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Bonino: la spinta all’empowerment femminile nel mondo islamico è lenta ma inarrestabile

La situazione delle donne in Afghanistan è tornata indietro di 20 anni, ma la condizione della donna ha tante facce quante sono i Paesi musulmani: possiamo aiutare la crescita dei diritti senza imporre i nostri valori.

a cura di Viola Brancatella

Da sempre in prima linea nella difesa e nell’affermazione dei diritti delle donne in Italia e in diversi Paesi mediorientali e africani, Emma Bonino osserva con grande apprensione i recenti fatti di Kabul e l’abolizione dei diritti civili delle donne, di cui ha notizie di “prima mano” tramite l’associazione “Non c’è pace senza giustizia”, di cui è fondatrice.

Alla luce della sua esperienza come ambasciatrice dei diritti delle donne, grazie ai suoi incarichi istituzionali e alle fondazioni di cui fa parte, al cui fianco lotta da anni contro le mutilazioni genitali femminili, e grazie alla conoscenza diretta di alcuni Paesi musulmani come l’Afghanistan, l’Iran, lo Yemen, l’Egitto e altri, Emma Bonino è una testimone privilegiata della condizione femminile.

Il ritorno dei talebani in Afghanistan dopo 20 anni offre lo spunto di riflessione per interrogarsi sui diritti del genere femminile nel mondo islamico, che è un universo di situazioni particolari per la varietà con cui la legge coranica viene applicata, soprattutto in riferimento ai diritti delle donne. Spesso a un’economia avanzata come quella dell’Arabia Saudita non corrisponde un’emancipazione femminile avanzata, come invece avviene altrove, e all’applicazione dell’Islam come religione di Stato in Indonesia non corrisponde necessariamente un’applicazione della Shari’a a danno delle donne.

Insieme alla senatrice Emma Bonino abbiamo affrontato il tema di questa diversità culturale e ci siamo interrogati sulle diverse condizioni della donna nel mondo islamico, all’interno dei Paesi occidentali e dei Paesi extra-europei, per l’importanza che la parità di genere (Goal 5) ricopre nell’Agenda 2030 delle Nazioni unite.

A partire dalla sua esperienza, l’occupazione dell’Afghanistan da parte dei talebani rappresenta un ritorno a 20 anni fa, oppure c’è qualche speranza?

Quello che io penso ad oggi è niente di buono, per la verità. Il governo provvisorio, smentendo i fantomatici accordi di Doha, non è affatto inclusivo, certamente non per le donne, ma per nessun'altra minoranza, è un governo tutto pashtun, senza nessuna partecipazione degli hazara, dei tagiki o degli uzbechi, che sono clan importanti nel Paese. Guardando le quattro paginette dell’accordo di Doha, non c’è nessun riferimento ai diritti umani, per chicchessia, è tutto concentrato su terroristi. Ai talebani si chiede di rompere qualunque rapporto con questi signori, che stranamente tutti i nostri uffici di intelligence, che siano Nato o americani, non hanno visto né sorgere né strutturarsi in tutta la regione intorno a Kandahar, cosa che mi pare veramente strana.

La situazione diritti è che ad oggi il portavoce del governo provvisorio afghano ha detto chiaramente “Prima la stabilità, qualunque cosa voglia dire, e poi magari pensiamo ai diritti”. Nel frattempo tutta un’altra serie di fatwa o altri divieti impediscono alle bambine di andare a scuola e alle donne di andare al lavoro.

Tutto quello che con grande fatica queste donne afghane, anche con il nostro supporto, avevano conquistato è stato cancellato in due ore.

Ci sono sacche di resistenza da parte di alcuni di questi gruppi che conosco abbastanza, ma la repressione è così forte e ingenera talmente tanta paura che non so fin quando riusciranno a resistere. Tenga conto anche che come previsto dopo tre, quattro giorni di indignazione sulla presa di Kabul, tutto è già finito praticamente nel dimenticatoio, a parte qualche coraggioso giornalista che ancora è nel Paese e manda dei reportage terrificanti dalle zone che riesce a raggiungere.

