Decidiamo oggi per un domani sostenibile

Della Pergola: le incognite sul percorso per fare di Israele un Paese “normale”

Il maggiore esperto di demografia ebraica analizza il prevedibile aumento della popolazione israelita e di quella araba. La difficile questione del rapporto tra ebrei laici e ultrareligiosi e la prospettiva dei due (o tre?) Stati.

conversazione con Donato Speroni

Un mese in viaggio, come premio per la promozione all’esame di maturità: Fu così che, nell’ottobre del 1960, Sergio Della Pergola e io visitammo per la prima volta Israele. Giravamo in autostop, dormivamo negli ostelli, lavorammo in kibbutz imparando a tagliare le unghie ai polli perché non si ferissero nelle stie e a innestare le piantine di arancia. Riportammo l’impressione di un Paese molto giovane, in grande crescita, ricco di ideali e di speranze per il futuro.

Negli anni successivi, Sergio, che è ebreo, fece l’alyiah, cioè si trasferì in Israele con sua moglie Miriam, figlia del rabbino Elio Toaff. Oggi Sergio e Miriam hanno quattro figli e dodici nipoti. Io invece sono rimasto in Italia, ho avuto due figli, una complicata famiglia allargata, ma per ora solo una nipotina. Anche la differenza familiare aiuta a capire questa storia che parte dalla demografia. Sergio infatti ha insegnato alla università di Gerusalemme dove ora è professore emerito ed è tuttora considerato il maggiore esperto di demografia ebraica: una materia complicata, se si considerano non solo le dinamiche a ovest del Giordano, ma anche i rapporti con la diaspora.

In questi sessant’anni Israele è molto cambiato. È passato attraverso due guerre, quella dei sei giorni del 1967 e quella del kippur del 1973, oltre alle due campagne in Libano nell’1982 e nel 2006, ai 39 missili piombati sul centro del Paese dall’Iraq di Sadam Hussein all’inizio del 1991, e alle ripetute dure rappresaglie contro la pioggia di razzi provenienti da Gaza. Ha dovuto fronteggiare due intifada, nel 19887 e nel 2000, più altre rivolte arabe di minore portata. Ha ricevuto una massiccia immigrazione, dapprima dal Nord Africa, poi dalla ex Unione Sovietica, ma in quanche misura anche dai Paesi occidentali, ha allargato il suo controllo a Gerusalemme Est, alla Cisgiordania (West Bank) e a Gaza, ha spesso messo in atto politiche criticate dal consesso internazionale, come l’espansione delle colonie ebraiche nei territori arabi della Cisgiordania, in un contesto di continue tensioni tra i due popoli e di contrasti internazionali che oggi riguardano soprattutto la minaccia iraniana di distruggere lo Stato ebraico. Nel frattempo l’economia si è rafforzata. Il Paese che sessant’anni fa esportava soprattutto agrumi è diventato un grande produttore di tecnologie avanzate.

Della Pergola ha avuto una influenza sulle politiche nazionali, facendo presente, sulla base dei numeri, che il dilemma israeliano consiste nella impossibilità di avere al tempo stesso un Paese grande (cioè esteso ai territori occupati nel 1967), democratico (cioè nel quale tutti hanno uguali diritti) e a maggioranza ebraica. Sulla base dello stesso ragionamento, il premier Ariel Sharon abbandonò le colonie ebraiche a Gaza nel 2005, ma poi con la lunga premiership di Benjamin Netanyahu dal 2009 al 2021 il meccanismo della distensione si è inceppato. Ora Israele ha un nuovo governo, che riunisce partiti molto diversi tra loro, da Yamina del premier Naftali Bennett, che si colloca all’estrema destra, fino (per la prima volta) a uno dei partiti che rappresentano la minoranza araba nello Stato ebraico. È la premessa per una politica diversa? Come giocheranno i fattori demografici nel futuro di Israele? Futuranetwork ne ha discusso con Della Pergola.

Partiamo dai dati demografici. Puoi darci una proiezione aggiornata, diciamo a metà secolo, dell’evoluzione della popolazione ebraica e di quella araba?

