Investimenti pubblici, vaccini, migrazioni: i nodi al pettine per il futuro dell’Unione
Doveva essere l’anno del rilancio dell’integrazione europea grazie alla Conferenza voluta da Macron, ma nonostante l’impegno della Commissione contro la pandemia i Paesi rischiano di procedere in ordine sparso.
di William Valentini
Le urgenze poste dalla morsa della crisi economica, la gestione dei prossimi mesi di pandemia, un piano vaccinale che si preannuncia pieno di incognite. Le tensioni politiche, economiche e sociali che scuotono la comunità internazionale e la pressione migratoria che vede i Paesi dell’Unione come punto di arrivo. Ancora: la gestione della transizione verso un nuovo orizzonte di sviluppo più inclusivo e sostenibile, che tenga conto degli obiettivi dell’Agenda 2030.
L’Unione Europea si trova di fronte a un anno nel quale deve necessariamente dare risposte a questi problemi, altrimenti rischia di cedere alle forze centrifughe rappresentate da partiti di estrema destra, ormai al governo in alcune realtà europee. Per far fronte a queste sfide, già nel 2020, si sarebbe dovuta svolgere la Conferenza sul futuro dell’Unione europea, promossa dal presidente francese Emanuel Macron e sostenuta convintamente dal Parlamento europeo. L’evento, della durata prevista di due anni, doveva essere il momento per muovere un passo decisivo verso una maggiore integrazione tra i Paesi dell’Unione. Nonostante l’urgenza, tuttavia, le istituzioni europee continuano ad essere ostaggio di quelli che Roberto Castaldi di Euratv.it definisce “giochetti politici”. I governi nazionali, infatti, non riescono a trovare un accordo su chi dovrà presiedere la Conferenza, e questo in un momento di enorme difficoltà economica e sociale per tutto il continente, denuncia il giornalista. Un ritardo che appare ancora più colpevole a causa della pandemia, mentre diventa chiaro che l’Europa si trova senza strumenti consolidati per impostare in modo coerente ed efficace lo sviluppo nei prossimi decenni.
Nell’intervista concessa a Francesca Pierantozzi del Mattino di Napoli, il celebre economista francese Jean-Paul Fitoussi sembra confermare la straordinarietà del momento storico per tutta l’Unione: “Siamo a una svolta, questo è certo: o facciamo quello che si deve, o si abbandona l’idea di Europa”, ha spiegato il professore nel colloquio con il quotidiano partenopeo, “bisogna essere concreti, la gente ha bisogno di sostegno. Adesso”. Aiuti ai cittadini e rilancio dell’economia che passa dall’attuazione dei piani nazionali di investimenti nell’ambito del Next Generation Eu, lo strumento per rispondere alla crisi pandemica provocata dal Covid-19: è questo il campo dove si giocheranno le prossime partite di Bruxelles, sottolinea Fitoussi. Tuttavia, spiega ancora il professore, le necessità del momento si scontrano con la mancanza di strumenti e con la difficoltà di portare avanti una politica economica coerente. “L’incapacità a mettere in piedi un piano di rilancio non è propria solo all’Italia”, spiega l’economista. “Molti Paesi sono in ritardo perché le nostre economie e i nostri governi hanno dimenticato come si fa un piano di rilancio. Dopo decenni di politiche liberali non sappiamo più usare in modo produttivo ed efficace la spesa pubblica. Abbiamo perso gli strumenti economici che adesso ci sono indispensabili, come il calcolo della redditività sociale degli investimenti pubblici o i commissariati alla pianificazione”, conclude il docente dell’Institute d’Etudes politiques di Parigi.
Eppure, per intervenire efficacemente sulle criticità nate in questa fase storica sarà necessario trovare “soluzioni rapide e pragmatiche”, per esempio per superare lo “stallo” che impedisce lo svolgimento della Conferenza sul futuro dell’Europa, come ricorda la segretaria di Stato portoghese agli Affari europei, Ana Paula Zacarias, durante una conferenza stampa ripresa da euratv.it. In realtà qualche indicazione in questo senso è contenuto nel programma del semestre di presidenza portoghese al Consiglio europeo. Infatti, il giornalista e membro dell’ASviS Ruggero Po nel corso della trasmissione di Radio Radicale Alta Sostenibilità, ha sottolineato come il presidente Antonio Costa ricevendo il testimone dalla cancelliera tedesca ha dichiarato che punterà su “un’Europa resiliente, solidale, verde, digitale e globale”.
