Una via d’uscita dall’ossessione per il lavoro
La pandemia ha generato un dibattito strutturato sui ritmi lavorativi contemporanei. Da qui si sono mosse alcune richieste per una settimana più corta, una maggiore automazione, un reddito universale.
di Flavio Natale
“Non c’è nulla di naturale nell’ossessione per il lavoro”. James Suzman, antropologo, direttore di “Anthropos Ltd.” e autore di numerosi saggi, è recentemente intervenuto su Domani sul tema del futuro del lavoro. Lo studioso è partito da una riflessione: nonostante la campagna di vaccinazione, la spinta per un ritorno alla “normalità” lavorativa pre-Covid sembra sempre meno condivisa. “La pandemia ha dimostrato che una cultura del lavoro più flessibile non conduce dritti alla rovina, come molti sostenevano prima dei lockdown”. Per comprendere però le radici di questa “cultura del lavoro” è utile, per Suzman, fare qualche passo indietro nel passato.
Nel saggio Affluence without abundance Suzman ha studiato approfonditamente la vita della comunità degli Ju’hoansi, i gruppi boscimani di cacciatori-raccoglitori che discendono direttamente dagli antenati vissuti nell’Africa meridionale, agli albori della nostra specie.
Uno dei temi principali dibattuti da Suzman è che, per il 95% della nostra storia, gli esseri umani sono stati cacciatori-raccoglitori. Queste comunità lavoravano 15 ore a settimana (e i Ju’hoansi lo fanno ancora, anche se relegati in territori marginali, dopo il contatto brutale con le economie occidentali), mentre il resto del tempo veniva dedicato allo svago. Suzman ricorda addirittura che un uomo boscimano, dopo avergli insegnato a cacciare nel deserto del Kalahari, aveva provato a comunicargli la gioia di tornare a casa e godere di ciò che si è catturato: “il cuore è felice, le gambe pesanti e la pancia piena”. I nostri antenati, sottolinea sempre Suzman, credevano fortemente nell’ambiente che li circondava, e non si preoccupavano di conservare il cibo, perché la natura gliene offriva in abbondanza. “Anziché vivere per lavorare, lavoravano per vivere”, conclude l’antropologo, aggiungendo che la loro vita non era affatto “brutta, brutale e breve” come ci immaginiamo.
Poi arrivò, dodicimila anni fa, l’agricoltura, e con essa il concetto del duro lavoro come virtù e dell’ozio come vizio. Le tecniche agricole, come ricorda Suzman, una volta affermatesi si rivelarono incredibilmente più produttive della semplice “caccia e raccolta”. Ma il sistema agricolo, allo stesso tempo, “portava con sé rischi molto maggiori, anche perché le società agrarie tendevano rapidamente a crescere fino ai limiti consentiti dalla capacità produttiva”. Queste civiltà dipendevano inoltre da poche culture sensibili, e qualsiasi calamità naturale poteva generare effetti catastrofici, mandando a monte il lavoro di mesi o anni. La soluzione, a quel punto, era una sola: “lavorare di più”.
“Le cose cambiarono quando si scoprì che i motori alimentati da combustibili fossili potevano fare, rispetto ai fragili corpi umani alimentati dal cibo, un lavoro infinitamente maggiore”, ricorda sempre Suzman. Le macchine, dunque, avrebbero dovuto in un certo qual modo emancipare l’agricoltore dalla fatica. Nelle visioni più utopistiche questo sarebbe stato un atto di libertà per l’essere umano. John Maynard Keynes, negli anni Trenta, scriveva che il progresso tecnologico ci avrebbe portato, nel 21esimo secolo, verso una “terra promessa” dove gli uomini non avrebbero dovuto lavorare più di 15 ore a settimana, perché i bisogni basilari sarebbero stati soddisfatti. Oscar Wilde, nel suo saggio L’anima dell’uomo sotto il socialismo (1891), immaginava una società socialista del futuro in cui i lavori più monotoni sarebbero stati compiuti dalle macchine, mentre gli esseri umani sarebbero stati liberi di diventare artisti o gestire la vita a proprio piacimento.
Fin dall’inizio dell’era industriale, le macchine hanno dunque avuto la funzione di emanciparci dal lavoro. Eppure, oggi viviamo un’epoca di alta tecnologizzazione, e non abbiamo mai lavorato così tanto. Ciò ci dice che il lavoro, come conclude Suzman, “è ormai il centro della nostra vita”.
Perché, però, siamo così fissati con il lavoro?
Uno dei saggi più citati sulla questione è L'etica protestante e lo spirito del capitalismo del sociologo Max Weber (originariamente pubblicato in due differenti volumi, nel 1904 e 1905). Questo libro mette in relazione le affinità tra capitalismo e calvinismo, vedendo nel secondo una precondizione culturale fertile per far germinare lo “spirito” del primo.
