Lavoratrici della sanità: un esercito con pochi generali
Le donne che lavorano nelle corsie hanno dimostrato di essere un’importante risorsa. Ma ai vertici sono ancora una minoranza.
di Annamaria Vicini
Hanno risposto senza esitazione quando è stato chiesto loro di dedicarsi 24 ore su 24 ai pazienti, hanno indossato i pannoloni perché anche il tempo per andare in bagno era un lusso, hanno retto uno stress che molti non avrebbero sopportato, hanno saputo spiegare ai loro figli che erano assenti da casa perché amavano il proprio lavoro e si trattava di salvare vite umane, hanno concordato un nuovo assetto familiare con i mariti, hanno coinvolto i nonni affrontando incomprensioni e disagi psicologici.
Senza dimenticare – perché sì, presi da altre emergenze ci stiamo già dimenticando il terribile inverno del 2020 – che una di loro, una giovane anestesista in forza all’ospedale di Codogno, è riuscita a identificare per prima il virus che avrebbe sconvolto le nostre vite.
E lo ha fatto con competenza e coraggio perché, non solo ha capito che quella polmonite resistente alle cure era qualcosa di ignoto che andava indagato, ma insieme ai colleghi si è assunta anche la responsabilità di andare contro le regole impedendo che il virus continuasse a circolare indisturbato. Le donne che operano nelle professioni sanitarie e che durante la pandemia hanno dato un contributo determinante affinché il sistema non collassasse, sono un esercito.
I generali, però, sono quasi tutti uomini.
Basta scorrere i dati di Openpolis i quali dicono che il 54% degli iscritti all’Ordine dei Medici sono di genere femminile, ma che a questo genere appartiene solo il 20,3% di chi ricopre il ruolo di direttore generale. Va leggermente meglio per gli incarichi di direttore amministrativo (37,5%) e direttore sanitario (34,7%), ma considerando complessivamente la presenza di donne ai vertici delle aziende sanitarie e ospedaliere la percentuale si attesta al 30,66%, poco meno di un terzo.
Questo se si considera il dato nazionale, mentre analizzando i dati regionali (sappiamo che in base al decreto legge 502/1992 (art. 2 comma 1), in Italia “spettano alle regioni e alle provincie autonome, nel rispetto dei principi stabiliti dalle leggi nazionali, le funzioni legislative ed amministrative in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera”), troviamo delle eccellenze come il Lazio, unica regione in cui si registra una maggioranza di donne in posizione di vertice (57,14%), o all’opposto regioni (Abruzzo, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta) dove le donne ai vertici sono del tutto assenti.
Resta il fatto che il dato nel suo complesso rimarca anche in questo settore una disparità tra i generi elevata e del tutto ingiustificata.
A conferma del fatto che durante la pandemia il contributo delle donne è stato determinante c’è un interessante filmato di cui consigliamo la visione. Si tratta del documentario Senza sosta, nato da un’idea della giornalista Sara Avesani, in cui, protette dall’anonimato, professioniste occupate in strutture sanitarie raccontano come si siano trovate all’improvviso in prima linea per la lotta contro un nemico sconosciuto e letale.
“Ho tre figli – racconta una di loro – ma fare il medico era la mia vocazione fin da bambina”. E così, senza esitazione, si è trasferita a casa del fratello con cui era più agevole mantenere vite separate ed evitare il contagio. Tutte hanno dovuto riorganizzare la propria vita familiare: chi lasciando i figli ai nonni, chi addirittura dormendo in garage. Dormendo si fa per dire, perché le notti in bianco sono ben presto diventate una routine a causa dello stress a cui erano sottoposte in corsia. “Non c’era tempo per pensare, ero come un robot – racconta un’altra – Mi preoccupavo talmente dei pazienti che mi dimenticavo di me stessa”. I figli sono stati la loro forza, nonostante qualcuno di loro abbia accusato problemi a causa dell’assenza materna. Così, il filo che teneva insieme le due realtà, lavoro e famiglia, e che ha rischiato a volte di spezzarsi, è rimasto invece saldamente unito.
Ascoltando queste storie – ma chissà quante altre se ne potrebbero raccontare – viene da chiedersi: perché questa ricchezza, questa capacità di riannodare mondi spesso considerati inconciliabili come la professione e la vita privata, non vengono valorizzate?
Quanto ci guadagnerebbe la nostra sanità se ai vertici ci fosse un maggior equilibrio di genere?
La pandemia può davvero rivelarsi un’opportunità se chi è al governo, a livello centrale ma anche attualmente soprattutto regionale, saprà valorizzare queste risorse come hanno ampiamente dimostrato di meritare.