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La rivoluzione della cura

Il lavoro di cura, da sempre ritenuto appannaggio delle donne e confinato nel privato, può diventare il fondamento di una nuova etica.

di Annamaria Vicini

Sempre più spesso capita di sentire critiche al termine “conciliazione” tra vita privata e lavoro, perché all’espressione si percepisce sottesa un’esclusività di pertinenza del genere femminile a cui spetterebbe un gioco di equilibrismo molto faticoso tra attività lavorativa fuori casa e attività di cura dentro le mura domestiche. A tal proposito da più parti si suggerisce di sostituire il termine “conciliazione” con “condivisione”, che renderebbe più chiaro l’auspicio che il lavoro di cura non sia appannaggio esclusivo della componente femminile all’interno della coppia.

Di fatto, ancora oggi, la realtà dice che di puro auspicio si tratta e a certificarlo è l’Istat che in un documento afferma che “L’indice di asimmetria – che misura quanta parte del tempo dedicato da entrambi i partner al lavoro domestico è svolto dalle donne – raggiunge il 62,6% (media 2020/21) se calcolato per le donne tra i 25 e i 44 anni in coppie in cui entrambi i partner sono occupati”.

Il problema “a chi spetta il lavoro di cura? necessariamente alle donne?” non è nuovo, tant’è vero che già negli anni Settanta il femminismo aveva proposto di retribuirlo in quanto “lavoro di riproduzione”.

Ma, perso questo treno, il tema ha finito per perdere di attualità, anche perché le donne hanno trovato una modalità silenziosa seppur dirompente di risolvere il problema a modo loro non facendo più figli e riducendo quindi di fatto almeno una parte non indifferente di quel “lavoro”.

Ora un saggio uscito per l’editore Castelvecchi (Cura e democrazia) a cura di Paola Melchiori, una delle fondatrici della Libera università delle donne di Milano e della Libera università internazionale femminista, e di Sandro Antoniazzi, ex-sindacalista della Cisl e poi presidente del Pio Albergo Trivulzio, getta una nuova luce proponendo che a partire proprio dalla cura si possa innescare una vera rivoluzione culturale che porti a dei cambiamenti dal basso, parziali ma proprio per questo possibili e realizzabili.

Analizzando le teorie di pensatrici femministe che hanno affrontato il problema, Melchiori propone una visione che superi la dicotomia tra dimensione privata (di pertinenza femminile) e pubblica (di pertinenza maschile) e sfoci in un’etica della cura basata sui valori dell’attenzione, della sensibilità ai bisogni e della responsabilità nei confronti degli altri.

Il principio su cui dovrebbe fondarsi questa nuova etica, e le politiche che a essa dovrebbero ispirarsi, è quello dell’inevitabilità della dipendenza umana che si rende evidente in alcune fasi della vita (infanzia, vecchiaia, malattia) e che viene solitamente “coperta” dalle donne e dalla loro funzione materna.

Accettare questa inevitabilità, anziché mascherarla, porterebbe a quella rivoluzione culturale a cui si accennava perché presuppone l’abbandono dell’idea “del soggetto autosufficiente e indipendente, tipica del pensiero liberale patriarcale, in favore di un soggetto relazionale sia dipendente che autonomo in momenti diversi della vita”.

Ma la riflessione sulla condizione di fragilità dell’essere umano, messa a nudo dalla recente pandemia, porta quasi inevitabilmente a focalizzare l’attenzione anche sulla fragilità del pianeta. E se è vero che storicamente “la critica del paradigma della crescita illimitata che distrugge la vita sulla terra ha tratto ispirazione anche dalla filosofia spontanea che ha guidato le lotte delle donne dei Paesi del Sud del mondo, dai loro movimenti di resistenza per riparare e proteggere le risorse naturali”, è altrettanto vero che oggi il problema nella sua vastità richiede un’assunzione di responsabilità da parte di tutti, uomini e donne, e non solo in alcuni Paesi ma a livello globale.

La proposta degli autori è quindi quella di “abbandonare definitivamente l’idea che con un’unica grande rivoluzione si possa cambiare il mondo”, che era il sogno dei ragazzi e delle ragazze del Sessantotto, mentre “sembra più opportuno pensare e attuare tante piccole rivoluzioni che possano progressivamente sfociare in un grande fiume di trasformazioni”. Ovvero “occorre costruire soluzioni nuove, non solo energetiche, ma in diversi campi, e dimostrare che sono possibili e condivisibili”.

Non sarà un compito facile, avvertono, “perché si opera tenendo conto che occorre risparmiare energia e risorse, prefigurando modelli di vita più economici, più frugali e meno dispersivi dei beni della terra”.

Sandro Antoniazzi analizza poi nello specifico il tema del lavoro, mettendo in luce come le attività che in qualche modo attengono alla cura – lavoro domestico delle donne, lavoro domestico remunerato, lavoro remunerato di cura di cura in enti o istituzioni di carattere sociale e sanitario, lavori molteplici nel mercato economico in cui è presente, almeno in parte, una dimensione emozionale/affettiva – siano svalutate in quanto non produttive e considerate di pertinenza femminile, mentre in realtà richiedono capacità come delicatezza, attenzione e comprensione e non semplicemente il compimento di mansioni intrinsecamente semplici da svolgere.

Attività che richiedono “prestare attenzione” nel suo significato più ampio e che si traducono in “sostegno, accompagnamento e soprattutto fiducia, fattore importante di confidenza e di stimolo”.

Ne sanno qualcosa gli operatori nelle Residenze sociali per anziani e negli ospedali, a cui viene imposto di eseguire mansioni come occuparsi dell’igiene personale degli ospiti, nutrirli, cambiare il pannolone, rispondere al loro bisogno di essere sollevati, spostati o accompagnati in bagno dovendo rispettare una tempistica precisa e assai ridotta, il che presuppone un processo di disumanizzazione sia di chi compie queste operazioni che di chi ne è oggetto.

Della difficile situazione degli operatori nelle Rsa, esposti a stress e burnout (esaurimento psicofisico) in un lavoro spesso ridotto a “catena di montaggio”, parla in modo molto coinvolgente Rosalba Gerli, psicologa e psicoterapeuta, che è stata responsabile del Servizio psicologico disagio lavorativo molestie e mobbing presso la Cisl di Milano metropoli.

Infine Gianni Tognoni, medico e per quarant’anni ricercatore presso l’Istituto Mario Negri oltre che fondatore del Tribunale permanente dei popoli, fa una disamina molto critica della gestione post-pandemica e del suo strumento “simbolo”, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, a suo parere “un documento mirato di fatto a definire un piano di recupero e di distribuzione di risorse strettamente economiche”.

Un volume denso e con tanti spunti di riflessione che avrebbero in alcuni casi meritato uno sviluppo maggiore, sicuramente stimolante per chi pensa che pandemia e crisi climatica debbano e possano essere un’opportunità per un cambiamento di paradigma e non solo per aggiustamenti tesi a mantenere uno status quo con tutta evidenza non più sostenibile.   

martedì 30 maggio 2023