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Il futuro della pubblicità: guerre di cookies e spot stellari

Le norme stringenti sulla privacy hanno costretto le agenzie a battere nuove strade. Tra queste, inserzioni integrate nella realtà virtuale, hackeraggio dei sogni e annunci nello spazio.

di Flavio Natale 

“La pubblicità si basa su un'unica cosa: la felicità. E sapete cos'è la felicità? La felicità è una macchina nuova, è liberarsi dalla paura, è un cartellone pubblicitario che ti salta all'occhio e che ti grida a gran voce che qualunque cosa tu faccia è ben fatta, e che sei ok”.

Probabilmente, senza aver visto Mad Men durante gli ultimi mesi, questo articolo non sarebbe esistito – o sarebbe decisamente diverso. La serie tv, ideata da Matthew Weiner e prodotta dal 2007 al 2015, racconta l’evoluzione del mondo pubblicitario newyorkese durante gli anni sessanta, descrivendo le sfide che la società Sterling & Cooper – e il suo direttore creativo, Don Draper – devono affrontare. Questa storia è un espediente per raccontare (anche) un’altra grande epopea: quella dei cambiamenti che hanno sconquassato l’America durante lo stesso periodo – dalla campagna presidenziale Kennedy-Nixon alla crisi dei missili di Cuba, dall'assassinio di Kennedy alle lotte per la conquista dei diritti civili degli afroamericani, dalla morte di Marylin Monroe al primo allunaggio. Parlare di pubblicità vuol dire infatti raccontare i cambiamenti della società che la produce, i desideri e i sogni della popolazione che intende conquistare.

Da quei lontani anni sessanta, però, sono cambiate molte cose. Il cartellonismo (i manifesti pubblicitari o le reclami sui giornali) ha lasciato spazio alla pubblicità radiofonica e televisiva, a sua volta surclassata dal marketing online. Con la mutazione del luogo, si è evoluto anche il modo di pubblicizzare il prodotto: dagli spot frontali e di natura dichiaratamente promozionale, si è passati a pubblicità meno intrusive, integrate alle piattaforme che le ospitano. Come sottolinea Paola Panarese, professoressa associata di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca sociale della Sapienza, la reclame del futuro sarà “qualunque cosa che abbia una funzione pubblicitaria ma che non sembri pubblicità”.

La guerra dei cookies

Il primo passo per comprendere il marketing di oggi – e quindi quello del futuro – è studiare il ruolo che giocano i cookies di profilazione. Questi cookies servono a tracciare la navigazione dell’utente, analizzarne il comportamento, studiarne gusti e abitudini, per proporre messaggi promozionali in linea con gli interessi e le preferenze dell’individuo.  

I cookies di profilazione non sono tutti usati a scopo pubblicitario: i cookies di prima parte, infatti, sono di esclusivo dominio del sito web di riferimento, e contengono informazioni utili a migliorare la fruizione dell’utente, riconoscendolo a ogni visita e registrando, ad esempio, i prodotti presenti nel carrello, ma anche la lingua e il tipo di visualizzazione preferita. I cookies di terze parti, invece, sono creati da domini diversi rispetto alla pagina che si sta visitando, profilano la navigazione cross-site (quella che avviene attraverso i siti), gestiscono i modelli di attribuzione dell’adverstising, organizzano le campagne di retargeting e sono i principali strumenti della proliferazione pubblicitaria online.  

Facciamo un esempio.

Quando un utente visita un sito (poniamo, un brand di vestiti), gli viene proposta una privacy o cookie policy specifica: se la accetta, l’individuo scarica consensualmente un cookie che non appartiene al brand di riferimento ma, ad esempio, a una “terza parte”, come Doubleclick, la piattaforma di advertising di Google. Il cookie resta attivo per diversi mesi, e tiene traccia della navigazione dell’utente, fornendo dati che verranno messi a disposizione tanto degli inserzionisti (che devono capire dove piazzare la loro pubblicità) che degli editori dei siti (che devono capire come vendere il proprio spazio). Come risultato, quando l’utente visiterà la pagina di un sito, si ritroverà la pubblicità del vestito cliccato pochi giorni prima. Retargeting vuol dire questo: proporre un contenuto pubblicitario a un utente che si è già mostrato interessato a un particolare prodotto.

