Alle frontiere dell’active ageing
L’inserimento degli anziani nel circuito produttivo potrebbe mantenere le persone in buona salute e dare un contributo agli sforzi economici del futuro. Il processo incontra però difficoltà strutturali, tra cui un’inefficiente staffetta generazionale. 22/03/21
di Ernesto Auci
La speranza di vita è aumentata molto nell'ultimo mezzo secolo in tutto il mondo, e questo è un dato positivo. L' Italia è uno dei Paesi dove si sono fatti i maggiori progressi. Questi si sono accompagnati con una notevole riduzione del tasso di natalità così che oggi nel nostro Paese circa il 20 % della popolazione ha un'età superiore ai 65 anni. E si prevede che questa percentuale possa salire a circa il 30% entro i prossimi 10-15 anni.
L'aumento dell'aspettativa di vita è uno dei grandi benefici delle moderne società industriali, ma questo comporta ora dei problemi sanitari ed economici che occorre affrontare con idee chiare e innovative per fare in modo che l'allungamento della vita sia anche un incremento della qualità di "vita in buona salute".
Sono anni che a livello internazionale ci si occupa del tema e molti Paesi hanno sviluppato politiche atte a raggiungere questo obiettivo. L'Organizzazione mondiale della sanità ha tracciato una strategia dell'invecchiamento, indicata con il nome active ageing per valorizzare il ruolo degli anziani all'interno della società.
Tutte le ricerche effettuate anche in Italia, ad esempio quella della Cgil, evidenziano che uno dei problemi principali degli anziani è la perdita di ruolo nella società, la solitudine, il non sentirsi utili ed inseriti nel tessuto dei rapporti sociali. Un illustre gerontologo, il professor Vergani, spiega in un bel libro intitolato Ancora giovani per essere vecchi che la forzata inattività aggrava i problemi delle persone anziane e quindi i costi sanitari del paese. Per contro la valorizzazione del ruolo dell'anziano come risorsa da utilizzare in varie attività produttive o di servizio, favorisce anche il mantenimento in buona salute delle persone, oltre a portare un vantaggio importante per l'innalzamento della produttività dell'intero sistema economico. Infatti, in questo modo si riuscirebbe a valorizzare tutti i componenti della società senza lasciare ai margini una percentuale di persone che, come si è detto, presto potrebbe rappresentare circa il 30% dell'intera popolazione.
Le persone già in pensione e che godono di buona salute potrebbero essere utilizzate in molte attività, magari a tempo parziale, sia nel settore privato che nel pubblico. Basti pensare all’affiancamento dei giovani per traferire le esperienze lavorative fatte, o in generale alle attività formative. Molte cose potrebbero essere affidate agli anziani nell’ambito delle attività no profit, o nel settore pubblico per sbrogliare i picchi di attività o smaltire gli arretrati. Il tutto senza costi per il bilancio pubblico, o con costi ridottissimi, che peraltro potrebbero essere più che compensati dai risparmi nel settore sanitario e, in generale, dall'aumento della produttività del sistema.
Bisogna chiarire che la problematica relativa alla “terza età attiva” non riguarda la previdenza, cioè non si riferisce alla questione dell'età pensionabile, ma guarda cosa far fare al pensionato una volta che si è ritirato dal lavoro. Anche se l'età del ritiro si sta spostando più avanti negli anni, sempre più persone ci arrivano in buona salute (tranne categorie logorate da lavori pesanti) e con possibilità di essere ancora utili alla società.
Una seconda opposizione all’impiego dei pensionati sta nella contrapposizione giovani-anziani nei luoghi di lavoro. Infatti, le affermazioni, che pure si sentono spesso anche da parte di autorevoli personalità, secondo le quali la permanenza degli anziani al lavoro toglierebbe posti ai giovani, non sono assolutamente confermate da studi approfonditi economici e sociali. Il problema del mancato inserimento dei giovani nel mondo del lavoro dipende dalla scarsa produttività del sistema e quindi nella bassa crescita che non riesce a creare opportunità per tutti. A ulteriore conferma di ciò sta il fatto che tutti gli esperimenti di "staffetta generazionale" che si sono tentati in Italia, non hanno dato risultati interessanti. Si veda in proposito il flop dell’anticipo pensionistico “quota 100” voluto dal leghista Salvini durante il governo con il Movimento 5 Stelle.
Per cercare di avviare un positivo cambio di passo sull’utilizzo delle esperienze degli anziani sarebbe necessario favorire con apposite normative la possibilità di impiego dei già pensionati con contratti ad hoc, poco onerosi rispetto alla paga oraria di un lavoratore giovane, con un aggravio fiscale ridotto, senza oneri sociali trattandosi di già pensionati. Sarebbe solo obbligatoria una assicurazione contro gli infortuni nel luogo di lavoro. Nel complesso per evitare abusi o il tentativo di mascherare il lavoro “nero”, bisogna pensare alla obbligatorietà di una qualche forma contrattuale diversa dalla classica assunzione, del part time o del contratto a termine.
Infine, è senza dubbio importante che il governo riveda il divieto per i pensionati di prestare consulenze al settore pubblico sotto qualsiasi forma. La norma era nata per interrompere un mal costume che in passato aveva visto molti dirigenti apicali andare in pensione ma poi, di fatto, conservare il loro potere con un ruolo di consulenza. Sarebbe invece opportuno poter utilizzare l'esperienza di alcuni vecchi dirigenti pubblici, magari non nell'amministrazione di provenienza per evitare abusi, in ruoli non operativi e con un tetto retributivo anche piuttosto basso in modo da evitare il riproporsi dei favoritismi del passato.
In conclusione l’utilizzo degli anziani nel circuito produttivo serve da un lato per mantenere le persone in buona salute con vantaggi per i costi sanitari che gravano sulla collettività, e dall’altro può dare un contributo rilevante agli sforzi che tutti i cittadini italiani sono chiamati a fare per superare la crisi sanitaria ma soprattutto per recuperare tassi di crescita paragonabili a quelli degli altri paesi europei dai quali noi ci siamo distaccati da più di vent’anni.
di Ernesto Auci, giornalista e politico, già direttore del Sole 24 Ore