Decidiamo oggi per un domani sostenibile

La sostenibilità alla prova delle professioni disabilitanti

A partire dalla Corporate sustainability reporting directive, un'analisi della "sostenibilità ridotta a standard, regola, norma". I danni provocati dalla mentalità del rendicontatore. 

di Francesco Varanini

La Corporate sustainability reporting directive (Parlamento Europeo e Consiglio, 14 dicembre 2022), pubblicata sulla Gazzetta ufficiale il 16 dicembre 2022, cambia le regole della rendicontazione di sostenibilità a partire da gennaio 2024. La sostenibilità è il comune impegno a garantire alle generazioni future diritti e libertà. Serve dunque oggi un'assunzione di impegni. Da parte di ogni essere umano e da parte di ogni organizzazione creata da esseri umani. Quindi anche da parte di ogni azienda.

Lo spirito della norma rimanda al concetto stesso di azienda: "cose da fare per raggiungere uno scopo". Lo scopo stesso di ogni azienda dovrà evolversi alla luce della sostenibilità.  All'impegno di offrire beni o servizi, si aggiunge ora l'impegno a farlo in modo sostenibile.

Ricordiamo cosa vuol dire sostenibilità: garantire alle generazioni future almeno gli stessi spazi di libertà di cui noi godiamo oggi. Rispettare la natura e l'ambiente, ai quali apparteniamo. Ma come è che questa norma così importante, invece di garantire un punto di svolta, finisce per tradire il proprio spirito, e per ridursi a un complicato e fastidioso adempimento?

Un caso esemplare

Un Chief executive officer che per proprie precedenti esperienze come Chief financial officer conosce bene ogni aspetto della rendicontazione contabile e per proprio personale orientamento attribuisce grande importanza alla sostenibilità racconta: "Nonostante la mia competenza è impossibile per me e per i miei collaboratori trovare il tempo anche solo per leggere le migliaia di pagine di regolamenti e tassonomie che presiedono alla stesura del rendiconto. È necessario comunque leggere queste pagine, se non altro per sapere a quali aspettative la mia azienda deve aderire. Esiste una sola soluzione: affidarsi a una delle società di consulenza globale.

Va detto che il costo del servizio non è banale, ma sopportabile per aziende delle nostre dimensioni. Non posso fare a meno di pensare, però, a come il costo della consulenza sia difficile da sopportare per una azienda di dimensioni più ridotte. Bisogna infatti notare che l'aspettativa imposta dalla normativa alla grande azienda riguarda, come è giusto, l'intera filiera, per cui obblighi astrusi di rendicontazione scendono a cascata dalla grande impresa ai suoi fornitori,che possono ben essere piccole o minuscole imprese.

Del resto la normativa europea prevede che in ogni caso, nei prossimi anni l'obbligo di stilare il rendiconto di sostenibilità giunga ad ogni impresa, quale che siano le sue dimensioni. Dato il modo in cui è configurato il rendiconto, l'adempimento richiesto comporterà tempo di lavoro, risorse dedicate e costi che tutti gli osservatori giudicano insopportabili per le Pmi e le microimprese italiane.

Quale è la soluzioni che da molte parti si prospetta, e che anzi molti osservatori danno per già acquisita? Un colpo di spugna: una esenzione, una sanatoria generalizzata.

Ecco dunque la deludente prospettiva: si vuole, giustamente, impegnare ogni azienda a farsi carico di impegni relativi alla sostenibilità; per superare disinteresse e resistenze si impone il vincolo esterno dell'obbligo di legge; la norma però impone requisiti troppo alti; si risolve quindi la questione affidandosi a consulenti, o esentando dal rispetto della norma.

Un inquadramento necessario

Per comprendere come sorge questo circolo vizioso, si deve guardare alle intrinseche caratteristiche degli adempimenti imposti alle aziende, e alla cultura della comunità professionale alla quale è stata affidata l'implementazione della normativa.

Tutto nasce dagli assetti del mercato finanziario globale. Gli investitori finanziari hanno imposto la riduzione dell'orientamento alla sostenibilità al rispetto di standard concentrati su tre aspetti. Esg: environmental, social, governance. Gli standard ai quali ogni impresa bisognosa di investimenti deve assoggettarsi sono stabiliti da enti i cui stretti legami con la comunità finanziaria sono evidenti.