Per questo trovo molto importante l’istituzione di un Rapporto Speciale sull’Afghanistan in modo che ci sia almeno un tentativo istituzionale che ha lo scopo di tenere accesa una lampadina su quello che succede nel Paese. Ovviamente questa idea è stata approvata dal Consiglio Diritti Umani, adesso si tratta di metterla in pratica scegliendo un responsabile e dotandolo di uno staff e di un po’ di soldi, perché è chiaro che chiunque sia, non può mettersi da solo a girare senza protezione, senza una guida, senza un interprete. Tutto questo si dovrebbe fare velocemente, dopo la decisione e il voto assunto e noi dobbiamo fare la nostra parte.

Avevo lanciato, poi, l’idea di una manifestazione quest’anno dedicata alle donne afghane per il 25 novembre, il giorno contro la violenza sulle donne, che è sempre stato me too, ma per un anno avremmo potuto fare un’eccezione, perché più violenza di così non so che cosa pensare, ma non credo che andrò molto lontano, farò tutto quello che posso.

So per certo che molte di queste donne erano già fuori dal Paese prima della presa di Kabul, sono in contatto con Non c’è pace senza giustizia. Tra loro c’è Sima Samar, che conosco dal ‘98 ed è stata anche ministro degli affari femminili sotto il primo governo Karzai, Metra Mehran, che è quella che più sostiene l'istruzione delle donne, Habiba Sarabi, che è stata anche governatrice della regione di Bamiyam, Anisa Shaheed, che è una giornalista politica.

Credo  che tenere un po’ di fari accesi sul tema sia il nostro compito, posto che non possiamo andare in loco a fare alcunché. In Afghanistan sono rimaste le Nazioni unite e qualche coraggiosa organizzazione non governativa, come Emergency o la Caritas, che però non sono il punto di riferimento per questo tipo di problematica sui diritti umani.

Il mondo islamico è oggetto di stereotipi e spesso identificato con l’integralismo dei talebani, ma il panorama è molto variegato. Rispetto ai diritti delle donne e alla condizione femminile, quali sono gli esempi più significativi di questa diversità?

Credo che basti guardare la Tunisia: un Paese musulmano con nuova Costituzione, che è la più avanzata, che lascia solo scoperta la questione dell’eredità che non è paritaria tra figli e figlie. Basta guardare poi all’Indonesia, dove nessuno ha un problema di velo, o i duecento milioni di musulmani in India, che hanno altri tipi di discriminazione, ma non questi.

Non sono un’esperta di mondo islamico, ho vissuto da quelle parti per motivi di impegno politico, ma ho conosciuto una serie di persone, in particolare donne, che vivono questioni differenti.

Quando sono stata in Yemen nel 2005, le donne già votavano e guidavano da molto tempo, poi la guerra civile ha spazzato via tutto questo e non solo i diritti delle donne, tra un po’ non esiste più lo Yemen, per la verità.

Come vedete, il panorama del mondo musulmano non solo è molto variegato, ma c’è chi riesce a fare dei passi in avanti e chi brutalmente viene rimandato indietro di almeno vent’anni, come nel caso delle donne afghane. Dove il ritiro così disordinato delle forze occidentali le ha fatte sentire abbandonate, come è successo con i curdi, quando li abbiamo abbandonati e abbiamo detto a Erdogan “Occupatene tu”... e sappiamo benissimo come se ne voglia occupare.

Per cui Paese per Paese, ci sono delle differenze enormi, mentre noi abbiamo creato nei nostri stereotipi un mondo musulmano tutto sotto il velo nero dalla testa ai piedi, che esiste, per esempio in Arabia Saudita, con le sue contraddizioni. In Arabia Saudita, portano tutte il velo, ma è uno di quei Paesi in cui se arriva un funzionario internazionale, come è capitato a me, che guidavo una missione del Parlamento europeo, nessuno si è sognato di chiederci di coprirci. Esistono due Paesi in cui, invece, è richiesto a tutte e sono l’Iran e, appunto, l'Afghanistan.

Come vedete, nel mondo islamico ci sono passi in avanti e e passi brutali indietro, tradizioni culturali diverse, da tempi immemorabili, quindi inviterei a fare attenzione a non fare di tutta l’erba un fascio, in cui tutte le donne vengono assimilate allo stereotipo del velo nero o blu che sia, che nasconde tutto. Credo anche che dovremmo essere rigorosi per quanto ci riguarda. Detesto i dibattiti sul velo, ma ho una linea rossa ben chiara: ti puoi vestire come ti pare, ma nei luoghi pubblici devi essere riconoscibile, perché siamo una cultura a responsabilità individuale e quindi voglio sapere in un ufficio pubblico con chi ho a che fare. Invece anche qui il mondo occidentale è molto variegato, c’è chi ha sposato questa tesi, chi invece ha messo fuori legge il velo. Loro sono variegati e noi siamo disordinati.