Ma come funziona questo processo?

Gli spazi che ogni sito dedica alla pubblicità vengono messi all’asta, ogni giorno e in tempo reale, attraverso un’operazione chiamata Real time bidding: mediante una serie di offerte automatizzate (per cui sarà sempre più cruciale il supporto dell’intelligenza artificiale), viene selezionata l’offerta migliore, sulla base sia del compenso economico che della coerenza rispetto all’utente e al sito di riferimento. Il risultato di questo processo è la pubblicità che vediamo quotidianamente, e che regge quasi da sola l’intero valore economico del mondo online. Secondo l’Osservatorio internet media del Politecnico di Milano, il programmatic advertising – la pubblicità programmata in base all’utente di riferimento – ha raggiunto nel 2020 in Italia il valore di 588 milioni di euro, in crescita del 6% rispetto al 2019.

Programmatic advertising e retargeting hanno realizzato il sogno di ogni pubblicitario: passare da spot indirizzati a una platea vasta a quelli mirati a una fetta di pubblico già interessata al prodotto che si sta vendendo. Questo sistema, però, dipende da cookies di terze parti molto invasivi. È per questo motivo che su motori di ricerca come Safari e Firefox questi strumenti vengono bloccati di default, mentre su Google Chrome imperversano ancora senza restrizioni, almeno fino all’introduzione della Privacy Sandbox, annunciata da Mountain View per il 2022.  

Con questo strumento, gli utenti dovrebbero guadagnare teoricamente un controllo maggiore dei propri dati, con messaggi pubblicitari meno invasivi e più legati alla pagina che si visita al momento. Google non sta però cercando di sbarazzarsi della pubblicità mirata: vuole solo sostituire metodi di tracciamento personalizzati con strumenti più equilibrati. “Parte del lavoro di Privacy Sandbox sarà nascondere l'individuo all'interno di un grande insieme di persone con interessi simili, o web crowds, a cui indirizzare gli annunci”. In poche parole, i siti web saranno in grado di raccogliere informazioni aggregate, senza tracciare gli spostamenti di ogni singolo cliente.

Sempre in una prospettiva di regolazione dei dati, ha agito anche il Regolamento generale per la protezione dei dati personali (Gdpr), introdotto nell’Unione europea nel 2016 e attivo dal 2018. Il regolamento – che, in queste settimane, sta generando dissapori tra Mark Zuckerberg e l'Ue – istituisce alcune innovazioni, come il diritto all’oblio (gli utenti possono esigere di rimuovere informazioni a proprio riguardo), la portabilità dei dati (si possono scaricare e trasferire dati da una piattaforma all’altra) e l’obbligo di notifica in caso di data breach (se subiscono fughe di informazioni sensibili, le aziende devono comunicarlo entro 72 ore). Fra i doveri principali, ci sono la richiesta di consenso in forma chiara, l’istituzione di un registro delle attività, la designazione di un responsabile della protezione dei dati e l’istituzione di un registro delle attività.

Comunque, a prescindere dal reale effetto che la Privacy Sandbox avrà sugli utenti, questa novità attiverà un cambiamento radicale nel mondo del marketing, causando un salasso significativo per i siti che ospitano pubblicità. Secondo una simulazione effettuata da Google, il declino medio degli introiti pubblicitari potrebbe arrivare addirittura al 64%. In questo senso, secondo Forbes, gli editori del futuro investiranno soprattutto sulla pubblicità contestuale – una pubblicità più attinente all’argomento del sito visitato – costringendo il settore a compiere un passo indietro di alcuni decenni. Ma la raccolta dati seguirà anche altre strade, tra cui: la rilevazione di dati biometrici, attraverso impronte digitali, riconoscimento facciale o scansioni retiniche presenti negli smartphone; dati comportamentali, raccolti da dispositivi indossabili, fotocamere eye-tracking o dispositivi simili; campioni vocali, registrati da altoparlanti intelligenti, display smart e altri strumenti a controllo vocale.