La sostenibilità come impegno e come responsabilità rispetto al futuro, rispetto ad ogni cittadino di oggi e di domani, rispetto alla natura e all'ambiente, è ridotta a ciò che un solo, dominante portatore di interessi vuole garantire a sé stesso.

Gli indicatori Esg sono infatti nient'altro che lo strumento di gestione del rischio corso dall'investitore. La norma dell'Unione europea accetta e subisce questo quadro. Si può ovviamente sostenere che l'Europa non può e non deve chiamarsi fuori dallo scenario globale. Si può anche ricordare che le lobby finanziarie premono sulle autorità europee più efficacemente di quanto sappiano farlo le variegate lobby orientate alla sostenibilità, spesso ingiustificatamente fondamentaliste ed in contrasto tra di loro.

Si deve ricordare che non è facile concepire indirizzi e metriche tese a rilevare la tensione verso la sostenibilità di ogni singola impresa.

Ogni impresa è un organismo vivente diverso da ogni altro. Le metriche in grado di portare veramente alla luce le azioni meritevoli non possono che partire dalla strategia della singola impresa, delle sue tecnologie e dei suoi processi. Dalle strategie, dalle tecnologie, dai processi, è possibile far emergere indicatori tramite i quali misurare il progressivo tendere dell'impresa alla sostenibilità.

D'altro canto appare importante arrivare a indicatori sintetici, tali per cui le performance delle diverse imprese possano essere confrontati.

Vie difficili, ma praticabili. Sta di fatto che la via scelta è un'altra. Anche la nuova normativa europea non fa che riprendere un orientamento affermatosi a partire dagli Stati uniti, e accettato a livello globale. A occuparsi rilevare la tensione di ogni impresa verso la sostenibilità saranno gli esperti di rendicontazione contabile.

L'Unione europea si è affidata all' European financial reporting Advisory Group, Efrag, una associazione privata, di natura tecnica, non politica, nata nel 2001 con l'incoraggiamento della Commissione Europea. Efrag ha per missione il far valere il punto di vista europeo nella definizione degli International Financial Reporting Standards: il modo standardizzato di descrivere la performance e la posizione finanziaria di ogni azienda, in modo che i bilanci siano comprensibili e confrontabili a livello internazionale.

Dobbiamo dunque chiederci cosa vuol dire, in termini culturali, affidare la sostenibilità alla comunità dei rendicontatori. "Join EFRAG's sustainability reporting team as our new environmental reporting specialist", si legge sull'home page del sito dell'associazione.[1] EFRAG si propone ora come punto di riferimento per una nuova figura professionale: sustainability reporting specialist. Potremmo pensare che in ogni azienda, e nella consulenza, serva una nuova figura: il 'sustainability specialist'. Purtroppo appare invece abbastanza evidente che la figura che si prepara ad occupare il centro della scena è il ' sustainability reporting specialist'. La rendicontazione dovrebbe essere la conseguenza, l'esito dell'azione. L'attenzione appare invece posta sul reporting, sulla rendicontazione. Di fatto, ciò che è obbligatorio è rendicontare. E la rendicontazione è tanto onerosa che toglie spazio all'azione. Tutte le aziende sono chiamate ad una corretta rendicontazione. Pazienza se non hanno fatto nulla per impegnarsi concretamente per migliorare la propria sostenibilità.

Questo è quello che inevitabilmente accade se, come sta accadendo, si lascia il pallino in mano ai rendicontatori. La sostenibilità, affidata ai rendicontatori, è da loro riletta in considerazione della loro cultura professionale.