Tuttavia, la massima dell’ex segretario di Stato statunitense Henry Kissinger, secondo la quale non bisogna mai sprecare le opportunità di una crisi, sembra essere stata accolta da Bruxelles nei mesi più drammatici della pandemia, quando in Europa mancavano i presidi igienico-sanitari necessari per combattere il virus e i Paesi dell’Unione sequestravano i materiali diretti ad altre capitali europee. L’Ue sembra aver imparato che “rafforzare la sua resilienza” è necessario per “proteggere meglio i suoi cittadini”, come sottolinea l’appello sottoscritto da un folto gruppo di politici e intellettuali e pubblicato sulle testate giornalistiche che aderiscono al consorzio europeo Lena.“Queste azioni e questi piani hanno senso solo se servono gli interessi duraturi dei cittadini dell'Unione e si inseriscono in una prospettiva di rinascita” e di rilancio del progetto europeo.“Nonostante l’impegno finanziario sia notevole” spiega ancora il documento, proposto su iniziativa dei Co-presidenti di Civico Europa, da Guillaume Klossa, ex membro del Gruppo di riflessione sul futuro dell'Europa del Consiglio europeo ed ex direttore dell'Unione europea di radiodiffusione insieme a Francesca Ratti, già vicesegretario generale del Parlamento europeo. “Non è stata fatta una vera e propria riflessione sulla qualità degli investimenti necessari per avere un forte impatto sulla crescita sostenibile e socialmente inclusiva. Allo stato attuale, i piani di ripresa nazionali che sono in fase di elaborazione e che saranno finanziati con fondi europei, riprendono vecchi progetti digitali ed ecologici ormai obsoleti. È urgente correggere la situazione e coinvolgere meglio le parti sociali e i cittadini nelle scelte da fare, promuovendo al contempo investimenti con una dimensione veramente europea, capaci di forgiare un Nuovo patto europeo, che comprenda un ambizioso Green new deal”.
Per la prima volta, le politiche di tutela ambientale sono state fondamentali per la coagulazione della maggioranza che sostiene la Commissione europea e, nei prossimi anni, giocheranno un ruolo centrale anche nelle relazioni internazionali. Dopo la firma degli Accordi di Parigi sul clima, infatti, a livello globale si era diffusa una certa tendenza a rallentare le azioni rivolte alla tutela ambientale. Tendenza che la nomina di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea e l’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca sembrano aver sbloccato. Il neo-presidente americano, infatti, il giorno dopo l’insediamento a Pennsylvania Avenue, ha firmato l'ordine esecutivo che chiede la riammissione urgente del suo Paese nell’United nations framework convention on climate change (Unfccc) e nell’Accordo di Parigi sul clima. In particolare, la nomina di John Kerry a consigliere speciale per i cambiamenti climatici sembra aprire una fase in cui i temi ambientali saranno al centro dei rapporti multilaterali in tutto il mondo. “La prossima Cop 26 di Glasgow è molto importante perché è la prima dopo Parigi che ha come obiettivo quello di prendere degli impegni”, spiega Monica Frassoni, co-presidente del Partito Verde Europeo, intervistata da Riccardo Liberatore per il sito Open. “Data anche l’accelerazione dei cambiamenti climatici, è chiaro che gli impegni presi non sono sufficienti. Glasgow sarà l’occasione per vedere se esiste una volontà globale per prendere degli impegni vincolanti su una riduzione di emissioni tali da portare a una neutralità climatica entro il 2050”. “Con l’ingresso degli Stati Uniti, l’Unione europea insieme ad altri Paesi potrà contare su un’altra grande democrazia che spinge per rispettare gli impegni di Parigi”. Tuttavia, spiega ancora la co-presidente “il problema fondamentale è che gli Stati Uniti sono piuttosto indietro e hanno una pessima reputazione dal punto di vista degli impegni sul clima. Non bisogna dimenticare che negli anni ’90, quando venne finalizzato il Protocollo di Kyoto, gli americani prima lo sottoscrissero e poi si ritirarono. Dal punto di vista della loro reputazione è importante che siano presenti ai negoziati, ma non possiamo pensare che improvvisamente cambino del tutto”.