Attualmente abbiamo 6,9 milioni di ebrei più un gruppo di persone che non sono ebree, sono di padre, ma non di madre ebrea (nell’ebraismo conta la trasmissione matriarcale), oppure sono coniugi non ebrei di persone israelite. In totale queste persone sono circa 450mila e possiamo sommarle al mondo ebraico per vincoli familiari. Quindi possiamo parlare di circa 7,3 milioni di ebrei in questa concezione allargata. Poi ci sono gli arabi che sono 1,9 milioni in Israele (e quindi con diritto di voto alle nostre elezioni) più 1,9 milioni a Gaza e 2,6 milioni in Cisgiordania. Quindi in totale gli arabi nell’insieme di quella che loro considerano Palestina sono circa 6,4 milioni. Oggi abbiamo proiezioni che vanno fino al 2065 e proprio su questo sto scrivendo un articolo abbastanza impressionante.

Perché impressionante?

Succede che la popolazione di Israele aumenta molto rapidamente e ciò crea anche discussioni con gli ecologisti e con i Verdi che invitano a stoppare la crescita demografica. Questo è un discorso velleitario perché il motore trainante della crescita non è più l’aliyah, ma l’accrescimento naturale. Dato che la situazione sanitaria è buona, la gente vive a lungo. ma il fattore dominante è la natalità che è eccezionalmente elevata.

Questo avviene innanzitutto nella fascia di popolazione più religiosa, ma non solo. Ho partecipato recentemente a un simposio  dell’Università di Siena su Covid e fattori demografici: tra l’altro si parlava della denatalità in Italia e in Europa mentre il mio paper riguardava la situazione vista da un altro pianeta: Israele è il Paese con la più alta natalità del mondo sviluppato. Anche Tel Aviv, che è la città più edonistica e secolarizzata, ha un tasso di fecondità di 2,1, nettamente superiore a quella di qualunque Paese europeo, compresi Francia e Svezia, con tutte le loro previdenze pronataliste. Nei gruppi ultrareligiosi, il tasso di fecondità può arrivare a sette, mentre  la media totale è tre. Non esiste alcun altro Paese occidentale che arrivi a due. Persino molti Paesi arabi sono al di sotto d’Israele. Sia la popolazione ebraica che quella islamica in Israele sono a quota tre. Questa situazione potrebbe portare a cifre quasi incredibili. in teoria se il tasso di fecondità rimanesse uguale, nel 2065 si arriverebbe a 30 milioni di persone sul territorio compreso fra il Mare Mediterraneo e il fiume Giordano, mentre nello stesso tempo l’Italia diminuirebbe la sua popolazione di 15 milioni di persone.

Quindi Israele avrebbe quasi la stessa popolazione dell’Italia su un  territorio paragonabile alla Lombardia...

È chiaro che questo è un paradosso. Però possiamo aspettarci un raddoppio della popolazione araba e di quella ebraica per l’accrescimento naturale. All’interno però ci sono gruppi molto differenziati. Parliamo per ora d’Israele senza parlare dei territori, cioè di Cisgiordania e Gaza. Ci sono gli arabi, ci sono i haredim (timorati di Dio), cioè la popolazione ebraica molto religiosa, e poi ci sono tutti gli altri ebrei con una certa eterogeneità. Questo terzo gruppo è chiaramente maggioritario sia oggi che nell’immediato futuro, ma si si può arrivare attorno a metà secolo a una situazione in cui la popolazione ebraica più laica perde la maggioranza assoluta, che va invece alla combinazione degli altri due gruppi, gli arabi e i haredim. Ovviamente questi gruppi non hanno nulla in comune se non alcuni comportamenti...

Per esempio, che non fanno il servizio militare.

Esatto, ma anche quello di avere un basso tasso di partecipazione al lavoro. Per gli ebrei molto religiosi, perché moltissimi uomini si dedicano allo studio della Torah e solo le donne lavorano.  Accade il contrario tra gli arabi dove le donne sono ancora in ritardo rispetto alle linee di sviluppo del lavoro femminile, che è he invece molto alto tra le donne ebree in Israele. Tutto questo si svolge su un terreno molto piccolo, in parte desertico, con una forte differenza di popolazione tra Nord e Sud. Questi tre gruppi avanzano richieste diverse che in uno Stato democratico non si possono ignorare, per esempio sul piano dell’istruzione. In Israele non c’è un solo sistema di pubblica istruzione, ma ce ne sono quattro.

