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Riforma della finanza globale: stiamo andando veramente verso una nuova Bretton Woods?

Il Fondo monetario internazionale è bloccato, tra strumenti obsoleti, rivalità sino-americane e scarsità di risorse. La banca dei Brics prende quota, ma resta frammentata. Guterres richiede una riforma urgente.

mercoledì 27 settembre 2023
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Se cambia il contesto devono cambiare gli strumenti tramite i quali si agisce in quel contesto. Questo assunto è comune a molte discipline: dalla tecnologia alla sanità, dall’istruzione alla comunicazione, l’essere umano ha sempre sperimentato forme di adattamento diverse a seconda delle diverse sfide. Il Covid-19, ad esempio, ha portato nuove norme sanitarie e sistemi educativi prima impensabili.

Esistono però settori dove questo assunto fatica a ingranare. Un esempio: il sistema finanziario globale, e nello specifico il Fondo monetario internazionale (Fmi).

C’è infatti una grande discussione in corso ultimamente sulla “crisi di identità da incubo” che, secondo l’Economist, sta attraversando il Fondo, schiacciato tra meccanismi finanziari obsoleti e rivalità sino-americane.

Sul tema è intervenuto il segretario generale dell’Onu António Guterres, in occasione del summit sugli SDGs (18-19 settembre), appuntamento quadriennale organizzato dalle Nazioni unite per fare il punto sull'attuazione dell'Agenda 2030. L’intervento del Segretario è stato, come nello stile di Guterres, diretto e perentorio: è fondamentale, ha detto, riformare “un’architettura finanziaria internazionale che è obsoleta, disfunzionale e ingiusta”, promuovendo un migliore accesso dei Paesi in via di sviluppo alle risorse economiche.

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Da sottolineare che nella dichiarazione finale elaborata a valle del Summit stesso, condivisa e firmata da capi di Stato e governo, tra i 43 punti enunciati, ben due punti (31 e 38 ix) sottolineino la necessità di finanziamenti e azioni “urgenti” da parte delle banche multilaterali nei confronti dei Paesi in via di sviluppo. 

L’argomento è stato trattato anche dal Parlamento europeo nella risoluzione del 15 giugno sull'attuazione e realizzazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, in cui viene richiesta "una profonda revisione dell'architettura finanziaria mondiale al fine di allinearne tutte le parti con l'Agenda 2030, con l'accordo di Parigi sull'azione per il clima e il quadro globale in materia di biodiversità".

Il tema è stato ripreso anche da un recente policy brief dell’ASviS, “‘Il salto da gigante’” - Nuove politiche globali per vincere le sfide del nostro tempo” (elaborato per tradurre in proposte politiche le raccomandazioni del rapporto al Club di Roma “Earth for All”): nel documento l’Alleanza sottolinea la necessità di una “riforma del sistema economico globale".

Ma perché c’è tutto questo bisogno di riformare il sistema finanziario?

Fondo monetario cercasi 

Partiamo da qualche cenno storico. Il Fmi, fondato nel 1944 a Bretton Woods per garantire la stabilità macroeconomica globale, è nato per erogare prestiti agli Stati in difficoltà ed evitare svalutazioni traumatiche: nei suoi 80 anni di vita ha prestato 700 miliardi di dollari a 150 Paesi. Il Fondo ha anche la capacità di generare autonomamente moneta attraverso gli Special drawing rights (“moneta” prodotta dal Fmi, il cui valore è ricavato da un paniere di valute nazionali rispetto alle quali si calcola un “comune denominatore”). Il Fondo, però, nonostante una storia florida, sta attraversando da anni una crisi sempre più acuta.

Tre sono i fattori che spiegano la condizione attuale del Fmi, secondo l’Economist. In primo luogo, “l’intransigenza dei creditori cinesi che hanno concesso prestiti ai Paesi poveri”, e che non vogliono vedere decurtato il loro credito dalle ristrutturazioni del debito volute dal Fondo (argomento su cui torneremo a breve). Secondo, la precaria condizione degli Stati fragili che, come sottolinea Donato Speroni nel suo editoriale sul sito dell’ASviS, non riescono a uscire dalla “spirale dell’indebitamento” alimentata dai continui prestiti. In terzo luogo, il Fondo non si è dimostrato capace di evolversi verso nuove forme di prestito sulle questioni climatiche e sanitarie.  

