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Le possibili alternative alla catastrofe annunciata della plastica nell’ambiente

Il flusso dei rifiuti di plastica può essere ridotto di quasi l’80 per cento nei prossimi 20 anni, ma l’umanità dovrebbe raddoppiare la capacità di riciclaggio globale e i Paesi a basso e medio reddito aumentare i propri tassi di raccolta.

di Andrea De Tommasi

In 2050 Cronache marine si viene proiettati in un futuro distopico in cui la plastica ha cambiato completamente il mare e le nostre vite. Siamo a Manduria, in Puglia, in un tempo dove uomini e donne convivono con la plastica in una rassegnata realtà: ci sono il pescatore che raccoglie bottiglie, lo chef di microplastiche, la collezionista di packaging e la cacciatrice di sacchetti. Il docufilm promosso dall’Istituto Aikos nell’ambito del progetto “Life beyond plastic”, utilizza la finzione narrativa per porci di fronte a un’urgenza non più rimandabile: proteggere l’ecosistema riducendo il consumo di plastica monouso.

 

Negli ultimi 20 anni abbiamo prodotto più plastica rispetto ai 50 anni precedenti. La maggior parte è stata consumata nelle economie avanzate, dove i cittadini ne usano oltre dieci volte di più rispetto ai Paesi in via di sviluppo. I Paesi occidentali spediscono la maggior parte dei loro rifiuti di plastica all'estero, montagne di spazzatura che finiscono prevalentemente in Stati asiatici e africani. Il blocco all’importazione dei rifiuti in plastica introdotto dalla Cina nel 2018 ha messo in crisi il sistema di riciclo a livello globale e l’Occidente in particolare. L’Italia, tra i principali esportatori di rifiuti plastici al mondo, ha dovuto modificare le sue rotte commerciali indirizzando le sue navi cariche di scarti soprattutto verso la Malesia e il Vietnam ma anche in altri Paesi europei, come ha spiegato un’analisi di Greenpeace. Con il mondo impegnato a fronteggiare la pandemia, i dispositivi di protezione individuale (Dpi) sono un ulteriore onere per i sistemi di gestione dei rifiuti già sovraccarichi. Le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità raccontano di 90 milioni di maschere di plastica utilizzate e smaltite ogni giorno nella lotta contro il Covid-19. La plastica ha dato grandi vantaggi all’umanità ma è anche il materiale più dannoso e quello che resiste più a lungo tra i rifiuti in mare. A livello economico, la plastica causa una perdita annuale di valore per i servizi dell’ecosistema marino che varia da 500 a 2500 miliardi di dollari. Durante la quarta riunione del gruppo di esperti sui rifiuti marini e le microplastiche (Aheg-4), svoltasi dal 19 al 13 novembre, il Wwf ha lanciato un appello urgente all’azione sui rifiuti marini e sull’inquinamento da plastica poiché la situazione sta peggiorando. Il meeting ha evidenziato le profonde divergenze tra i Paesi intorno all’idea di un accordo globale per fermare l’inquinamento da plastica. I singoli Stati procedono con piani nazionali che alla lunga si mostrano inefficaci perché privi di obiettivi di riduzione chiari e misurabili, di meccanismi di monitoraggio e rendicontazione, di mezzi finanziari e tecnologici adeguati alla sfida.

 