Potere professionale

Prima di porre attenzione alla specifica mentalità del rendicontatore, ed alle conseguenze di questa mentalità, serve guardare in generale al ruolo delle professioni nell'economia e nella società di oggi. La professionalizzazione della conoscenza ha preso sempre più piede nel Ventesimo Secolo. Ci parla di questo, nella forma più sintetica e chiara, Ivan Illich.[2]

“Il potere professionale è una forma specializzata  del privilegio di prescrivere”. Su questo potere di prescrizione che si fonda, secondo Illich, il controllo sociale. Non contano in fondo le conoscenze che stanno alla base di una professione. Conta l'appartenenza ad una organizzazione che garantisce l'esercizio esclusivo della professione.  Ciò che contraddistingue il professionista non è il livello di reddito, né la lunga formazione, né la delicatezza dei compiti svolti, né lo status sociale di cui gode. Ciò che contraddistingue il professionista è “la sua autorità a definire la persona come cliente”, a decidere di che cosa questa ha bisogno e nel fornire, secondo propri tempi e proprie regole, risposta a questi bisogni.

Così, le professioni non soltanto esercitano la tutela sui 'cittadini-divenuti-clienti', ma determinano anche la forma del mondo in cui i  'cittadini-divenuti-clienti' si trovano a vivere. “The shape of his world-become-ward”, scrive Illich, giocando con le parole: mondo ridotto a ward, luogo sorvegliato, fondato su regole frutto della mentalità del professionista. Potremmo dire istituzione totale, o oggi più propriamente piattaforma digitale: in effetti i cittadini sono costretti a vivere su piattaforme digitali costruite da professionisti. La piattaforma prescrive i comportamenti. Illich dice: “citizen-became-client”, ma mi sembra più preciso dire, oggi, “cittadino ridotto a utente”.[3]

Così, nel mondo ridefinito dalle professioni, l'antico motto 'conosci te stesso' è svilito: ci si affida alle conoscenze dello specialista. Sono svilite le conoscenze e le esperienze dei cittadini. II diritti cessano di essere spazi di libertà, inviti all'azione e all'assunzione di responsabilità da parte dei cittadini, e si trasformano in servizi predefiniti. Le professioni, ci dice Illich, disabilitano i cittadini, togliendo loro spazi di azione.

Ecco qui la contraddizione: ci incammineremo verso la sostenibilità solo se ogni cittadino si volgerà verso atteggiamenti, comportamenti ed azioni sostenibili. Ma questo non accadrà se la sostenibilità sarà vista attraverso lo sguardo vigile e prescrittivo di professionisti.

Purtroppo è accaduto proprio questo: i membri di una professione si sono appropriati della sostenibilità. Ci troviamo così a fare i conti con una sostenibilità ridotta a standard, regola, norma. Ci troviamo, anche, a fare i conti con la visione del mondo e la mentalità dei membri della professione che hanno monopolizzato la sostenibilità.

Lo sguardo sul mondo del rendicontatore

Ogni famiglia professionale afferma la propria autorità imponendo chiavi di lettura della realtà. A queste chiavi  di lettura, a queste metriche, vengono attribuite denominazioni volutamente tese ad apparire al cittadino ridotto ad utente astruse, lontano dal senso comune, incomprensibili al profano. Il potere professionale passa anche attraverso le parole.

Nelle procedure previste dalla Corporate Sustainability Reporting Directive, la normativa europea in apparenza tesa a diffondere presso ogni azienda l'impegno ad una azione sostenibile, il momento centrale -oggetto di attentissima descrizione da parte dell'EFRAG, e in Italia dell'OIBR, Organismo Italiano Business Reporting- è l'analisi di materialità. Mentre ancora ci sarebbe tanto da fare per diffondere una piena, profonda, impegnativa comprensione del concetto di sostenibilità, già si sta sostituendo, nel lessico di chi sta in azienda e nella consulenza, la parola sostenibilità con la parola materialità. Bastano ad esempio il titolo ed il sottotitolo del documento che contiene le linee guida dell'OIBR: L'implementazione del principio di materialità. Linee guida per identificare e monitorare la rilevanza delle questioni di sostenibilità.[4]

Material è in inglese espressione tecnica, usata dalla fine del 1500 in ambito legale e contabile, per esprimere un significato che più semplicemente potrebbe essere espresso con important. Per intenderne il senso dobbiamo tornare alle registrazioni contabili.

Nella comunità professionale che raccoglie coloro che ho chiamato fin qui rendicontatori, la figura centrale è il revisore, l'auditor: Il revisore ha il compito di verificare l'affidabilità delle registrazioni:  controllando che tutte le operazioni avvenute siano registrate, e controllando anche che le registrazioni siano conformi agli standard previsti.