I numeri, da questo punto di vista, parlano chiaro. In quella che viene definita dall’Economist “la più grande crisi del debito dagli anni ’80”, il Fondo è riuscito ad approvare solo 3,4 miliardi di dollari (l’8,5% del capitale raccolto per le nuove agevolazioni creditizie) per affrontare tutte le crisi, dal cambiamento climatico alla carenza di cibo.

Inoltre, il Fondo si è dimostrato negli anni incapace di attivare un autentico processo di cambiamento nei Paesi che ha aiutato (il Pakistan, per fare un esempio, ha richiesto dal 2000 sette programmi di prestito, tre dei quali non è riuscito a rimborsare). Questo cambiamento dovrebbe verificarsi tramite il finanziamento di opere pubbliche mirate, ristrutturazioni solide del debito e altri interventi di natura strutturale che il Fondo non riesce a veicolare.

È anche cambiato il focus dell’azione del Fmi: sempre secondo l’Economist, dal 2010 il Fondo monetario internazionale lontane dalla bilancia dei pagamenti o dalla stabilità economica globale, ma più orientate verso l’uguaglianza di genere o le fragilità sociali. Per queste ragioni alcuni auspicano un’evoluzione del Fondo verso un modello “Banca mondiale”. “Trasformare il Fmi nella Banca Mondiale non funzionerà”, ha commentato Kenneth Rogoff, capo economista del Fondo dal 2001 al 2003. Per 70 anni, le due istituzioni hanno diviso il loro lavoro. Il Fmi ha stabilizzato l’economia mondiale (concedendo prestiti a breve termine), mentre la World bank ha finanziato lo sviluppo globale (con prestiti a lungo termine). “Il Fmi offre liquidità, la Banca Mondiale finanzia progetti”, ha commentato Rogoff. “Il cambiamento climatico e le questioni sanitarie rappresentano ostacoli alla crescita nei Paesi più poveri. Richiedono finanziamenti a lungo termine. Dovrebbero quindi rientrare nel mandato della Banca”.

In questa situazione già precaria, si inserisce la diatriba sino-americana sulla ristrutturazione del debito dei Paesi poveri. Il Fondo concede infatti prestiti agli Stati solamente una volta che si è assicurato che l’indebitamento di un Paese sia sostenibile. Questo passaggio richiede solitamente un accordo per ristrutturare (e a volte cancellare) il debito del Paese in crisi. Il problema è che, a oggi, più di 65 Paesi nel mondo devono il loro 10% del debito estero alla Cina (e di questi, almeno 21 Paesi, tra cui Malawi e Sri Lanka, sono in default o in fase di ristrutturazione del debito). Questi Stati devono collettivamente a Pechino circa 1,3 migliaia di miliardi di dollari: cifre grosse, che la Cina non vuole certo vedersi decurtare dal Fondo monetario internazionale. Ma come ricorda Kristalina Georgieva, direttrice generale del Fmi, “senza il coinvolgimento della Cina nella ristrutturazione, i salvataggi del Fondo monetario internazionale potrebbero semplicemente finire nelle tasche cinesi”.

Brics + New development bank

Dove ci sono opposizioni nascono alternative. È notizia recente l’apertura del gruppo Brics (raggruppamento di Paesi che include Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) ad altri sei membri (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti). L’annuncio, arrivato in occasione del 15esimo vertice Brics (che si è tenuto dal 22 al 24 agosto a Johannesburg) è di quelli che non passano inosservati. Con questa mossa, si rafforza infatti il ruolo del gruppo Brics (che ha preso il nome di Brics+) come forza concorrente dei consessi a guida occidentale, come il G7, sullo scenario economico mondiale. Ruolo rinforzato dalla fondazione nel 2014 della New development bank, o Ndb (istituzione finanziaria nata dagli accordi interstatali raggiunti durante il sesto summit dei Paesi membri del Brics), concepita come alternativa al Fondo monetario internazionale.

