Abbandono dei social network: un fenomeno destinato a restare?
Il 22% degli italiani ha smesso di usare una piattaforma social, secondo Deloitte. Tra i motivi, sovrabbondanza di contenuti, fake news, privacy. Chi resta, lo fa soprattutto per il social shopping. Il futuro è nella decentralizzazione.
di Flavio Natale
Ci troviamo in un periodo storico in cui i social network dominano incontrastati la piazza di internet: dalla ricezione delle notizie allo shopping online, dalla relazionalità sociale allo sviluppo di hobby, dalle offerte di lavoro agli eventi mondani, tutto sembra essere filtrato dalle piattaforme social. Questo “dominio” è il risultato di anni di intenso sviluppo, in cui le piattaforme hanno offerto agli utenti alcuni vantaggi in cambio dello sfruttamento dei dati personali. Proprio il discorso sullo sfruttamento dei dati, la massiva presenza di fake news, le molestie o il bullismo digitale, il recupero di una “vita offline”, stanno però gettando le basi per alcuni mutamenti di traiettoria che, seppur ancora silenziosi, potrebbero avere in futuro effetti di ampia portata.
Abbandono dei social
Partiamo da qualche dato. Secondo il Digital consumer trends survey 2021 prodotto dalla società di consulenza Deloitte, durante l’anno passato il 22% degli italiani ha smesso di utilizzare temporaneamente o permanentemente almeno una piattaforma social. Questa ricerca, basata su oltre duemila interviste a individui tra i 18 e i 75 anni, ha identificato diverse motivazioni, che vanno da “essersi stancati dei contenuti” (35%), a “la presenza eccessiva di fake news” (25%), oppure “preoccupazione per la propria privacy” (21%), “post e commenti troppo negativi” (18%) o la difficoltà a “sentirsi bene con sé stessi” (15%) navigando sulle piattaforme online. Tra le altre ragioni, alcuni intervistati si sono accorti di “utilizzare i social per troppo tempo” (14%) o di “non voler essere esposti ad alcuna teoria del complotto” (11%), mentre il 7% si è dichiarato vittima di molestie o bullismo.
Allo stesso tempo, però, sempre secondo Deloitte, i social restano una delle fonti primarie per accedere alle notizie (23%), percentuale leggermente inferiore ai giornali cartacei e ai loro siti: il canale prediletto di informazione resta però la televisione (37%).
Un altro trend rivelato dall’indagine, oltre alla differenza di genere nell’abbandono dei social (25% degli uomini, contro il 19% delle donne) riguarda il ruolo di primo piano che il cosiddetto social shopping (utilizzare le piattaforme per fare acquisti online) gioca nella permanenza degli utenti sulle piattaforme: secondo Deloitte, un italiano su dieci dichiara di utilizzare i social network per fare acquisti online, mentre quattro italiani su cinque fanno acquisti utilizzando più in generale lo smartphone. La percentuale degli acquirenti da smartphone sale al 93% quando si parla dei più giovani (tra i 18 e i 24 anni), ma anche la quota degli over 65 (68%) è rimarchevole. Il 64% degli intervistati inoltre dichiara di usare piattaforme di marketplace (applicazioni o siti dei singoli venditori, come Amazon) per fare acquisti.
A consolidare la presenza dei social nella nostra quotidianità è anche la diffusione di dispositivi indossabili. Se nel 2010 solo il 10% delle persone era in possesso di uno smartwatch, nel 2021 questa percentuale è schizzata al 25%.
Infine, secondo Deloitte, gli over 65, complice anche la pandemia, stanno accrescendo il loro know-how tecnologico, in particolare per quanto riguarda la fruizione di servizi in streaming – principalmente piattaforme per la visione di film e serie tv. La quota di persone che nel 2018 guardava serie e film in streaming era il 40%, ed è diventata il 63% nel 2021 (con un aumento del 13% nel 2020 e del 5% nel 2021). Anche se il nostro Paese resta comunque uno dei meno avvezzi a utilizzare queste piattaforme streaming: in Gran Bretagna la percentuale sale al 76%, in Olanda al 73%, mentre il Belgio è l’unico Paese europeo con una percentuale minore dell’Italia.
Il caso dei millennial
Come fa notare un articolo pubblicato su The Vision, i millennial (1,8 miliardi di persone al mondo, nate tra il 1980 e il 1994), sono la prima generazione a considerare il digitale una parte integrante della propria esistenza, e sono dunque anche la prima generazione a poterne testare gli effetti controversi sulla propria pelle. Secondo una ricerca del Pew Research Center, più del 90% dei millennial nel 2021 era presente su quattro piattaforme diverse, per le ragioni più disparate, tra cui le principali sono lo svago e la ricerca di notizie o informazioni di vario tipo. Instagram sembra ormai essersi affermata come la piattaforma preferita dai millennial, seguita da TikTok e Twitter, mentre Facebook si attesta solo al quarto posto. Più della metà degli utenti naviga sul web mentre è sull’autobus, in pausa studio o a qualche evento; il 60% degli utenti tra 20 e 35 anni dichiara di guardare le serie tv e i film principalmente per poterne parlare sui social. Secondo David Greenfield, professore di psichiatria all’Università del Connecticut, la dipendenza dai social network è simile a molte altre forme di dipendenza: causa infatti interferenze significative nella produzione di dopamina – neurotrasmettitore responsabile della regolazione del circuito cerebrale della ricompensa – e incoraggia gli individui a compiere azioni che provocano loro piacere (come la comparsa delle notifiche sul cellulare, che fa salire il livello di dopamina, perché collegata alla sensazione di essere “cercati” da qualcun altro). “Eppure, sempre più giovani, in particolare la fascia di età tra i 20 e i 25 anni, dopo essersi creati diversi account social li abbandona o li elimina”, si legge su The Vision, dove vengono riportate le esperienze di ragazze e ragazzi che, per “la necessità di viversi il momento”, oppure dopo essersi accorti di “guardare più il telefono che parlare con gli amici”, hanno deciso di abbandonare i social network.