Ci si aspetta che nei prossimi due decenni la produzione di plastica salga alle stelle. Secondo i modelli business as usual, il flusso di macro e microplastiche nell’oceano è destinato quasi triplicare. Il rapporto Global biodiversity outlook 5  prevede che l’inquinamento da plastica aumenterà di 2,6 volte rispetto ai livelli del 2016 entro il 2040: oltre il 60% delle barriere coralline del mondo è già minacciato dalle oltre 260mila tonnellate di particelle di plastica nelle acque oceaniche. Gli animali marini possono rimanere impigliati o ingoiare rifiuti di plastica e alla fine morire per esaurimento e fame. Il Pew charitable trust ha presentato i risultati di una ricerca pubblicata il 18 settembre su Science secondo cui gli attuali impegni per combattere i rifiuti marini ridurranno le perdite di plastica nell’oceano solo del 7% nei prossimi 20 anni e ha spiegato come un cambiamento di sistema sarebbe economicamente vantaggioso per l’economia globale, creando posti di lavoro e riducendo le emissioni di gas serra. I ricercatori hanno scoperto che il flusso di plastica nell’ambiente può essere ridotto di quasi l’80% nei prossimi 20 anni, ma l’umanità dovrebbe raddoppiare la capacità di riciclaggio globale e i Paesi a basso e medio reddito aumentare i propri tassi di raccolta dei rifiuti. Per ottenere questa riduzione, sono necessari cambiamenti significativi nel modo in cui i Paesi gestiscono i rifiuti di plastica, sia a monte (produzione e progettazione), sia a valle (uso e smaltimento). I cambiamenti includono la riduzione dell’uso della plastica, la sua sostituzione ove possibile, il miglioramento delle strategie di riciclaggio, l’espansione della raccolta dei rifiuti e la costruzione di migliori strutture di smaltimento. “Sebbene la tecnologia sia pronta per affrontare gran parte delle sfide dell’inquinamento da plastica, le infrastrutture e i modelli di business non sono ancora adeguati”, ha detto Winnie Lau, funzionario senior del progetto Pew per la prevenzione della plastica oceanica e autore principale dello studio.

 

Cresce senza sosta anche la quantità di rifiuti in plastica che finisce ogni anno nel Mediterraneo, come conferma uno studio dell’International Union for Conservation of Nature (Iucn), l’autorità che sorveglia la conservazione dell’ambiente, citato dal meteorologo Luca Mercalli su Il Fatto Quotidiano del 15 novembre. Considerato come uno degli ambienti più minacciati al mondo, a causa dell’elevata densità di popolazione dei Paesi rivieraschi, dei grandi afflussi turistici e della navigazione mercantile, il Mediterraneo ha accumulato finora oltre un milione di tonnellate di plastica e, dei 33 Paesi che vi si affacciano, l’Italia è seconda dopo l’Egitto tra i maggiori contributori con 34mila tonnellate all’anno. Sulla base di un previsto aumento annuale della produzione globale di plastica del 4%, come riportato nella figura 5.2, il rapporto “The Mediterranean Mare Plasticum” delinea diversi scenari. Rileva che in uno scenario normale, le perdite annuali raggiungeranno le 500mila tonnellate all’anno entro il 2040 e sottolinea che saranno necessari interventi ambiziosi oltre gli impegni attuali per ridurre il flusso di plastica in mare. L’attuale approccio non è più sufficiente, come spiega nello studio Antonio Troya, direttore Iucn-Med: “I governi, il settore privato, gli istituti di ricerca e i consumatori devono lavorare in modo collaborativo per ridisegnare i processi e le catene di approvvigionamento, investire nell’innovazione, adottare modelli di consumo sostenibili e migliorare i modelli di gestione dei rifiuti”.

 

 

Che fare allora? Il riciclo può essere parte della soluzione ma dobbiamo iniziare con una riduzione della produzione di plastica. Secondo il Global commitment 2020 pubblicato in novembre dalla Fondazione Ellen McArthur e dal Programma delle Nazioni unite per l’ambiente, sono a rischio gli obiettivi sottoscritti da centinaia di organizzazioni internazionali verso la visione di un'economia circolare per la plastica. Il Rapporto mostra progressi incoraggianti in alcune aree, in particolare nell'uso di plastica riciclata. Ma, andando avanti, sarà fondamentale vedere anche importanti passi in avanti nel ripensare in primo luogo quanto dobbiamo produrre e quale imballaggio viene immesso sul mercato. Come ha spiegato Ligia Noronha, direttore della divisione Economia dell'Unep, “sappiamo che l'industria non può realizzare il cambiamento da sola e chiediamo ai responsabili politici di mettere in atto le condizioni favorevoli, gli incentivi e il quadro internazionale adatto per accelerare questa transizione”.