Storytelling e woke marketing

Evolvendosi i luoghi e i metodi del settore pubblicitario, è mutato anche il linguaggio con cui questo si esprime. “La strada dello storytelling ha scelto di divertire, emozionare, raccontare qualcosa piuttosto che fare promesse sul prodotto”, ricorda sempre Paola Panarese. “Si è preferito costruire un’immagine di marca che potesse coinvolgere il consumatore o meno invece di legarsi all’approccio tradizionale che vedeva nel logo il mezzo per ‘convincere’ il consumatore all’acquisto”. Per rendere accattivante un prodotto, bisogna non solo descriverlo ma raccontarlo, inserirlo in un contesto e una storia che possa interessare. Tutto ciò farà sì che un bene, anche non di prima necessità, rimanga impresso nella memoria dell’utente. Che è un po’ quello che Don Draper, protagonista di Mad Men, prova a spiegare ai Ceo della Kodak, quando propone di pubblicizzare il proiettore di diapositive – che loro vogliono denominare “astronave spaziale” – come “giostra” del tempo.

La capacità emozionale dello storytelling pubblicitario è stata usata però anche come strumento di woke marketing, un tipo di promozione che sfrutta le tematiche sociali del momento per scopo di lucro. Da qui, il termine woke washing (versione ampliata del greenwashing): un esempio? Questo spot della Gillette, secondo il Guardian.

La questione dello storytelling è particolarmente delicata quando si parla di influencer, e del ruolo che giocano sui social. Infatti, sempre per Panarese, “stabilire cosa effettivamente sia una promozione pubblicitaria e cosa non, nel momento in cui si coinvolge un influencer, un utente che potrebbe parlare per sé così come parlare per qualcun altro, risulta complesso. Serve sicuramente una regolamentazione che chiarisca i limiti di ciò che è lecito e ciò che non è lecito perché oramai l’impatto di un influencer online risulta molto più forte di uno spot televisivo”. Il ruolo degli influencer è la massima espressione di quella “pubblicità che non sembra pubblicità”, ma che porta con sé anche molti rischi, come l’elevata diffusione di messaggi promozionali occulti.

Nuovi spazi per nuove pubblicità

Secondo uno studio condotto da YuMe, gli spot lanciati all’interno di una realtà virtuale, in particolare durante un videogioco, hanno il 70% di probabilità in più di essere ricordati dagli spettatori, rispetto a quelli “normali”. Il 74% degli intervistati ha affermato che l'esperienza pubblicitaria nella realtà virtuale (Vr) è stata meno invadente dei soliti annunci digitali e il 69% ha affermato che questi spot erano ben integrati. Lo studio ha anche suggerito che l'elevato coinvolgimento emotivo dei giochi multiplayer in Vr offre sia un'opportunità che una sfida per la pubblicità in-game. “Riteniamo che il forte coinvolgimento emotivo dei giochi Vr fornisca un ottimo contesto per inserire annunci pubblicitari", ha detto Jeremy Pincus, Ph.D. e vicepresidente di Isobar. "Vediamo un forte coinvolgimento emotivo, misurato attraverso vari canali biometrici, tra cui onde cerebrali, contrazioni muscolari facciali, conduttanza cutanea e variazioni della frequenza cardiaca”.

Delle nuove frontiere del marketing fa parte anche l’idea di lanciare messaggi promozionali direttamente nello spazio. Proposta dalla startup StarRocekt, questa nuova forma di pubblicità verrebbe generata da una serie di minuscoli satelliti, dotati di una vela riflettente di circa nove metri di diametro. Questi "cubisat" orbiterebbero a un'altitudine di circa 450 chilometri, e la luce solare si rifletterebbe sulle vele per formare parole o loghi luminosi, visibili in tutto il pianeta. Il progetto ha raccolto numerose critiche, e per il momento non è partito. Secondo John Crassidis, professore di ingegneria meccanica e aerospaziale presso l'Università di Buffalo, "Inviare altri satelliti lassù causerà una maggiore probabilità di collisioni, e incrementerà il quantitativo di spazzatura spaziale”. Secondo il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, infatti, a oggi, tra satelliti deteriorati e parti di razzi inutilizzate, si contano 500mila componenti di spazzatura spaziale orbitanti attorno alla Terra.