Nelle società precapitalistiche il guadagno veniva infatti devoluto principalmente verso fini non economici, che spaziavano dall’incremento di influenza politica, al mecenatismo, al consumo fine a sé stesso, all’ostentazione del lusso. Nello spirito capitalistico, invece, il conseguimento di questi obiettivi è secondario: il profitto non deve essere goduto ma reinvestito. Dunque, non esiste piacere tratto dal profitto se non il profitto stesso. Se questa dinamica ci può sembrare lontana e distante, basti pensare alla fatica che alcune volte facciamo a staccarci dai nostri obiettivi lavorativi: la soddisfazione derivante dall’obiettivo non include anche il riposo che ne consegue, ma l’obiettivo stesso.
Per Max Weber, questa logica affonda le radici nel calvinismo (e prima ancora nel luteranesimo). Martin Lutero, tra il 1512 e il 1514, elaborò la dottrina della giustificazione per fede: l’uomo è peccatore e non può guadagnarsi il regno dei cieli tramite le opere buone (giustificazione per opere, alla base della fede cattolica), e il favore di Dio non si può ottenere, ma viene concesso per benignità a coloro che manifestano la fede in Lui. Questo ribaltamento di prospettive stabiliva un rapporto diretto tra Dio e gli uomini, rendendo superflua la funzione del sacerdote, sia come intermediatore che come strumento di Dio (sacerdos vuol dire “colui che dà il sacro”).
Secondo i cattolici la dottrina luterana getta l'uomo nella disperazione. Mentre il cattolico, tramite i sacramenti, può presumere di avere ottenuto il perdono ed essere in grazia di Dio, il luterano non dispone di segni che gli possano assicurare la salvezza (ma può solo sperarlo e crederlo). Diversamente da Lutero, però, Calvino riterrà che il fedele, attraverso la dedizione al lavoro e a una vita frugale e retta, possa dimostrare – a sé stesso come agli altri – di essere predestinato alla salvezza. Il lavoro diventa dunque un segno della grazia di Dio, mentre restare nell’ozio stigma del peccato. L’obiettivo della propria esistenza diventa dunque non il piacere derivante dall’impegno, ma l’impegno in sé stesso, alla ricerca di una continua quanto disperata attestazione di predestinazione. Conseguentemente, qualsiasi piacere deve essere rinchiuso nell’intimo della vita privata, mentre fuori si deve far sfoggio di un’ascesi intramondana.
In questi ultimi anni, inoltre, è andato a mutare il rapporto tra lavoratori e società che li retribuiscono. “Nell’era del Fordismo”, dice la giornalista americana Sarah Jaffe su Vice, “i lavoratori americani sindacalizzati timbravano il cartellino in entrata e in uscita. Non dovevano fingere di amare il loro lavoro: era spesso ripetitivo, ma pagava dignitosamente e permetteva a ognuno di avere una vita decente”.
Il posto di lavoro, oggi, è invece definito da una cultura aziendale che chiede agli impiegati di amare ciò che fanno, di credere nell’azienda. Il fatto è che molte persone, al giorno d’oggi, reputano i loro lavori poco soddisfacenti, complice uno sviluppo tecnologico che, secondo l’antropologo David Graeber, ha generato lavori superflui. “Frotte di persone, in Europa e Nord America, passano le proprie vite lavorative a compiere attività che, segretamente, ritengono del tutto inutili. Il danno morale e spirituale che deriva da questa situazione è profondo. È una cicatrice impressa nella nostra anima collettiva”. Per Suzman invece il lavoro consiste nello “spendere consapevolmente energie in un’azione per raggiungere un obiettivo”. Questa discrasia – se prima passava sottotraccia – è recentemente affiorata in primo piano, complici i mutamenti negli stili di vita conseguenti la pandemia. “Le persone hanno trovato qualcosa da fare, e quel qualcosa era molto più soddisfacente del loro lavoro”, dice sempre Suzman su Vice.