“Se le donne islamiche sono obbligate a portare il velo, le donne occidentali sono obbligate a entrare nella taglia 42” recitava l’autrice marocchina Fatima Mernissi nel suo “L’harem e l’Occidente”. È una provocazione, ma racconta un punto di vista…

Non facciamo di tutta l’erba un fascio anche da noi. Per questo a me la Merkel, che non ho mai incontrato, mi ha sempre fatto simpatia da lontano, perché è l’opposto dello stereotipo che va per la maggiore: non è taglia 42, non è alta, non è bionda, non è sexy, è poco glamour, ha sempre la stessa giacca con lo stesso taglio di colore diverso e porta tutto questo con grande nonchalance. Mentre invece da noi, in qualche periodo storico, l’apparenza diventa tutto.

Il corpo delle donne è al centro di molte attenzioni, incluso quello delle donne musulmane in Occidente, spesso emarginate qui da noi. Molti Paesi come la Francia hanno proibito il velo e questo ha scatenato molte proteste all’interno delle comunità musulmane, lasciando intendere che questo non sia il modo più giusto per facilitare l’integrazione…

Faccio molta fatica anche con le mie amiche che si occupano di donne ad attirare la loro attenzione sulle donne immigrate. Ognuna si occupa di temi importanti, come la parità di salario, ma non sono mai riuscita a instillare in loro che in realtà in Italia le donne sono anche le donne immigrate. Pensiamo alle centinaia di migliaia di donne che stanno in casa nostra a cui affidiamo le cose più care che abbiamo e molto spesso sono senza documenti. Era passato il decreto Lamorgese che tentava di legalizzare i lavoratori del settore agricolo e i migranti, però stenta ad essere attuato, tanto è vero che erano state presentate 237 mila domande di legalizzazione e risulta che dopo un anno soltanto 50 mila persona abbiano potuto usufruire di questa legge.

Che siano le donne qui da noi, come le colf, che abitano in casa nostra per nostre necessità,  o che siano le donne in altri Paesi, ho sempre fatto molta difficoltà ad attirare l’attenzione dei gruppi su questo tema, perché sono attenti alle donne italiane ed europee, senza voler entrare in questo tipo di problema.

Per non parlare delle donne musulmane di seconda e terza generazione che vivono qui da noi e spesso sono vittime di violenze familiari, per reagire a matrimoni combinati e a pratiche tradizionali cui non vogliono aderire… 

Esistono tradizioni nefaste che molti immigrati portano con sé, come abbiamo fatto noi quando a milioni siamo andati negli Stati Uniti portandoci dietro qualche tradizione non proprio brillante. Le cose cambiano quando i figli degli immigrati cominciano ad andare a scuola e hanno necessità di integrarsi e lì secondo me l’idea dello Ius Culturae è un’idea molto importante, ma non riusciamo a sfondare in Parlamento il muro e siamo fermi.

Oggi per avere la cittadinanza bisogna fare una trafila lunghissima, mentre sono dell'idea che legalizzare le persone aiuti la sicurezza di tutti quanti, perché è chiaro che una persona irregolare non può affittare se non a nero una casa in cui vivere, sottoposta a tutti i ricatti possibili e immaginabili, non può aprire un conto in banca, e per cumulare i risparmi li deve tenere nel materasso, non può guidare, quindi nostro nonno lo dobbiamo portare noi a fare la dialisi, perché la badante non ha la patente… e avanti di questo passo. Sicché anche da noi potremmo fare molto, ma per ora non ho trovato molta attenzione su questo tema.

Parlando di donne e lavoro, dal 2000 a oggi sono entrate nel mondo del lavoro milioni di donne musulmane, anche grazie a riforme importanti messe in atto in alcuni Paesi, come Giordania, Egitto, Palestina, Marocco e qualcosa anche in Arabia Saudita con “Vision 2030”. È una rivoluzione silenziosa questa emancipazione economica? Si sta muovendo qualcosa in questo senso?