E' qui che entra in gioco il concetto di materialità. Devono essere definiti a priori i casi in cui il revisore può transigere, passar sopra, di fronte a mancate registrazioni, o a registrazioni non conformi allo standard. L'analisi di materialità serve ad individuare le registrazioni importanti, rispetto alle quali non sono permesse mancanze, lacune e imprecisioni. L'analisi si fonda sul confronto tra i libri contabili presentati dall'azienda e le regole stabilite.

C'è in gioco qui l'aspetto chiave intorno al quale si definisce la professionalità del revisore: egli, per sua cultura professionale, è diffidente. Parte da una presunzione di sfiducia. Non crede che le dichiarazioni siano fedeli. Nel giudicare la correttezza delle registrazioni non bada tanto a verificare la coerenza tra i processi interni dell'azienda e le registrazioni; si fonda invece essenzialmente sul confrontare le registrazioni con quanto prescritto in un 'libro delle regole'. 

Questo è un tipico approccio cartesiano: un esperto osserva dall'esterno un mondo, e lo descrive in base a regole universali.

Se questo può andar bene per la contabilità, non va bene per la sostenibilità. Eppure l'analisi di materialità, buona per la rendicontazione contabile, è ora applicata alla rendicontazione di sostenibilità. Ogni azienda è chiamata a dichiarare la propria conformità a standard predefiniti. Tramite l'analisi di materialità vengono imposti vincoli: esiste una Grande Tabella che definisce quali sono mappati i comportamenti sostenibili: non si deve far altro che scegliere da quella lista. Esistono poi regole che definiscono con precisione la forma della dichiarazione. La dichiarazione finisce per essere di fatto affidata ad esperti appartenenti alla famiglia professionale dei rendicontatori, ai quali l'azienda si trova obbligata a ricorrere. 

E comunque, anche affidandosi a consulenti, il sistema di regole ed il peso dei barocchi adempimenti richiesti assorbe tempo e risorse, distogliendo l'azienda dai processi di miglioramento che sono la vera fonte della sostenibilità.

Per chi lavora come rendicontatore

Resta da rispondere a un argomento sbandierato da ogni rendicontatore transitato dalla rendicontazione contabile alla rendicontazione di sostenibilità. Essi dicono: l'analisi di materialità finalizzata alla stesura della rendicontazione prevista dalla Corporate sustainability reporting directive prende in considerazione ciò che viene ritenuto rilevante non solo degli investitori, ma anche da una pluralità di stakeholder interni (ad esempio, dipendenti, manager) o esterni (ad esempio, fornitori, creditori, clienti, comunità locale, società, governo.

Ma non è una novità. Da almeno vent'anni gli investitori finanziari invitano le imprese ad assumere impegni nei  confronti dei più diversi portatori di interessi: tutti ricordiamo la cosiddetta Corporate Social Responsbility, CSR. Spesso le imprese si sono davvero impegnate nei confronti di lavoratori, clienti, fornitori ed altri portatori di interessi. Ma  quello che chiedono gli investitori, e quindi, a nome loro, le autorità che regolano il mercato finanziario, è stato solo un impegno di facciata. Un modo di salvare la faccia. Gli investitori finanziari dicono: prima di venire accusati di prevaricare, facciamo sì che le imprese dichiarino di tenere conto non solo delle nostre aspettative, ma anche delle aspettative di altri attori sociali.

Resta il fatto che viviamo in una stagione neoliberista - e in questa stagione lo stakeholder dominante è l'investitore finanziario. Interessato ai rendimenti dell'investimento, anche quando questi vanno a scapito del perseguimento dello scopo sociale dell'azienda destinataria dell'investimento. Non conta tanto che una casa automobilistica produca buone automobili, conta di più che sia alto il valore del titolo in Borsa.

Ecco il ruolo dei rendicontatori: garantire che le imprese stiano alle regole imposte dalla comunità finanziaria. A questo scopo vengono imposte le regole in base alle quali stendere il bilancio contabile.  Ed ora anche le regole in base alle quali stendere il bilancio di sostenibilità.

La comunità finanziaria si è arrogata il diritto di definire ciò che è rilevante, materiale, anche in termini di sostenibilità.