Ma lo sviluppo tecnologico, invece di generare sacche di disuguaglianza o lavori inutili, potrebbe creare una forte ondata di emancipazione. È la teoria che sussume il saggio Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, degli scrittori e accademici Nick Srnicek e Alex Williams (già autori del Manifesto per una politica accelerazionista). I due autori provano infatti a immaginare dei futuri diversi per un mondo post-lavoro che aspiri “alla proliferazione dei desideri, all’abbondanza, alla libertà”. L’obiettivo di Srnicek e Williams è, ancor prima di modificare concretamente il mondo che li circonda, estirpare il preconcetto per cui il lavoro emancipa, mentre l’ozio è un terreno di vizi: in poche parole, usare il dogma neoliberista di Margaret Thatcher “l’economia è il metodo; l’obiettivo è cambiare l’anima” contro sé stesso. Bisogna “distruggere la contrapposizione tra cicale e formiche”, si legge a questo proposito in un approfondimento pubblicato su Not, dal momento che, come ribadiscono Srnicek e Williams: “Molte delle attività a cui più ci piace dedicarci richiedono in realtà un impegno enorme: imparare a suonare uno strumento musicale, leggere, socializzare con gli amici, praticare uno sport…”
Questo ribaltamento di fronte richiede un mutamento dell’idea stessa di libertà, che Srnicek e Williams definiscono libertà sintetica. Più che una libertà da (frutto della “ossessione antagonista”) si tratterebbe di una libertà positiva, una libertà di sintesi di tre precondizioni: tempo libero, sviluppo tecnologico e sviluppo dell’intelligenza. Lo sviluppo tecnologico, nello specifico, implicherebbe un’automazione della gran parte dei processi produttivi, a patto che il tempo libero non venga più concepito come il terreno del peccato.
I sostenitori di questo scenario futuro richiedono però anche mutamenti concreti: tempi lavorativi più corti (settimana di quattro giorni), la gratuità di servizi pubblici come banda larga e mezzi di trasporto, il reddito universale (misura socioeconomica che consiste nel dare a tutti i cittadini un sussidio mensile senza nessuna condizione).
Il governo spagnolo ha ad esempio approvato la proposta del partito di sinistra Mas Paìs di ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni, mentre in Germania i sindacati metalmeccanici chiedono la riduzione dell’orario lavorativo. Alcuni esperimenti sono stati condotti anche da privati, come l’azienda di software Buffer e la sede Microsoft in Giappone.
Per quanto riguarda il reddito universale per non abbienti, è recentemente uscita la notizia dell’esperimento compiuto – in modo limitato ma verificabile – a Stockton, città di 300mila abitanti della Central Valley agricola della California. “Lo dico e lo ripeto a voce alta: il principale risultato del nostro esperimento è la dimostrazione che aiutare i più poveri con distribuzioni di denaro contante — limitate ma anche incondizionate — non spinge la gente a lavorare di meno ma di più”, afferma l’ex sindaco Michael Tubbs che, nel 2019, decise di versare 500 dollari al mese a 125 famiglie indigenti, confrontando i loro comportamenti con quelli di famiglie analoghe, che però non avevano ricevuto il sussidio. Le famiglie, secondo l’analisi, hanno usato il denaro in modo costruttivo (37% per acquistare cibo, solo l’1% per alcolici), riducendo inoltre i debiti e sfruttando le occasioni di lavoro: “all’inizio del programma solo il 28% dei beneficiati aveva un impiego fisso a tempo pieno, alla fine questa quota era salita al 40% mentre il numero delle famiglie che stanno rimborsando i loro debiti è salito dal 52 al 62%”. Stockton è stato un punto di partenza importante e molte città statunitensi, riunite sotto la guida dell’organizzazione Mayors for a guaranteed income, stanno pensando a soluzioni di questo tipo.
In Germania sta per avere luogo un esperimento analogo per studiare gli effetti del reddito universale. Per tre anni, 120 persone riceveranno 1200 euro al mese, e i ricercatori cercheranno di raccogliere dati. Queste persone saranno selezionate casualmente tra 20mila candidati, da cui ne verranno presi 1500 e, mentre 120 riceveranno i sussidi, 1380 non li riceveranno, ma verranno ugualmente monitorati, rispondendo ogni sei mesi a un questionario obbligatorio.
Gli altri due esperimenti conclusi a oggi, oltre a quello statunitense, si sono svolti in Finlandia nel 2017 e in Canada negli anni Settanta (anche se i risultati sono stati pubblicati solo nel 2008). Nel primo caso, duemila disoccupati hanno ricevuto per due anni 560 euro al mese: il reddito, nel caso finlandese, non ha aumentato, ma neanche diminuito, l’impegno dei beneficiari nella ricerca del lavoro, ma ha contribuito sensibilmente a diminuire la loro ansia e incertezza. Anche l’esperimento canadese ha dimostrato gli effetti benefici del reddito per la salute psicofisica. Alcuni dirigenti della Silicon Valley si dimostrano favorevoli al reddito universale, perché sarebbe un sistema efficiente per mantenere una popolazione di consumatori sempre attiva.
L’incertezza economica, la paura di non riuscire ad assolvere i bisogni primari, o anche solo l’incredibile stress di non trovare un lavoro soddisfacente costituiscono dunque barriere significative per il mutamento strutturato (e desiderato) della qualità delle nostre vite. Come ricorda l’economista Yanis Varoufakis: “Il diritto di rifiutare un lavoro è essenziale per un mercato del lavoro funzionante e per una società civile. E per averlo veramente, bisogna avere un’alternativa; perché persone disperate accetteranno di fare cose disperate”.
di Flavio Natale