Di natura simile è l’idea lanciata dalla Geometric Energy Corporation (Gec), una startup canadese, che intende rendere possibile la pubblicità spaziale con il supporto di SpaceX, l’azienda fondata da Elon Musk. Samuel Reid, Ceo e co-fondatore di Gec, ha affermato che la società sta costruendo un satellite – chiamato CubeSat – dotato di uno schermo pixelato in cui appariranno pubblicità, loghi e immagini. La società prevede di caricare il CubeSat su un razzo SpaceX Falcon 9, che lo condurrà in orbita, rilasciandolo prima che il razzo raggiunga la luna[1].

Ma secondo Aeon, la frontiera del marketing potrebbe spostarsi ancora più in là, andando a colonizzare i nostri sogni, attraverso stimoli promozionali proposti prima o durante il sonno. La notte precedente il Super Bowl 2021, infatti, l'azienda produttrice di bevande Molson Coors ha condotto quello che la società stessa ha definito “il più grande studio sui sogni del mondo”. Molson Coors ha provato a inserire nella mente di alcuni soggetti immagini della propria birra, saldandole a illustrazioni rilassanti (di rinfrescanti fiumi alpini, per esempio). L’azienda ha incentivato la partecipazione all’esperimento tramite l’offerta di bevande gratuite – convincendo anche la pop star Zayn Malik. I risultati dell’esperimento sono stati altalenanti, ma non si tratta di un’esperienza isolata. Diversi studi di marketing stanno infatti testando nuovi sistemi per modificare e guidare il comportamento di acquisto attraverso il sonno. Lo studio Future of marketing 2021 dell'American marketing association ha rilevato che, su oltre 400 marketer di aziende negli Stati Uniti, il 77% mira a implementare l’hacking dei sogni nei prossimi tre anni. Tra le tecnologie più all’avanguardia nel settore c’è Dormio, un’app che, tramite alcuni sensori collegati a un computer o a uno smartphone, induce gli utenti a pensare a un argomento specifico – da qualcosa di molto semplice, come un albero, a sistemi più complessi – prima del sonno. Quindi, dopo aver lasciato i soggetti dormire per un periodo di tempo determinato, Dormio li sveglia e registra il rapporto verbale del sogno. Un recente articolo su questa tecnica, chiamata "incubazione dei sogni mirata" (Tdi), ha mostrato l’efficacia di questa incorporazione dei suggerimenti pre-sonno. Questo strumento – che permetterebbe alla pubblicità non più di interpretare o veicolare i sogni del pubblico, ma indurli – potrebbe portare a cambiamenti anche più radicali di quelli che potrebbero avvenire nel settore pubblicitario, stimolando la cura da molte dipendenze, come fumo, alcol e droghe.  

Il legame tra sogni e pubblicità ha radici datate, che risalgono alla prima metà del Novecento. Il nipote di Sigmund Freud, Edward Bernays, è considerato il pioniere delle pubbliche relazioni e delle industrie pubblicitarie statunitensi: sono state le teorie dello zio, infatti, a permettere a Bernays di rivoluzionare negli anni venti le basi del marketing pubblicitario, dedicando particolare attenzione ai desideri e all’associazione inconscia. In una serie di campagne di enorme successo, Bernays ha dimostrato come le forze irrazionali che guidano il comportamento umano possano essere sfruttate per manipolare il comportamento della collettività. È la psicoanalisi, ad esempio, che ha dato alla pubblicità l'idea di vendere per associazione, collegando auto e mascolinità, sigarette e libertà, oppure, come per il progetto Coors, birra ed esperienze rinfrescanti.

Si ritorna, quindi, all’inconscio e al desiderio degli individui, alle aspirazioni di intere generazioni. Soltanto che, rispetto ai tempi di Bernays e agli anni sessanta di Mad Men, le big tech (Amazon, Apple e Google in testa) hanno la possibilità di invadere lo spazio pubblico e privato quasi senza ostacoli. E non è difficile immaginare come i nuovi strumenti progettati per monitorare il sonno (Nest Hub e Fitbit di Google) potranno essere magicamente riutilizzati per seminare messaggi promozionali lungo le strade dei nostri sterminati sogni notturni.

di Flavio Natale

[1] In confronto, la pubblicità che qualche mese fa ha occupato con droni luminosi il cielo di Roma in occasione dell’uscita del nuovo film Marvel, Eternals, sembra un’inezia.

*L'immagine di copertina è di StarRocket

martedì 8 febbraio 2022