Se da un lato il rientro degli Usa negli accordi di Parigi rappresenta un passaggio fondamentale per la riapertura del dibattito internazionale che, tra l’altro, appare destinato a ridare centralità a Bruxelles, dall’altro l’Unione rischia di perdere un’altra sfida fondamentale: la gestione della pressione migratoria. “L’Ue attua in modo ossessivo uno schema basato su due pilastri. Il primo: bloccare i migranti pagando la Turchia e i Paesi dell’area balcanica. Il secondo: respingere illegalmente”, delegando ai Paesi lungo i confini (tra i quali c’è anche l’Italia) la gestione e i respingimenti spesso irrispettosi dello Stato di diritto, scrive Gianfranco Schiavone dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione sul quotidiano il Riformista. L’inadeguatezza della soluzione sta portando alla cristallizzazione di una crisi umanitaria per duemila profughi assiepati nel campo di Lipa in condizione di estremo degrado e senza i servizi minimi per sopravvivere al gelo dell’inverno balcanico. Nonostante 90 milioni di euro trasferiti al governo di Sarajevo dall’Ue per la gestione della rotta che attraversa i Balcani, questa è rimasta “pur nello scorrere del tempo del tutto emergenziale come se ci si trovasse di fronte a un numero incontenibile di arrivi (ma non è affatto così)” scrive il giornalista. Silvia Maraone, esperta di migrazioni e Balcani dell’Istituto di pace e sviluppo innovazione Acli, citata da Schiavone, spiega quello che ormai è sotto gli occhi di tutti: “La (non) gestione della situazione di Lipa è l’apice di una crisi politica più ampia e del fallimento delle politiche di decentralizzazione dell’Ue” per quello che riguarda le migrazioni. La gestione si traduce in “finanziamenti diretti e indiretti senza badare a spese e senza andare troppo per il sottile su chi riceve il denaro (e il relativo potere). Così ha fatto l’Ue con la Turchia, il luogo da cui inizia la rotta balcanica, rafforzando il regime di Erdogan, così tenta di fare disperatamente con la Libia, e così fa con i Paesi dell’area balcanica. L’Ue non sembra affatto interessata a far crescere dei sistemi locali di asilo adeguati alla situazione dei diversi Stati balcanici. Farlo richiederebbe programmi di lunga durata, compresa la ricollocazione” delle persone che arrivano sul confine e lo sviluppo di programmi di protezione umanitaria negli Stati che non hanno tradizione d’asilo, “tutto il contrario di ciò che è stato fatto”.
Ma se il problema della pressione migratoria rappresenta da anni un vulnus nella politica estera di Bruxelles, nei prossimi mesi le istituzioni europee dovranno dare una risposta convincente anche alla gestione del piano vaccinale. Lo stesso presidente portoghese Antonio Costa, nel momento di apertura del semestre di presidenza dell’Ue, aveva posto l’accento sull’importanza di una gestione comunitaria della pandemia e della vaccinazione. Tuttavia, dopo gli entusiasmi delle prime settimane del lancio del piano vaccinale, sono comparse le difficoltà, tra cui la tentazione di diversi Paesi di avviare una strategia diplomatica bilaterale pur di assicurarsi il siero. Non stupisce che la prima capitale europea a muoversi in questo senso sia stata proprio Budapest. Secondo Antonio Castro su Libero quotidiano, nonostante l’Unione europea non abbia “informazioni sul vaccino cinese”, il governo di estrema destra dell’euroscettico Victor Orbán ha “sollecitato, da parte delle autorità dei farmaci ungherese, l’autorizzazione all’utilizzo del prodotto anti-Covid, spiegando di voler agire aggirando le regole dell’Ue che prevedono la preventiva autorizzazione dell’Ema per l’importazione e l’utilizzo ufficiale del vaccino di Pechino”. La ragione, hanno spiegato a Budapest, è l’eccessivo ritardo nella fornitura del siero, alla quale si somma l’annuncio della società farmaceutica Pfizer di poter consegnare “meno dosi del vaccino che ha sviluppato insieme a BioNTech di quelle previste”. Annuncio arrivato 48 prima della richiesta di Orbán all’istituto farmaceutico magiaro, scrive il giornalista. Brahim Maarad sul sito di Agi, che spiegava già il 4 gennaio scorso come quello che “doveva essere l’emblema della condivisione e della solidarietà” rischiava al contrario di far emergere lo spirito nazionalistico anche nei Paesi meno sospettabili: infatti anche la Germania era finita sul banco degli imputati per aver annunciato l’acquisto di trenta milioni di dosi, lasciando fuori l’Ue. Mentre oggi si arriva ad ipotizzare che l’Italia si possa rivolgere a Mosca per la fornitura del siero Sputnik 5.
di William Valentini