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Certificazione e parità di genere, un difficile percorso

Meno di 400 imprese l’hanno ottenuta, più della metà sono in Lombardia. Criticità soprattutto per le medio-piccole.

di Annamaria Vicini

Sono 390 le aziende che hanno ottenuto finora la certificazione per la parità di genere, inserita nel Piano nazionale di ripresa e resilienza e disciplinata dalla legge 162 del 2021 e dalla successiva prassi di riferimento UNI PdR 125 del 2022.

Tra queste figurano Ferrari, Lamborghini, Telecom, Amazon, Fideuram e dai nomi già si capisce come sia più facile raggiungere l’obiettivo per le aziende di grandi dimensioni piuttosto che per le medio-piccole.

Per tenere accesi i riflettori su un tema importante per incentivare il lavoro femminile (purché non si risolva nell’ennesimo “bollino rosa”, sottolinea la Consigliera di Parità di Regione Lombardia, Anna Maria Gandolfi) sono stati organizzati di recente due incontri, uno a cura di Regione Lombardia e un altro di Città Metropolitana di Milano.

La prima, che vanta 264 imprese certificate, ha lanciato un bando da dieci milioni di euro per sostenere le micro, piccole e medie imprese nel processo di certificazione.

Ma il “peso” della Lombardia sul totale nazionale lascia intuire una situazione molto diversa tra regione e regione.

L’Anpal Servizi ha attualmente in atto due sperimentazioni, con la Regione Campania e la Regione Calabria, che si sono dotate di una normativa specifica: la Campania ha stabilito che i Centri per l’Impiego debbano avere entro il 2025 uno Spazio Donna per facilitare l’accesso delle utenti e punta sul riconoscimento del titolo di studio per le donne straniere, mentre la Calabria ha adottato un programma specifico per favorire l’inserimento lavorativo delle donne in agricoltura.

Perché questo tema della certificazione ha due facce: una è quella delle donne che non trovano lavoro o trovano prevalentemente occupazioni precarie e di scarsa qualità, l’altra è quella delle aziende che dalla certificazione possono trarre vantaggi non solo reputazionali ma anche fiscali e di premialità per l’accesso ai bandi pubblici.

Ma quale è il procedimento per ottenerla?

Sei sono le aree di valutazione in base a cui si stabilisce un punteggio (almeno 60/100) che certifichi il raggiungimento dei parametri previsti: cultura e strategia, governance, processi Hr, opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda, equità remunerativa per genere, tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro. Ogni area è contraddistinta da un peso percentuale che contribuisce alla misurazione del livello attuale dell’organizzazione e rispetto al quale è valutato il miglioramento nel tempo. Per ciascuna area sono stati identificati degli specifici Kpi, di natura sia quantitativa che qualitativa, con i quali misurare il grado di maturità dell’organizzazione attraverso un monitoraggio annuale e una verifica biennale, per dare evidenza del miglioramento ottenuto grazie alla varietà degli interventi messi in atto o delle correzioni attivate.

Una procedura non semplice e che andrebbe semplificata come è stato sottolineato sia da Valeria Sborlino di Afol che da Michele Salomone dell’Inps nel corso dell’incontro di Città Metropolitana.

Per quanto riguarda le donne si è verificata una loro difficoltà ad accedere ai Centri per l'Impiego, ragion per cui si stanno cercando metodi che ne facilitino l’approccio, per esempio incontrandole nei Centri commerciali.

Riguardo invece alle imprese si è notato che mentre su alcune aree, come la conciliazione vita-lavoro c’è oggi una maggiore sensibilità, su altre aree come la parità salariale si verificano invece più resistenze (vedi a questo proposito il nostro post sull’indagine delle Acli).

“La certificazione rende le imprese più competitive, ma nonostante i vantaggi si fatica a convincerle”, sostiene Diana De Marchi, presidente della Commissione Pari Opportunità del Comune di Milano, che sottolinea come l’Italia sia al 14esimo posto in Europa per la parità di genere.

De Marchi mette in guardia anche sull’utilizzo del termine “conciliazione”, che troppo spesso viene visto come un gioco di puro equilibrismo tra vita lavorativa e vita famigliare a esclusivo carico della donna, preferendo invece il termine “condivisione”.

Uno sguardo più ottimistico viene da Guido Cecchini, Hr & Legal Manager di Fiabilis Consulting Group, società di consulenza in grado di accompagnare le aziende nell’implementazione del sistema di gestione richiesto dalla PdR 125: “Il numero delle aziende certificate ad oggi cresce con regolarità, senza tuttavia aver avuto picchi esponenziali. Questo, a mio avviso, è un indice positivo: spero, infatti, possa essere sintomatico del fatto che non sarà l’ennesimo Hr trendtopic. La volontarietà di questa norma favorirà una crescita sana e sostenibile della certificazione, senza strattoni, senza picchi… Noi invitiamo le imprese ad avvicinarsi il prima possibile e molte volte riusciamo a evidenziare un gap minore di quello che loro credono perché si tratta di una prassi inclusiva e realistica che non punta alla perfezione, bensì al miglioramento. È vero, bisogna far presto per colmare il divario di genere, ma la certificazione è un mezzo e non un fine".

Secondo Cecchini, "serve che i valori che stanno alla base della lotta al divario di genere vengano gradualmente interiorizzati e fatti propri dalle aziende, senza imposizioni e multe più o meno salate, per evitare che questo argomento possa diventare valutabile “solo” in termini di risk management. Serve altro per un definitivo e duraturo cambio di mentalità e di passo: serve consapevolezza, servono alleati, servono fieri ambasciatori. La certificazione è un percorso e l’Italia vuole premiare le organizzazioni che prendono un impegno con senso di responsabilità e lo intraprendono pur sapendo che alcune politiche ed azioni richiederanno anni prima di raggiungere i livelli ottimali di applicazione”.

lunedì 15 maggio 2023