Verso la decentralizzazione dei social
Tra le ragioni di questa disaffezione dai social c’è anche il cosiddetto fenomeno del “collasso dei contesti”. Su Facebook, ad esempio, si mischiano contesti molto differenti – familiare, amicale, lavorativo – e contenuti altrettanto variegati che, invece di incentivare gli utenti a pubblicare aggiornamenti del proprio profilo, disincentivano l’azione (molti utenti, ad esempio, non vogliono pubblicare immagini delle serate o feste a cui partecipano se possono visionarle i colleghi o i datori di lavoro).
Coscienti di questa richiesta, numerose piattaforme sono nate proprio allo scopo di formare comunità più omogenee, dove gli utenti e la tipologia di informazioni condivise (oltre alla mole di notizie) vengono filtrate dal contesto stesso. Tra questi nuovi social network, ci sono ad esempio quelli per gli appassionati di birra (Untappd), di viaggi (Yonders), della corsa (RunKeeper) o di escursioni di gruppo (AllTrails).
Questi social hanno un’utenza inferiore a quella di colossi come Facebook o Twitter, ma allo stesso tempo possiedono comunità più motivate e meno dispersive, dove viene incentivato lo scambio di informazioni e l’organizzazione di incontri. Peculiarità che sembrano essere particolarmente apprezzate dagli utenti. Se AllTrails aveva 200mila utenti nel 2012, oggi ne ha dieci milioni. Untappd ha superato i tre milioni, mentre Runkeeper già nel 2017 aveva tagliato il traguardo dei 50 milioni.
Anche Mark Zuckerberg si è accorto di questi bisogni, ragione per cui ha provato negli ultimi anni a incentivare la funzione dei “gruppi” su Facebook, in modo da creare comunità più omogenee. Ma, come ha sottolineato il docente di Comunicazione Scott Campbell su The Ringer, Facebook ha così tante funzioni che la navigazione resta comunque complessa o confusionaria, e il fatto di trovarsi in un gruppo specifico non mette al sicuro dal rischio di ricevere contenuti a cui non si è interessati.
Se sommiamo queste richieste alla questione della tutela della privacy sui principali social network otteniamo iniziative come IndieWeb, una comunità di programmatori che produce social network decentralizzati, e che permettono agli utenti di affittare o possedere i server dove vengono ospitati i propri contenuti. Un esempio di questo tipo di social è Micro.blog, piattaforma sullo stile di Twitter che permette agli utenti di interagire tra loro e vedere i post, ma, al contrario di Twitter, chiunque pubblica su Micro.blog lo fa o con un dominio ospitato dalla piattaforma stessa o dal proprio server. Morale della storia: gli individui mantengono il controllo completo dei contenuti pubblicati, e nessuno può raccogliere i dati personali per targetizzarli e usarli per scopi pubblicitari. “Gli utenti posseggono ciò che scrivono e possono fare ciò che vogliono con esso; anche postarlo, simultaneamente, su altri aggregatori”, ha scritto Cal Newport, professore di computer science a Georgetown, sul New Yorker. “Se Micro.blog iniziasse a raccogliere i dati degli utenti, o se un altro servizio fornisse una qualità più elevata, gli iscritti potrebbero spostare i loro contenuti sull’aggregatore rivale con pochissimo sforzo”.
Altro esempio di questo tipo è Mastodon, la piattaforma creata nel 2016 da Eugen Rochko. Questo social funziona sulla base di “istanze”, canali che gli utenti sono liberi di creare autonomamente, da gestire e moderare a piacimento. Al contempo, gli iscritti possono seguire anche altre istanze tematiche, aumentando il bacino dei propri interessi sul social. I messaggi pubblicati sono interattivi – si possono anche generare sondaggi – e vengono visualizzati, a seconda delle preferenze dell’utente, dalla home pubblica, dai propri follower o anche da altre persone accuratamente selezionate. I contenuti si possono ricercare, come su Twitter, per popolarità, hashtag o profilo. Mastodon, che al momento conta poco più di 400mila utenti, promuove l’autogestione dei contenuti, l’assenza di indicizzazione, e permette anche agli iscritti di visionare le informazioni in ordine cronologico e non di preferenze – evitando la competizione tra utenti per la supremazia nella visibilità, ma rendendo la navigazione in alcuni casi più macchinosa.
Il futuro dei social network sembra dunque passare per un processo di decentralizzazione, orientato verso piattaforme con contenuti più omogenei, maggiormente democratiche e indipendenti: quasi un ritorno alle origini di Internet.