Mutilazioni genitali femminili: vietare soltanto non basta, serve approccio integrato
L’istituzione della nuova Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sulla violenza di genere fa ben sperare anche per la Giornata internazionale contro le Mgf.
di Liliana Ocmin
Il 6 febbraio è la Giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili (Mgf), tutte quelle pratiche, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, che implicano la rimozione dei genitali esterni femminili o altre lesioni degli organi genitali femminili per ragioni culturali o altre ragioni non terapeutiche. I danni causati da queste pratiche alla salute sessuale e riproduttiva delle donne, lo ricordiamo, possono essere immediate e di lungo termine, vanno dall’insorgenza frequente di infezioni fino a complicazioni durante il parto, provocando spesso la morte del/della nascituro/a e/o delle stesse madri. Si tratta di espressioni “culturali” che hanno radici profonde e che sono state tradotte in norme sociali. In taluni contesti nascono per conservare la verginità della donna e offrire allo sposo la garanzia della sua purezza, in altri perché si ritiene un bene ridurre il piacere e il desiderio sessuale delle donne, come conseguenza della rimozione di parti dei genitali.
L’Onu stima che siano oltre 250 milioni le donne e le ragazze nel mondo ad aver subito una qualche forma di mutilazione genitale, pratica ancora attiva in oltre 40 Paesi, di cui 27 in Africa, dove si concentra l’80% dei casi. Sono oltre tre milioni, inoltre, le bambine a rischio di essere mutilate ogni giorno. In Italia le ultime stime effettuate risalgono al 2016 (Università di Milano Bicocca), quando già si contavano tra le 60mila e le 81mila donne straniere maggiorenni con Mgf più le neo-cittadine italiane maggiorenni originarie dei Paesi con tradizioni escissorie (almeno tra le 11mila e le 14mila unità) e le richiedenti asilo.
Da qualche giorno è stato approvata all’unanimità in Senato in via definitiva l’istituzione di una commissione bicamerale d’inchiesta sul femminicidio, l’auspicio è che possa operare contro ogni forma di violenza sulle donne a 360 gradi, in particolare nell’aggiornamento dei dati sul fenomeno delle Mgf nonché del monitoraggio sulla piena applicazione della Legge 7/2006 per la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile e successive modifiche.
Non bisogna poi dimenticare le conseguenze dell’emergenza Covid-19 e delle successive crisi scaturite dalle guerre in atto, che hanno bloccato i programmi mondiali finalizzati a combattere le Mgf dirottando i finanziamenti sul problema pandemia e sulle conseguenze della guerra e mettendo quindi a rischio il processo di contrasto della pratica.
Le diverse campagne internazionali hanno prodotto nel corso degli anni importanti risultati. Alcuni dati ci incoraggiano, come, ad esempio, l’adozione da parte di 19 Paesi africani di una legge di proibizione della pratica e di piani d’azione volti a farla conoscere e ad accrescerne l'efficacia; oppure l’adozione da parte degli Stati membri dell’Unione africana, nel 2003, di uno strumento sovranazionale di contrasto della pratica attraverso l’adozione del Protocollo di Maputo, che all’art. 5 bandisce le Mgf come violazione dei diritti fondamentali delle donne, concetto poi ripreso anche nella Convenzione di Istanbul del 2011, pietra miliare nella lotta contro ogni forma di violenza su donne, ragazze e bambine. Il Comitato Interafricano contro queste pratiche si sta adoperando affinché tutta la comunità internazionale si esprima inequivocabilmente contro le MGF.
I progressi, dunque, ci sono, ma procedono troppo lentamente. A questi ritmi, secondo l’Agenzia Onu Unfpa, occorre attendere il 2074 per il dimezzamento del fenomeno. Diviene fondamentale, pertanto, accelerare in questa direzione per cercare di rispettare il più possibile, anche attraverso l’impegno del Goal 5 “Uguaglianza di genere”, la tabella di marcia dell’Agenda Onu per lo sviluppo sostenibile che si pone l’obiettivo dell’eradicazione della pratica entro il 2030. Vietare, ovviamente, è importante ma non basta, è necessario un approccio ad ampio spettro in quanto le Mgf hanno tutta una serie di ricadute sulle vittime, non solo a livello fisico ma anche psichico.
È importante proseguire anche sulla strada della consapevolezza per far comprendere a donne e uomini, attraverso una intensa attività informativa e di sensibilizzazione, che le conseguenze delle Mgf sulla salute fisica e psicologica delle proprie figlie sono devastanti. Occorre, inoltre, garantire un approccio sempre più integrato e adeguato nei confronti di tutte le donne, siano esse disabili e/o migranti, incluse quelle senza documenti, rifugiate e richiedenti asilo, attraverso il divieto di espulsione ed il riconoscimento di un titolo autonomo di soggiorno per le vittime di violenza/Mgf/matrimonio forzato, spesso vittime di una violenza multipla dovuta alla loro specifica condizione.
Tutta la comunità internazionale ha il dovere morale di eliminare questa pratica esecrabile, un fenomeno globale che necessita di una mobilitazione globale, dai governi ai rappresentanti della società civile.
di Liliana Ocmin, CdA OIL e coordinatrice Gruppo di lavoro ASviS Goal5