A oggi, la Ndb ha finanziato circa cento progetti con prestiti per circa 34 miliardi di dollari. Le iniziative sostenute e finanziate dalla Ndb riguardano soprattutto le infrastrutture e altri investimenti centrali per lo sviluppo di un Paese, progetti che spesso non fanno presa sugli interessi delle grandi banche commerciali. L’ingresso tra i Paesi partecipanti alla New development bank di potenze come gli Emirati Arabi Uniti permette di prevedere, entro il 2030, uno stock di prestiti pari a 350 miliardi di dollari, superando le previsioni per i finanziamenti erogati dalla Banca Mondiale a favore dei Paesi emergenti.

Ma anche in casa Brics+ le acque sono mosse. Come fa notare l’analista politico Ian Bremmer sul Corriere della Sera, non tutti i Paesi condividono la crociata di Pechino contro gli Stati Uniti. “Gran parte dei suoi membri non vuole né essere guidato dalla Cina né vuole sganciarsi del tutto dall’Occidente”, scrive Bremmer. Sono infatti diverse le motivazioni che hanno spinto questi Paesi a entrare nel gruppo. Ad esempio, “i nuovi membri del Medio Oriente e del nord-est dell'Africa sfrutteranno i Brics per accrescere la propria influenza geopolitica e diversificare i legami internazionali in ambito commerciale e finanziario, anziché collaborare a un programma esplicitamente avverso all'Occidente”, sottolinea Bremmer. “Per gli Stati del Golfo, l'obiettivo non è tanto quello di inimicarsi gli Stati Uniti, quanto di limitare i danni derivanti dal progressivo indebolimento del loro schieramento con Washington, tentando al contempo di rafforzare la loro autonomia di manovra”.

Nonostante i diverbi interni, il gruppo Brics+ è però unito sulla richiesta di “un’architettura finanziaria globale in grado di supportare un sistema commerciale e di investimento di interdipendenze che non dipenda da una moneta unica”, scrive Antonio Guizzetti sul Manifesto. “La guerra in Ucraina, o meglio la risposta occidentale a essa, ha finalmente portato a casa il rischio sistemico di continuare a persistere con il vecchio ordine internazionale”.

Il futuro del Fmi, e non solo

Quale sarà dunque il cammino delle banche multilaterali nei prossimi anni? Tornando al policy brief prodotto da Guterres, per raggiungere gli SDGs entro il 2030 bisognerebbe, secondo il segretario Onu, mettere a disposizione un finanziamento di almeno 500 miliardi di dollari l’anno, riducendo al contempo il debito e promuovendo, nei casi più critici, la sospensione dei pagamenti, in modo che i Paesi in crisi possano attivare una spirale ascensionale di ripresa, permettendosi prestiti più lunghi e a tassi di interesse minori.

Un obiettivo che deve passare per una ridefinizione dei modelli di business delle banche multilaterali di sviluppo. “Questo può essere un punto di svolta nel processo di accelerazione per gli SDGs. Ho richiesto una nuova Bretton Woods e lo sviluppo di soluzioni pratiche nel Summit sul futuro a settembre dell’anno prossimo”, ha aggiunto Guterres.

Il Segretario aveva già chiarito la questione in uno dei policy brief di “Our common agenda”, raccolta di pubblicazioni voluta da Guterres per arrivare preparati al Summit del futuro. “L’architettura finanziaria internazionale, creata nel 1945 dopo la Seconda Guerra Mondiale, sta subendo uno stress test di proporzioni storiche – e sta fallendo il test”.

Secondo Guterres, il sistema finanziario, progetto da e per i Paesi industrializzati del dopoguerra, in un’epoca in cui né i rischi climatici né le disuguaglianze sociali erano considerati sfide preminenti per lo sviluppo, è ormai incapace di agire efficacemente sulle crisi che si susseguono nel mondo odierno.

