La partecipazione dei lavoratori fa bene alle imprese del futuro
Dopo l’approvazione della nuova legge in Italia, diamo uno sguardo ai modelli già presenti in Europa, Stati Uniti e Asia. Tra codeterminazione, profit-sharing e azionariato diffuso.
Il 10 giugno entrerà in vigore in Italia la nuova legge sulla partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese. La nuova norma, approvata in via definitiva dal Senato, è nata da una proposta d’iniziativa popolare promossa dalla Cisl. La segretaria generale Daniela Fumarola ha parlato dell’inizio di “una nuova fase per le relazioni industriali del nostro Paese”. In una lettera agli iscritti, Fumarola ha spiegato che “si tratta di un cambiamento profondo, che promuove quattro forme di partecipazione: organizzativa, gestionale, economico-finanziaria e consultiva”.
Secondo Adapt, l’Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali, “si tratta di una legge storica, perché di attuazione dell’articolo 46 della Costituzione dopo quasi ottanta anni di attesa, ma anche controversa”. L’associazione ha pubblicato un instant book gratuito di approfondimento tecnico delle fasi di implementazione della legge e dei suoi punti più discussi.
Ma cosa succede negli altri Paesi? Quali sono i modelli di riferimento? E che ruolo può avere davvero la partecipazione dei lavoratori nell’impresa del futuro?
La Mitbestimmung tedesca è probabilmente il modello più strutturato e conosciuto. Le imprese con più di 500 dipendenti sono obbligate a includere rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza (fino a un terzo dei membri). Nelle aziende con oltre 2mila dipendenti, la rappresentanza può salire al 50% (anche se il presidente del consiglio resta nominato dalla parte datoriale e ha voto decisivo). I consigli di fabbrica (Betriebsrat) sono organismi consultivi molto attivi nelle decisioni organizzative, anche su temi come formazione, orari e sicurezza. Il termine “Mitbestimmung” (in italiano “codeterminazione”) ha una lunga storia: compare per la prima volta oltre 150 anni fa, con la fondazione dei primi stabilimenti industriali.
Nel tempo, però, questo modello ha dovuto fare i conti con le trasformazioni del mondo del lavoro, dalla digitalizzazione alla frammentazione contrattuale. Oggi, in Germania, si osserva un calo del numero di membri dei consigli aziendali. E il tema è entrato anche nelle elezioni federali di febbraio: la Cdu/Csu ha proposto di “‘aggiornare’ la codeterminazione”, rafforzando ad esempio la partecipazione online, mentre la Spd ha chiesto di estendere la partecipazione anche ai temi che riguardano l’intelligenza artificiale in azienda, rendendoli un diritto “con obbligo di accordo”.
Anche nei Paesi Bassi esistono consigli d’impresa (Ondernemingsraad) obbligatori nelle aziende con più di 50 dipendenti. Hanno diritto di consulenza vincolante su una serie di questioni strategiche (fusioni, ristrutturazioni, cambiamenti organizzativi) ed esistono in virtù della legge sui comitati aziendali (Wor), che lo scorso 14 maggio ha compiuto 75 anni. La norma è cambiata sensibilmente nel corso del tempo: fino alla revisione del 1979 sosteneva soprattutto gli imprenditori, che spesso presiedevano addirittura il comitato aziendale. Poi le sentenze dei tribunali hanno ristabilito l’equilibrio tra datori e lavoratori. “La legge costituisce una solida base e la codeterminazione nei Paesi Bassi funziona”, ha dichiarato pochi giorni fa il ministro degli Affari sociali Eddy van Hijum, ma “il mio obiettivo è raggiungere il 100% di conformità”. Un obiettivo coerente con la tradizione della polder economy, la cultura della compartecipazione tipica dei Paesi bassi, nata dalla gestione collettiva dei terreni bonificati dal mare.

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In Francia la partecipazione dei lavoratori combina aspetti economici e sindacali (intéressement e participation). Il profit-sharing, ovvero la partecipazione dei dipendenti agli utili, è obbligatorio nelle imprese con più di 50 dipendenti. E nel 2024 ha raggiunto numeri significativi, con oltre 22 miliardi di euro distribuiti tra utili e bonus incentivanti. I comitati aziendali (Cse), invece, hanno poteri consultivi, partecipando a decisioni su piani industriali e politiche del personale.
