Per avere centralità geopolitica l’Onu ha un disperato bisogno di riforme
Senza una revisione radicale le Nazioni Unite rischiano di rimanere prigioniere del paradosso evocato dal suo Segretario generale: “Il mondo è cambiato, le istituzioni no”.
Indebolita dai paradossi, come la designazione dell’Iran a capo del Forum sui diritti umani, chiamata in causa per l’incapacità di giocare un ruolo attivo nell’aggressione di Putin all’Ucraina e nella nuova escalation in Medio Oriente, l’Onu è tornata oggetto di critiche che ne hanno sottolineato l’inefficienza nel risolvere i conflitti e affrontare le sfide globali. Niente in cui non si possa scorgere una certa continuità con i tempi andati: era il 1967 quando Richard Nixon, mentre correva per la presidenza degli Stati Uniti, definì le Nazioni Unite “obsolete e inadeguate” per come avevano affrontato la Guerra Fredda. Protagonisti diversi, ma stessi toni, alla 78esima sessione dell'Assemblea generale dell’Onu, nel settembre 2023. Il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy ha dichiarato che il veto russo ha reso l’organismo mondiale “inefficace” e che le Nazioni Unite sono in “un vicolo cieco” per quanto riguarda le aggressioni. L’incapacità dell’Onu di agire come moderatrice nella risoluzione di conflitti e guerre è stata evidenziata nella stessa occasione dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, che ha menzionato la Palestina, ma anche la crisi umanitaria a Haiti, la guerra nello Yemen, le minacce all’unità nazionale in Libia e le crisi istituzionali in Burkina Faso, Gabon, Guinea, Mali, Niger e Sudan, nonché il rischio di un colpo di Stato in Guatemala. Casi diversi che sollevano una domanda: l’Onu è davvero efficace in questi tempi moderni? Può davvero contribuire alla costruzione di un futuro sostenibile?
Potenziare le missioni di pace
Le Nazioni Unite sono l’organismo intergovernativo creato dopo la fine della Seconda guerra mondiale per prevenire ulteriori perdite di vite umane. Ad oggi con 193 Stati membri, sono un’organizzazione potente e ramificata. Hanno ottenuto successi significativi in alcune situazioni, contribuendo al mantenimento della pace e alla stabilizzazione di aree colpite dai conflitti: tra le missioni più note, la Unmik in Kosovo, la Monusco nella Repubblica democratica del Congo e la Minurso per il referendum nel Sahara Occidentale. Altre missioni sono state oggetto di critiche per vari motivi, tra cui la mancanza di risorse, la burocrazia, i casi di abusi da parte del personale delle Nazioni Unite e l’efficacia delle missioni in contesti complessi. Alcuni dei fallimenti più noti dei Caschi blu riguardano la guerra civile in Siria, in corso dal 2011, caratterizzata da una risposta limitata e inefficace dell’Onu nel proteggere i civili e raggiungere una soluzione politica; più indietro nel tempo, il genocidio in Ruanda (1994), la guerra in Bosnia (1992-1995) la crisi umanitaria in Somalia (inizio degli anni ’90) e quella in Darfur (Sudan), con ritardi nell’invio di truppe di pace.
È noto che i Caschi blu dell’Onu operano sotto un mandato specifico e possono dunque essere limitati nelle azioni da intraprendere. Questo può renderli impotenti in certe situazioni. Agiscono in aree ad alto rischio, e talvolta sono stati oggetto di attacchi da parte di gruppi armati. Oltre al fatto che qualsiasi missione richiede un lavoro diplomatico complesso per risolvere le questioni, il che può essere difficile da ottenere, gli esperti ritengono che l’Onu potrebbe rafforzare in diversi modi le sue missioni di pace. Fornire ai militari un addestramento e una preparazione più adeguati gli consentirebbe di affrontare le sfide specifiche delle aree in cui operano. Il miglioramento della pianificazione e dell’intelligence consentirebbe loro di comprendere meglio la situazione sul campo. L’adattamento alle minacce emergenti come il terrorismo, i rischi cibernetici e il cambiamento climatico può influenzare le operazioni di pace. Non ultimo, serve rafforzare gli sforzi per proteggere i civili in situazioni di conflitto, compresa la prevenzione delle violenze sessuali e di genere, la protezione dei bambini e la gestione dei campi per i rifugiati e gli sfollati. Tutto ciò richiede un impegno costante degli Stati membri e una volontà di adattarsi alle sfide mutevoli nel campo della pace e della sicurezza internazionale.
Come costruire un futuro sostenibile: le raccomandazioni di Guterres
Ridurre il divario digitale, regolare la diffusione della disinformazione online e ripensare a un nuovo multilateralismo sono alcune delle proposte contenute nei policy brief pubblicati in vista del Summit sul futuro.
Il nodo dei finanziamenti
In generale, l’Onu dipende dai contributi degli Stati membri per finanziare le sue operazioni e le sue agenzie specializzate. Complessivamente il bilancio è aumentato nel corso degli anni, e si nota anche una crescente dipendenza dai contributi volontari, erogati dagli stessi Stati membri ma anche da organizzazioni non governative e dal settore privato per finanziare progetti specifici. Non è un mistero che gli Stati Uniti, pur essendo il maggior contribuente al bilancio dell’Onu, abbiano una storia di arretrati e mancati pagamenti. L’amministrazione Trump aveva ridotto drasticamente i finanziamenti ad alcune agenzie, ma il presidente Biden ha in gran parte annullato tali tagli. Ci sono state discussioni sulla necessità di riformare il sistema di finanziamento per ridurre le disparità nei contributi finanziari tra i Paesi ricchi e i Paesi in via di sviluppo. Alcuni Stati affermano che le quote basate sul Reddito nazionale loro (Rnl) possono comportare oneri finanziari sproporzionati per le loro economie. Per il 2023, il budget ordinario dell’Onu ammonta a 3,4 miliardi di dollari, quasi un quarto dei quali è destinato a missioni politiche speciali. Poi c’è il bilancio per il mantenimento della pace, poco più di 6 miliardi di dollari all’anno, pari solo allo 0,3% della spesa militare globale annuale.