Come impone il proprio interesse prevalente la comunità finanziaria? Attraverso il suo braccio armato: i rendicontatori. I più esemplari detentori di ciò che Illich definiva 'potere professionale'.

Il potere professionale, spiega Illich, è detenuto “per concessione di una élite della quale sostiene gli interessi”. Il rendicontatore, dunque, lavora al servizio di un solo portatore di interessi. Questa è la sua mentalità. Questa è anche, possiamo dirlo in modo del tutto rispettoso, la sua etica professionale.

Ritorno alla cittadinanza attiva

Il senso di fastidio, di estraneità di fronte alla rendicontazione di sostenibilità nasce da qui.

Chi veramente in azienda sente l'impegno orientato ad azioni sostenibili -miglioramento dei processi, attenzione ai diversi portatori di interessi, sguardo rivolto al lungo periodo, al futuro- non troverà nel rendicontatore un compagno di strada, ma al contrario un ostacolo. Il rendicontatore, disinteressato in fondo alle caratteristiche distintive di ogni singola azienda, confronta ogni dato rilevato dalla gestione con il Libro delle Regole, stilato a difesa dell'investitore finanziario. Se la meritevole azione vantaggiosa in termini di sostenibilità portata avanti da una azienda non è prevista nel Libro delle Regole, essa resterà ignota. L'azienda non potrà essere premiata come meriterebbe.

I danni che la mentalità del rendicontatore porta ad ogni politica di sostenibilità appaiono più evidenti se si immaginano le politiche di sostenibilità affidate ad altri professionisti.

Immaginiamo per esempio la sostenibilità osservata dallo sguardo di un'altra professione quella del project manager. Rispetto allo sguardo del rendicontatore, lo sguardo del project manager è certo più costruttivo.

Se le figure professionali deputate ad occuparsi di sostenibilità hanno la mentalità del project manager, agiranno in modo ben diverso dalle figure legate alla mentalità del rendicontatore. Il project manager guarda a uno scopo. La sostenibilità è di per sé uno scopo. E può ben essere intesa come componente necessaria  dello scopo di ogni progetto perseguito in azienda.

Ma, seguendo Illich, conviene ricordare che ogni professione è disabilitante, depotenziante. Conviene quindi limitare per quanto possibile il peso dello professioni. Non serve fare appello ad un'etica della professione. Serve un'etica della cittadinanza attiva. Serve tornare, al di là di ogni professione a considerare centrale la figura del cittadino. Del cittadino che non si lascia ridurre ad utente. E anche del cittadino che, quando si trova ad esercitare una professione, cerca di essere il meno professionista possibile.

Troppo spesso finiamo per dimenticare che ogni lavoratore, ogni manager, ogni professionista è innanzitutto cittadino. Ogni sera, smessi i panni della professione, torniamo a casa. Torniamo ad essere cittadini. I cittadini sono madri, sono padri. Sono membri di gruppi sociali. Sono elettori. Sono impegnati in azioni civili. La sostenibilità, se affidata al professionista, è una falsificazione. Una contraddizioni in termini. Un abuso. Affidare la ricerca dello sviluppo sostenibile a professionisti è fornire ad ognuno un alibi. Ognuno potrà dire: non sono io a dovermene occupare.

Solo se intesa con gli occhi del cittadino responsabile la sostenibilità cessa di essere una tecnica alienante, una mera procedura, ed appare invece come un vivificante, promettente, impegnativo ma raggiungibile obiettivo.

[1]    https://www.efrag.org/

[2]    Ivan Illich, Disabling Professions, Marion Boyars, London, 1977; ultima trad. it: Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti, Erickson, Trento, 2021. https://www.panarchy.org/illich/professions.html.

[3]    Francesco Varanini, Le Cinque Leggi Bronzee dell'Era Digitale. E perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati, 2020. Terza Legge: non sarai più cittadino: sarai suddito o tecnico.

[4]    OIBR,  L'implementazione del principio di materialità. Linee guida per identificare e monitorare la rilevanza delle questioni di sostenibilità, settembre 2022. Il documento è accessibile qui: https://www.fondazioneoibr.it/linee-guida-e-documenti/.

lunedì 19 giugno 2023