è nato questo spettacolo che prova a raccontare la storia del territorio veneto, da dove veniamo e dove stiamo andando. Sto lavorando anche a un altro progetto teatrale con Stefano Accorsi, sempre legato all’acqua.

Una serie che ha scritto con Brian Leith, The Future of Nature, è stata narrata da Uma Thurman.

Lei era stata già la voce di The Age of Nature, un’altra serie in cui ero stato coinvolto. The Future of Nature è il seguito naturale di quel progetto, questa volta focalizzato sul tema delle emissioni. Tornare a lei per la voce è stato quasi automatico, e si è prestata volentieri.

Quale paesaggio la fa sentire davvero a casa?

Beh, io sono della bassa bolognese, quindi è un paesaggio di cipolle, patate e barbabietole, di piccoli borghi medievali nella bassa zanzarosa di Bologna. Le montagne si vedono in lontananza e c’è il fiume Idice a poca distanza da casa mia.

Se pensa al futuro prevale più la preoccupazione o la speranza?

La speranza non è uno stato d’animo ma una pratica, come l’ottimismo. Sennò facciamo come San Girolamo che ode le trombe del Giudizio universale, e non mi sembra un’alternativa sensata. L’obiettivo, mi permetta la retorica, è lavorare per un mondo migliore. Ma bisogna crederci davvero.