Lo stallo sulle riforme
La critica al ruolo e al funzionamento del Consiglio di sicurezza è di vecchia data. I Paesi dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia meridionale non sono rappresentati tra i cinque membri permanenti con diritto di veto del Consiglio di sicurezza: Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti. Si tratta, e non è un particolare di poco conto, degli unici Paesi dichiaratamente nucleari. Gli ultimi appelli a favore di una riforma del Consiglio di sicurezza sono arrivati da Zelensky, come già scritto all’inizio, e da Biden. Il presidente americano ha chiesto un aumento del numero dei membri permanenti e non permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: “Abbiamo bisogno di più voci e di più prospettive al tavolo dei negoziati”. È noto poi che il G4 formato da Brasile, Germania, India e Giappone si batte da anni per ottenere seggi nei consigli permanenti.
Anche il Gruppo africano, composto da 54 Stati membri delle Nazioni Unite, vuole una rappresentanza nel Consiglio di sicurezza. Vari gruppi hanno avanzato in passato la proposta, interessante ma certamente complessa, di sostituire la Francia con l’Unione europea nel Consiglio di sicurezza. Sulla questione diritto di veto, esistono alcune proposte che vanno dalla sua abolizione a una significativa limitazione in situazioni di genocidio, crimini contro l’umanità o affressione limitare.
In generale, oltre al fatto che i Paesi interessati a ottenere un seggio permanente spesso incontrano resistenza da parte di quelli che già ne detengono uno, ci sono divergenze sul numero e l’identità dei nuovi membri. Uno stallo difficile da superare, visto che le riforme dell’Onu, comprese quella di un Consiglio di sicurezza allargato, richiedono, ai sensi dell’articolo 108 della Carta delle Nazioni unite, una modifica della Carta attraverso una maggioranza di due terzi. Quale potrebbe essere allora la riforma più fattibile?
Secondo il paper “Grasping the nettle of the Un Security Council reform: the Uniting for Consensus proposal“ dell’Istituto affari internazionali, c’è una proposta caratterizzata da un approccio pragmatico e inclusivo: è quella elaborata da un gruppo di Paesi che va sotto il nome di Uniting for Consensus e comprende, tra l’altro, Argentina, Canada, Messico e Pakistan, più l’Italia in qualità di “punto focale”. Oltre agli attuali membri, auspica la creazione di: 9 nuovi seggi a lungo termine con possibilità di rielezione immediata (ora esclusa) da assegnare all'Africa (3), alla regione Asia-Pacifico (3), America Latina e Caraibi (2), Europa occidentale e altri (1); 2 seggi aggiuntivi biennali, 1 da assegnare all'Europa dell'Est e 1 seggio a rotazione riservato ai piccoli Stati (con una popolazione inferiore a un milione di abitanti) e ai Piccoli Stati insulari in via di sviluppo.
Le persone si fidano delle Nazioni unite?
Comunque per adesso bisogna registrare che la fiducia nell’Onu sembra essere rimasta abbastanza stabile negli ultimi dieci anni. Secondo un sondaggio condotto la scorsa primavera dal Pew Research Center, la maggioranza delle persone (media del 63%) in 24 paesi esaminati vede favorevolmente le Nazioni Unite. Un altro 28% lo vede sotto una luce negativa. I dati del World value survey 2017-2022 and European value survey (Wvs/Evs), che copre un arco temporale più lungo e un numero maggiore di Paesi rispetto ad altre indagini, mostrano un leggero calo generale della fiducia nell’Onu a partire dalla metà degli anni ’90. Un calo in linea con la diminuzione della fiducia nelle organizzazioni internazionali più in generale.
Il sistema delle Nazioni unite è burocratico e complesso. Nel 2016, Anthony Banbury ha rassegnato le dimissioni da una carica apicale scrivendo che “se rinchiudessimo una squadra di geni del male in un laboratorio, non potrebbero progettare una burocrazia così esasperatamente complessa”. Sulla carta il segretario generale António Guteress ha le idee chiare su come riorganizzare le Nazioni unite partendo dall’interno: è il cosiddetto “Onu 2.0”, spiegato nel dettaglio in uno dei suoi ultimi policy brief. C’è un grande bisogno di competenze avanzate (meno del 5% del personale Onu lavora in ruoli moderni che hanno a che fare con i dati) e più attenzione alla previsione strategica (solo il solo il 34% degli organi Onu ha elaborato una strategia per utilizzare lo strategic foresight).
Il Summit del futuro del 2024 sarà una cartina di tornasole per verificare se le istituzioni internazionali sapranno tenere il passo per affrontare le sfide contemporanee e avanzare verso la realizzazione dell’Agenda 2030. Come ha affermato il segretario generale Guterres, “è riforma o rottura. Il mondo è cambiato. Le nostre istituzioni no”.