Più leggera, ma ben radicata, la codeterminazione attiva in Svezia, Danimarca e Norvegia. Qui i lavoratori possono nominare rappresentanti nei board delle imprese sopra una certa dimensione. La logica, dunque, è più consultiva che decisionale, ma comunque efficace in un contesto di forti relazioni industriali e welfare aziendale sviluppato.
Fuori dall’Europa la situazione è più variegata. Negli Stati Uniti non ci sono obblighi normativi, ma si fanno strada iniziative volontarie e cooperative. Sono cresciuti, per esempio, gli Esops (Employee stock ownership plans), piani pensionistici che prevedono la distribuzione di quote azionarie ai dipendenti. Come ha detto all’agenzia Bloomberg Emily McGarvey di Room & Board, colosso americano dei mobili che di recente ha adottato un Esop: “La sostenibilità è tutta una questione di durata e di pensiero a lungo termine rispetto a ciò che si deve realizzare. Un Esop non fa altro che incentivare questa mentalità”.
Accanto agli Esop, si diffondono modelli di worker-owned cooperatives, soprattutto in settori innovativi o socialmente orientati. E alcune grandi aziende tech, come Google, adottano sistemi di incentivazione azionaria come le Google stock units (Gsu), azioni vincolate che maturano nel tempo, pensate per fidelizzare i dipendenti e stimolare una cultura dell’engagement.
Infine, Cina e India offrono modelli differenti, adattati ai rispettivi contesti sociopolitici. In Cina la partecipazione dei lavoratori è filtrata da strutture fortemente controllate dallo Stato e dal Partito Comunista. Il sindacato ufficiale, la All-China federation of trade unions (Acftu), è di fatto un’estensione del Partito. I comitati aziendali hanno scarso potere decisionale e sono spesso utilizzati come strumenti di mediazione o propaganda interna. Ma qualcosa potrebbe cambiare con l’adozione della nuova Legge sulle società, in vigore dal 1 luglio 2024. Secondo la norma, tutte le aziende, indipendentemente dalla proprietà, devono istituire un sistema di gestione democratica, con l'assemblea dei rappresentanti dei lavoratori come forma base. Inoltre, le imprese con oltre 300 dipendenti sono ora obbligate a includere rappresentanti dei lavoratori nei loro organi di gestione.
In India, invece, la situazione è più frammentata: esistono diversi sindacati, spesso legati ai partiti politici, e una partecipazione gestionale prevista solo nominalmente da vecchie leggi (come l’Industrial disputes act). Ma alcune grandi aziende come Tata stanno sperimentando pratiche più avanzate di partecipazione volontaria, mentre la normativa sulla Csr prevede in alcuni casi il coinvolgimento dei dipendenti nei progetti sociali aziendali.
Il panorama globale, dunque, resta frammentato: alcuni Paesi impongono la partecipazione per legge, altri la promuovono attraverso incentivi fiscali o contrattuali. Anche le forme sono molteplici: dai rappresentanti nei board ai bonus legati agli utili, dai comitati consultivi interni alle cooperative di proprietà condivisa. Quella che emerge, però, è una tendenza chiara: coinvolgere le persone migliora le imprese. Come? In termini di maggiore produttività, minore turnover e una resilienza superiore nei momenti di crisi.
Secondo Gallup, le aziende con un alto livello di engagement registrano una produttività superiore del 17% rispetto alle altre. E lo European workforce study 2025, un’ampia ricerca condotta a livello europeo su leadership e cultura organizzativa, mostra che le aziende europee che promuovono la partecipazione attiva dei dipendenti sono più competitive sul mercato. La soddisfazione dei lavoratori, infatti, stimola la produttività (+23%), mentre una leadership basata su un elevato livello di fiducia genera risultati migliori (+ 29-34%). Un impatto non da poco.
Copertina: Jeriden Villegas/unsplash