Si sta muovendo qualcosa, se riescono ad andare avanti. Un’autonomia finanziaria e lavorativa è un elemento importantissimo per l’autonomia individuale, lo è stato per noi, quindi figuriamoci per loro, questo è evidente. Ma tutti quelli che vogliono aiutare dovrebbero appassionarsi a rendere queste donne regolari e legali nel nostro Paese. Ho partecipato a due, tre convegni mediterranei con donne imprenditrici del Mediterraneo, che esistono e vanno sostenute e conosciute. L’autonomia lavorativa e finanziaria, come per noi anche per loro, è un grande passo avanti per raggiungere l’emancipazione. Poi esistono dati culturali lunghissimi da estirpare, come le spose bambine, che non sono spose proprio per niente, sono bambine in cui lo stupro è legalizzato in cambio di una dote. Quello che stupisce è che spesso sono proprio le madri di questi nuclei familiari che spingono in questo senso, l'ho visto con le mutilazioni genitali femminili. Una madre mi diceva “Se non gliela faccio, nessuno la sposerà”. Quindi c’è un intreccio di male interpretata protezione per il bene delle figlie ed è sempre molto triste vedere che sono proprio le madri a spingere nella perpetuazione di queste procedure nefaste e in totale violazione dei diritti umani. Ricordiamoci che da noi il codice d’onore è stato abolito solo nel 1982 e il divorzio era visto come uno stigma in alcuni gruppi della nostra società. Abbiamo anche visto quanto sia difficile capire che la violenza sulle donne molto spesso sia domestica e spesso quando si tratta di denunciare un abuso del marito i carabinieri o i posti di polizia ti rimandano indietro con frasi del tipo “Forse era un po’ nervoso”, “Forse te la sei cercata”, “Forse sei troppo ribelle”, “Sei troppo disobbediente”.

C’è un intreccio difficile da dipanare, ma sono convinta che non bisogna arrendersi e andare avanti. 

Qual è la direzione che si sta prendendo nel mondo musulmano rispetto ai diritti delle donne?

La direzione la devono scegliere loro, non è che arriviamo noi dall’esterno e gli imponiamo qualcosa. Quando mi sono occupata di mutilazione genitale femminile è stato su richiesta di un gruppo di donne africane riunite nel comitato panafricano contro le pratiche nefaste e, quindi, se fossimo attenti a sostenere quello che bolle in pentola da quelle parti, poco o molto che sia, già sarebbe moltissimo. Non si tratta di andare a imporre i nostri valori, anche se non dobbiamo nascondere quello che pensiamo, ma bisogna stare attenti alle loro richieste e alle loro priorità. È evidente che uno dei canali meno controversi per il momento è il canale del lavoro, forse anche per l’indigenza, e credo che chiunque ci chieda sostegno tra le imprenditrici debba essere sostenuta, anche se per il momento magari non sono in grado di occuparsi di diritti civili. Stare attenti alle loro esigenze senza tradire le nostre e senza imporre dall’alto o da lontano una visione del mondo che loro non sono in grado di percepire o interiorizzare e volere. Stare molto attenti a dove si mettono i piedi.

Al di là di quello che dovremmo fare oltre gli stereotipi, nel 2030 quale sarà la condizione delle donne nel mondo islamico?

Se in qualunque Paese scoppia la guerra civile c’è poco da discutere, perché per prima cosa bisogna salvarsi la pelle. Nei Paesi stabili la spinta all’empowerment femminile sarà lenta, ma è inarrestabile e penso che nel nostro mondo e non solo, mai come in questi tempi, abbiamo avuto eccellenti modelli pubblici al femminile, come la direttrice della Reuters, la prima direttrice alla Banca Mondiale, Kamala Harris… e anche da noi le rettrici delle università cominciano ad essere più di due… anche se da noi le cose vanno un po’ lente.

Però credo che dipenderà da loro, come ripeto, non possiamo andare a colonizzare come abbiamo già fatto, in più abbiamo la tendenza a dare molte illusioni e poi scappare a gambe levate quando il peso diventa troppo grande. Non credo che il dato istituzionale si possa imporre dall’esterno: in Afghanistan da millenni operano i clan ed è difficile andare a imporre un altro sistema, anche se nel 2005 le elezioni parlamentari e presidenziali furono un grande successo di partecipazione delle donne afghane per la prima volta. Ricordo episodi molto emozionanti. Poi però tutto è tornato indietro.

Basta non arrendersi, stare attenti a tutto quello che si muove e alle possibilità di aiuto e di sostegno che noi abbiamo e non usiamo.

a cura di Viola Brancatella 

lunedì 25 ottobre 2021