 

Unea-5, la quinta assemblea delle Nazioni unite per l‘ambiente che dovrebbe riunirsi virtualmente nel febbraio 2021, dovrà discutere se approvare o meno un accordo globale per affrontare organicamente la riduzione del flusso di rifiuti nell’ecosistema marino. Già la riunione di Aheg-4 ha visto un cambiamento unico nella rappresentanza, con molte Ong che hanno portato la loro voce e la loro presenza al fianco di quella dei governi. Ciò a significare che la questione dei rifiuti marini e delle microplastiche è un’area di interesse pubblico che non può essere messa da parte. Come ha sottolineato il direttore esecutivo dell’Unep, Inger Andersen, occorre affrontare l’intero ciclo di vita dei prodotti, compresi i modelli di consumo sostenibile e la progettazione del bene, promuovere un approccio all’economia circolare e porre fine alla cultura dell’usa e getta. Nel frattempo, se i produttori passassero a materiali alternativi, come carta e materiali compostabili, e si assicurassero che i prodotti e gli imballaggi fossero programmati per il riciclaggio, la quantità di plastica riciclabile non solo aumenterebbe, ma aumenterebbe di valore, hanno sottolineato i ricercatori del Pew.

 

Alcuni esperti dicono che servirà ideare un tipo di plastica che non sia nociva, creare nuove sostanze chimiche che non siano interferenti endocrini, produrre plastica dagli oli e dalle piante, investire sulla bioplastica. Il mercato delle plastiche bio è in aumento, si prevede che la produzione industriale globale raggiungerà i 2,62 milioni di tonnellate entro il 2023, secondo l’associazione di categoria European Bioplastics con sede a Berlino. Attualmente, si tratta soltanto dell’1% dei 335 milioni di tonnellate di plastica convenzionale prodotte ogni anno. Ma la Commissione europea, nel suo nuovo Piano d’azione per l’economia circolare, ha indicato la ricerca sulle bioplastiche come parte della sua strategia per guidare gli investimenti in un’economia climaticamente neutra (per gli impegni della Commissione sulla plastica, si veda il Quaderno dell’ASviS “Obiettivi di sviluppo sostenibile e politiche europee – Dal Green deal al Next generation Eu” curato da Luigi Di Marco, p. 118). Le bioplastiche soddisfano la domanda di sostenibilità essendo realizzate con risorse rinnovabili non esauribili e carbon neutral: possono essere ottenute da amido di mais, zucchero di barbabietola, bucce di kiwi, gusci di gamberetti, persino mango e alghe. Un’alternativa appetibile alle plastiche convenzionali fatte di combustibili fossili come il petrolio greggio e il gas metano. Le bioplastiche possono funzionare come materiali tipo il vinile e il Pet, la plastica più comunemente usata nelle bottiglie per bevande. Non tutte le bioplastiche però scompaiono facilmente: la velocità con cui la plastica viene scomposta dipende dal tipo di materiale e dell’ambiente. Alcune bioplastiche possono essere scomposte nel giro di pochi mesi, ma nel frattempo continuano a rappresentare un rischio per la fauna selvatica. Al momento le bioplastiche hanno anche un prezzo più alto e l’offerta non sufficiente per soddisfare la domanda. Non è chiaro quanto siamo vicini a un futuro caratterizzato dalle bioplastiche. Secondo alcuni, arriverà un momento in cui saremo in grado di sostituire l’85-90% di tutta la plastica a base fossile con la plastica a base biologica. Ma l’impressione è che ci sia ancora tanta strada fa fare.

 

di Andrea De Tommasi

mercoledì 18 novembre 2020