“Le imprese smettano di subire i cambiamenti. Serve un’unità di foresight interna”
Strategie aziendali, megatrend, futuri desiderabili: intervista a Elisa Barbieri, direttrice del Master Future & Foresight della Ca’ Foscari Challenge School, in partenza a novembre.
“Spesso imprese e istituzioni subiscono i cambiamenti e reagiscono a shock vissuti come imprevisti. Ma ci sono metodi che permettono, almeno in parte, di anticiparli”.
Professoressa Elisa Barbieri, lei è direttrice del Master universitario di secondo livello in Future & Foresight della Ca’ Foscari Challenge School: un percorso di un anno, pensato anche per chi lavora, formula prevalentemente online, dieci incontri in presenza, due weekend al mese. L’open day è il 9 settembre alle 16, online; la prima scadenza per le iscrizioni è a metà settembre e la partenza è prevista per fine novembre. Qual è stata la scintilla che vi ha portato a creare questo Master sul futuro?
La necessità di recuperare uno sguardo di lungo periodo sui cambiamenti strutturali delle nostre economie e società. In Italia vedevamo uno spazio per la formazione su questo. Così è nata l’idea di un percorso formativo con un partner internazionale di rilievo come il Copenaghen Institute for Futures Studies.
Com’è nata la collaborazione con Copenaghen?
Grazie all’incontro con Valentina Doorly, che ha lavorato con me alla costruzione del programma ed è la coordinatrice del Master. Lei era partner per l’Italia del Copenaghen Institute, già attivo in altri Paesi. Tornata in Italia, ci siamo conosciute e riconosciute nella necessità di proporre una formazione strutturata su questo. Così è nata la partnership: il Copenaghen Institute viene in aula a insegnare una parte dei metodi di strategic foresight. Queste competenze vengono integrate con quelle accademiche di colleghi che si occupano di cambiamenti strutturali: demografia, globalizzazione o de-globalizzazione, deindustrializzazione, cambiamenti climatici, rivoluzione tecnologica (intelligenza artificiale, robotica). È un approccio multidisciplinare: questi cambiamenti si comprendono solo mettendo assieme saperi diversi. Nel Master ragioniamo non solo sui futuri possibili ma anche su quelli desiderabili. I megatrend generano vincitori e vinti: bisogna immaginare risposte che uniscano strategie d’impresa e politiche pubbliche.
Si fa un gran parlare di futuro, c’è chi dice che siamo entrati in un’era di “future-washing”. Ma se molte organizzazioni già conoscono i megatrend, il problema forse è che non sanno come tradurli in scelte concrete. Quali errori vede? E quali strumenti può dare un master come il vostro?
È un tema discusso molto anche con il Copenaghen Institute: molte organizzazioni si affidano a consulenze sugli scenari e sui megatrend, che poi inseriscono nella loro strategia. Il passaggio che proponiamo è diverso: costruire all’interno delle organizzazioni competenze dedicate, personale qualificato che sappia affrontare in modo strutturato la riflessione sul futuro. Che diventi un’attività sistematica, non episodica. In Europa, e non solo, vediamo già nascere unità di foresight dentro le organizzazioni. L’idea è arrivare a questo anche nelle aziende e nelle istituzioni.
Noi, come ASviS, abbiamo proposto di costituire in Italia un istituto di studi sul futuro. Purtroppo, i governi che si sono succeduti negli ultimi anni sono sembrati un po’ sordi su questo.
Il nostro contributo può venire dal basso: formare figure professionali che entrino in imprese e istituzioni. Questo genera maggiore consapevolezza della necessità di fare foresight. L’obiettivo è fare massa critica, rafforzare processi che voi già avete avviato e a cui il Master vuole contribuire.
Lei è economista industriale. Come si è avvicinata al futuro e al foresight?
Grazie all’interesse per il lungo periodo. I miei studi sono sui processi di industrializzazione, sia nelle economie avanzate che in quelle emergenti. Sono processi di lungo periodo: per capirli bisogna guardare indietro nella storia, e questo abitua anche a proiettarsi avanti. Come economista uso metodi statistici ed econometrici, ma osservando alcuni trend dagli anni ’50 al 2008 ho visto come improvvisamente cambino andamento. La proiezione del passato sul futuro è utile, ma non basta. Servono altri metodi, più esplorativi, come lo scenario planning. Le aziende e le organizzazioni non possono non conoscerlo. Perché il tema non è l’efficienza rispetto a un andamento noto, ma la resilienza in un contesto incerto. Dobbiamo creare linguaggi comuni tra discipline che finora si sono parlate poco. Va bene la specializzazione, ma servono momenti formativi in cui i saperi si ricongiungono. Anche questo vuole fare il Master.
Accanto al percorso accademico, c’è stato un incontro, una lettura, un’esperienza che l’ha segnata?
Il mio lavoro mi ha portato a viaggiare molto. Ho iniziato con ricerche in Nord Africa e Medio Oriente, poi mi sono spostata sull’Estremo Oriente. Ho studiato a lungo l’industrializzazione in Cina e, più di recente, anche il caso degli Stati Uniti. I viaggi in Cina mi hanno mostrato quanto possa essere rapido un processo di sviluppo. Paesi percepiti come “emergenti” possono, in pochissimo tempo, posizionarsi alla frontiera tecnologica. Al di là dei metodi che possiamo apprendere, c’è però l’esigenza di una riflessione collettiva, uno sforzo di immaginazione. Non solo nelle università, dove già avviene: anche nella società civile, come fate voi di ASviS.
Nelle nuove generazioni vede questa scintilla?
Decisamente. In aula i giovani dicono cose bellissime sul futuro. Portano valori morali e ideali molto forti. Il problema è che gli lasciamo troppo poco spazio. Probabilmente avrebbero già le risposte, se solo dessimo loro la possibilità di esprimersi.
Che cosa significa in concreto? Non soltanto partecipare ai convegni, immagino.
Significa dare loro un po’ più di spazio nei processi decisionali all’interno di imprese e organizzazioni, ascoltarli di più e lasciarli liberi di proporre soluzioni anche fuori dagli schemi.