Parigi celebra le artiste
Artemisia Gentileschi, Agnès Varda e Marie-Laure de Decker testimoniano in modi differenti l’eccellenza declinata al femminile.
Parigi trasuda cultura da tutti i pori e questa non è un’impressione inaspettata. Più inaspettato – ma forse in questo caso l’impressione è dovuta a un’antica certezza sulla discriminazione del genere femminile – è che contemporaneamente la città celebri tre artiste con esposizioni di grande valore e attrattività.
Ad accomunarle, oltre al fatto di essere donne, una virtù generalmente attribuita al genere maschile, il coraggio, e l’eccellenza delle loro vite e delle loro opere.
Partirò da quella più conosciuta al grande pubblico, soprattutto italiano, grazie a un’opera di diffusione comunque (colpevolmente) piuttosto recente.
La prima grande mostra monografica dedicata ad Artemisia Gentileschi risale infatti al 2011-2012, nel Palazzo Reale di Milano. Quella parigina, ospitata dal musée Jacquemart-Andrée, è la prima esposizione monografica a lei dedicata nella capitale francese e tra le più attese della stagione a giudicare dall’affollamento verificatosi nei primi giorni. Curata da Patrizia Cavazzini e Maria Cristina Terzaghi, affiancate da Pierre Curie, consta di una quarantina di dipinti a cui vanno ad aggiungersi una dozzina di tele di suoi contemporanei, alcune del padre Orazio Gentileschi. Nata a Roma nel 1593, Artemisia rimase sconosciuta fino al 1916, quando Roberto Longhi le dedicò un saggio in cui la definiva “l’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura e colore e impasto e simili essenzialità”.
Per tre secoli dimenticata, solo perché donna. Ma ancora oggi troppo spesso giudicata, più che per il valore della sua arte, per la violenta rivalsa sul genere maschile espressa da molti suoi dipinti e causata da uno stupro da lei subito in età adolescente da parte di un collega del padre. Eppure il dipinto Susanna e i vecchioni, esposto alla mostra e chissà perché non fotografabile a differenza di tutte le altre opere esposte, è davvero emblematico di quello che ancora oggi, a distanza di secoli, molte giovani donne sono costrette a subire.
Personalità poliedrica è quella di Agnès Varda, a cui le musée Carnavalet dedica la mostra Le Paris d’Agnès Varda, de-ci, de-là, a cura di Pénélope Bagieu, fumettista e illustratrice. Ed è significativo che la curatrice sia una giovane donna che con le sue opere mostra una vicinanza ideale a Varda, ben riassunta nel titolo dei due volumi pubblicati in Francia da Gallimard e in Italia da Bao Publishing, Indomite – Storie di donne che fanno ciò che vogliono.
L’esposizione racconta il percorso di Agnès Varda come fotografa, regista e artista visuale durante gli anni vissuti a Parigi tra il 1943 e il 2019. Frutto di due anni di ricerche, si basa sulla collezione fotografica dell’artista e sugli archivi del Ciné Tamaris, una società di produzione creata dalla stessa Varda.
Il suo studio, in rue Daguerre nel 14° arrondissement, era diventato un luogo di ritrovo grazie anche alla sua creatività nel promuoverlo e a una indiscutibile tenacia. Lungi dal lasciarsi sconfiggere dall’indifferenza dei media, organizzava esposizioni nel cortile dell’atelier inviando un biglietto d’invito da lei stessa realizzato e accogliendo i visitatori con vino, olive e biscotti.
Dopo un lungo e prolifico “apprendistato” nella fotografia ha debuttato nel cinema (“La fotografia è verità. E il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo”, diceva Jean Luc Godard). Alla settima arte approdò nel 1954 con La pointe courte, film girato con pochissimi mezzi, rivoluzionario nei modelli estetici e per questo osteggiato dal sistema.
Esponente della Nouvelle Vague ne introiettò i canoni che mirano a creare un cinema nuovo, fatto di quotidianità, di protagonisti più vicini alla gente comune, lontano dalla classicità hollywoodiana ed espressione di una nuova generazione. Con Cleo de 5 à 7 (1961) ha raggiunto la notorietà internazionale e nel 1985 il suo Sans toi ni loi ha vinto numerosi premi, tra cui il Leone d’Oro al Festival di Venezia. Altra tappa importante della sua carriera è stata Garage Demy (1991), ritratto/omaggio al regista e per 32 anni compagno di vita Jacques Demy.
La mostra, che forse avrebbe meritato un allestimento di migliore fruibilità, rende bene la poliedricità di un’artista attenta anche ai temi sociali e militante nel movimento femminista degli anni Settanta, quando fu tra le firmatarie del Manifesto delle 343 scritto da Simone de Beauvoir in solidarietà alle donne francesi che ancora non disponevano di una legge che legalizzasse l’aborto.
Sono tutte da gustare le meravigliose fotografie di Marie-Laure de Decker, esposte nelle sale del Mep (Maison Européenne de la Photographie). Prima grande retrospettiva della fotografa e fotoreporter scomparsa nel 2023, è un omaggio alla sua carriera sviluppatasi in quarant’anni di impegno volto a documentare soprattutto i conflitti e i cambiamenti politici del 20esimo secolo: dalla lotta anticolonialista nel Tchad a quella contro l’apartheid in Sudafrica, dalla guerra del Vietnam all’opposizione contro la dittatura in Cile, dalla riunificazione dei due Yemen alle conseguenze del conflitto arabo-israeliano in Giordania.
Non a caso l’esposizione ha come titolo L’image comme engagement (“La fotografia come impegno”): non solo ricerca estetica quindi, che comunque non è assolutamente trascurata, ma anche impegno sociale e civile. La stessa de Decker parla di “fotografia etica”, perché pur mostrando conflitti anche sanguinosi sceglie di non rappresentare gli aspetti più cruenti ma le persone che ne sono protagoniste, le situazioni “a lato”, la dignità umana. I ritratti di personaggi come Duchamp, Fellini, Saga, Deneuve, Mitterand, Giscard d’Estaing e Mandela testimoniano il suo sguardo partecipe al mondo della politica e della cultura.
Membro dell’agenzia Gamma, ha collaborato con numerosi giornali quali Paris Match, Le Monde, Libération, The New York Times, Stern, Corriere della Sera, Elle, Vogue.
Realizzata in collaborazione con il figlio, Pablo Saavedra de Decker, la retrospettiva testimonia un legame profondo tra immagine e memoria.
Copertina: Dettaglio di Autoritratto come allegoria della Pittura, Artemisia Gentileschi