In particolare, questo sistema si regge su assunti iniqui e fragili, quali: costi di finanziamento troppo elevati per i Paesi in via di sviluppo, tenendo conto del rischio di default e della volatilità del mercato; grande variazione nell’accesso alla liquidità in tempi di crisi, con una piccola quota di Special drawing rights assegnati agli Stati in crisi (il continente africano, che ospita 1,4 miliardi di persone e oltre il 60% della povertà estrema globale, ha ricevuto solo il 5,2% dell’ultima emissione di Sdr); drastica carenza di investimenti nei beni pubblici globali, in particolare sulla preparazione alla pandemia e sull’azione per il clima; mercati finanziari e flussi di capitale troppo volatili, con ripetute crisi finanziarie globali e ricorrenti difficoltà del debito sovrano.

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Un discorso che naturalmente non riguarda solo il Fondo monetario internazionale, ma coinvolge tutte quelle strutture di finanziamento multilaterale dotate di strumenti inadeguati per affrontare le sfide del presente e del futuro. “Un mondo a doppio binario, composto da chi ha e da chi non ha, comporta pericoli chiari ed evidenti per l’economia globale e non solo”, ha scritto Guterres nel suo policy brief. “Senza un’azione urgente e ambiziosa per cambiare rotta, questo divario si tradurrà in una divergenza duratura, in una frammentazione economica e in fratture geopolitiche”.

Per questo il Segretario Onu ha esortato i Paesi a creare “una nuova serie di regole e istituzioni che consentano a tutti i paesi di realizzare trasformazioni sostenibili, inclusive e giuste”. L’architettura finanziaria internazionale, in questo senso, dovrebbe essere strutturata per sostenere in modo proattivo l’attuazione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e la realizzazione dei diritti umani. E l’unico modo per agevolare tale struttura è “attraverso riforme ambiziose, a partire da una governance economica globale più inclusiva, rappresentativa e, in definitiva, più efficace”.

Guterres ha dunque elaborato delle raccomandazioni in sei aree specifiche per promuovere un cambiamento dell’architettura finanziaria mondiale:

  1. Riformare e rafforzare la governance economica globale. Le proposte di riforma si concentrano in particolare su un equilibrio democratico nella gestione del Fondo monetario internazionale, sulla valutazione dei bisogni dei Paesi in base al loro reddito e vulnerabilità, sul maggiore coordinamento tra istituzioni finanziarie come la Banca mondiale, la Banca dei regolamenti internazionali o il Consiglio per la stabilità finanziaria. In parallelo, secondo Guterres, va creato il prima possibile un organo di vertice per migliorare la coerenza del sistema finanziario internazionale.

  2. Favorire la riduzione del debito e diminuire il costo del prestito sovrano, passaggio fondamentale per far sì che i Paesi escano dalla condizione di debitori. Il policy brief sottolinea infatti quanto gli alti costi dei prestiti sui mercati dei capitali possano limitare fortemente la capacità degli Stati di investire nella ripresa e nello sviluppo sostenibile. Secondo recenti analisi proposte nel documento, “la maggior parte dei Paesi che in passato ha avuto costose crisi del debito sarebbero stati solvibili se avessero avuto un accesso continuo ai finanziamenti a tassi bassi”.

  3. Un incremento massiccio delle risorse per lo sviluppo e per la lotta al cambiamento climatico. I finanziamenti dovrebbero ammontare a 500 miliardi dollari annui (puntando ai mille) per ridurre povertà, fame e disuguaglianze.

  4. Rafforzare la rete di sicurezza finanziaria globale e fornire liquidità ai Paesi in difficoltà, stabilendo una maggiore flessibilità nelle situazioni di emergenza, con l’emissione più veloce ed efficace degli Special drawing rights.

  5. Resettare le regole del sistema finanziario, garantendo una maggiore stabilità e proponendo la diffusione di investimenti a lungo termine nella sostenibilità, i quali “possono svolgere un ruolo stabilizzante”.

  6. Riprogettare l'architettura fiscale globale per uno sviluppo sostenibile equo e inclusivo, che includa una maggiore partecipazione dei Paesi fragili nelle decisioni nei consessi internazionali.

Il tema della riforma del sistema finanziario globale è dunque all’ordine del giorno. Se in futuro si cambierà rotta dipenderà solo dalla capacità di munirsi di nuovi strumenti per affrontare nuove sfide. Anche perché, senza i giusti cambiamenti, la strada è più che in salita. 

Fonte dell'immagine di copertina: ansa.it