La maternità non è "roba da femmine"
Serve un’assunzione di responsabilità collettiva o il sistema di welfare pubblico andrà in crisi. Le imprese sono pronte a fare la propria parte?
di Annamaria Vicini
Nel mese in cui si celebra la Festa della Mamma alcune dichiarazioni improvvide di una imprenditrice, che ama definirsi “imprenditore” nonostante una chiara appartenenza al genere femminile, ci hanno fatto capire che c’è ben poco da festeggiare.
Elisabetta Franchi, titolare dell’omonima casa di moda, in un intervento pronunciato nel corso di un’iniziativa organizzata da Il Foglio e dal network Pwc, ha affermato di assumere nella sua azienda solo donne con più di 40 anni perché già sposate, madri e forse anche già separate e quindi più libere da impegni familiari e maggiormente disponibili a lavorare “h24”.
A parte il fatto che l’età in cui le donne scelgono di avere figli si è casomai spostata in avanti e che l’essere separate può comportare un aggravio di impegno di cura nei confronti dei figli più che una sua riduzione, quello che francamente stupisce non sono tanto le dichiarazioni della signora quanto piuttosto l’assenza di una presa di posizione ufficiale da parte delle categorie datoriali. Il che farebbe pensare che non si tratti di una “sparata” individuale e magari sfuggita a una persona in un momento di difficoltà, quanto piuttosto di una situazione largamente diffusa e condivisa.
Del resto fino al 2016 era generalmente accettata la pratica delle cosiddette “dimissioni in bianco”, imposte in molti casi alle giovani lavoratrici che avrebbero così dovuto lasciare l’azienda, apparentemente di propria spontanea volontà, una volta rimaste incinte. A contrasto dell’odiosa pratica e a tutela delle categorie più deboli venne introdotto in quell’anno con il Jobs Act l’obbligo delle dimissioni per via telematica.
Diciamoci la verità. Nonostante la pericolosa china su cui è avviata ormai da tempo la natalità in Italia, mettere al mondo figli è ancora considerato “roba da femmine”, quasi un incidente di percorso in cui incappano le poverette che non riescono a rinunciare ad avere figli non rendendosi conto di precludersi in questo modo una luminosa carriera.
Invano il demografo Alessandro Rosina puntualmente ci ricorda che, continuando con l’attuale trend della media di 1,5 figli per donna, nel 2050 la popolazione si ridurrà di 8 milioni di persone in età attiva con gravi ripercussioni sul sistema di welfare pubblico. E non solo. Perché una società priva del contributo di idee e di energie prodotte dai giovani è una società destinata al declino.
Mettere al mondo figli non può ovviamente essere un obbligo, ma sarebbe necessaria un’assunzione di responsabilità collettiva per creare le condizioni che possano permettere a chi lo desidera di diventare genitore e genitrice, con beneficio non solo individuale ma per l’intera popolazione.
Qualcosa si sta facendo: gli incentivi per l’apertura di asili-nido con i fondi del Pnrr, l’assegno unico universale stabilito nel Family act, l’innalzamento a 10 giorni e la messa a regime del congedo di paternità obbligatorio retribuito al 100% con la legge di Bilancio 2022 (prevista, in base al Family act, la futura estensione del congedo a tre mesi).
Riguardo a quest’ultimo provvedimento, importante perché punta a riequilibrare la condivisione della genitorialità e quindi per le donne la conciliazione famiglia-lavoro, l’Italia si confronta all’interno dell’Unione europea con realtà non proprio all’avanguardia come quelle di Francia, Belgio, Paesi Bassi, mentre spicca in positivo un Paese a noi molto vicino, la Spagna, che nel 2021 ha esteso il congedo a 112 giorni per entrambi i genitori con retribuzione al 100%.
Molto si può fare, ma serve una nuova consapevolezza che porti a vedere la natalità come un obiettivo vitale per l’Italia e di cui tutti, non solo le donne, sono chiamati a farsi carico. Ecco perché una presa di posizione pubblica riguardo alle dichiarazioni di Elisabetta Franchi da parte delle categorie imprenditoriali sarebbe un segnale importante se non addirittura decisivo.
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