Perché quattro? Finora hai parlato di tre gruppi.

Perché oltre ai laici, ai haredim e agli arabi ci sono i religiosi “moderni” che nella tipologia precedente ho assimilato ai laici, ma hanno un sistema di scuole separato, che sono scuole laiche in tutto per tutto ma con l’aggiunta di ore che in Italia si chiamerebbero ore di religione, anche se chiaramente l’ebraismo non è solo religione ma un fatto culturale; quindi sono ore anche di lettura testi e di conoscenza più approfondita dell’ebraismo tradizionale. Io stesso, che mi considero un ebreo moderatamente tradizionalista, ho mandato i miei figli a questo tipo di scuola.

Insomma sembra di capire che in futuro il mosaico si ricomporrà in modo diverso...

Esatto. Possiamo prevedere un accrescimento ridotto degli ebrei laici e anche degli arabi che tendono a convergere sugli stessi comportamenti, ma un enorme aumento dei haredim, cioè di questa componente segregata, di un settore impoverito, che vive molto di sussidi dalla cassa centrale, la quale a un certo punto non può più farcela. Per cui o si va verso un tragico impoverimento, un abbassamento del tenore di vita della società oppure avviene una conversione dei modi di vita del settore dei haredim con un progressivo inserimento nella modernità, con l’ingresso dei giovani negli studi universitari e nel servizio militare.

Insomma, rinnovarsi o impoverirsi... Tu che previsione fai?

Il cambiamento in parte sta già avvenendo perché gli ortodossi subiscono una forte pressione di chi dice: ‘non vi possiamo sussidiare perché in futuro sarete talmente tanti che non ci saranno più fondi per farlo’; ma anche all’interno del movimento che sembra molto omogeneo, tutti vestiti di nero, ma in realtà contiene frazioni diverse fortemente in conflitto le une con le altre.  C’è un enorme complicazione in questo mondo molto religioso: una parte dei giovani non fa nemmeno l’esame di maturità perché studia soltanto l’ebraismo dopodiché sono costretti a fare rapidamente la preparazione alla maturità se vogliono andare all’università E siccome l’essere molto religioso non vuol dire... essere scemo, se un ragazzo che ha già una forte propensione allo studio si mette in testa di studiare matematica o inglese e non solo la Torah, chiaramente  impara e poi potrà andare all’università dove potrà studiare quello che vuole. Questo già lo si vede e l’esito di questo processo determinerà il futuro.

Il rapporto con la diaspora si è esaurito? L’aliyah è finita?

Non è esatto. È stata chiaramente ridimensionata rispetto alle grandi fasi del passato. Arrivano ogni anno 20-30mila persone, che non è poco, anche se meno rispetto ai 50-60mila o addirittura ai 200mila di certi anni passati. Una buona metà arriva ancora dell’ex Unione Sovietica, un fenomeno interessante che va analizzato. Mi sono posto la domanda: in che misura l’immigrazione è un fatto ideologico? In realtà l’ideologia è un fattore necessario ma non sufficiente. Ho cercato di fare un esercizio che mi ha generato anche qualche impopolarità negli ambienti ufficiali: ho preso preso i dati sull’immigrazione da 16 Paesi tra cui Italia e li ho messi in correlazione con i dati sulla disoccupazione in quei Paesi e in Israele. Alla fine con mio stupore ho trovato quella che statisticamente si chiama una varianza spiegata del 70%, cioè schiacciante.

Quindi la spinta a emigrare dipende in larga misura dalla situazione economica nei Paesi di partenza e in quello di arrivo...

Ovviamente non ho i dati micro che riguardano le situazioni individuali, ma solo il quadro macro. Comunque bisogna capire che l’immigrazione è certamente un fatto culturale e ideologico, ma anche una soluzione a situazioni personali, con la differenza che Israele offre opportunità in più, perché la Legge sul ritorno consente agli ebrei la cittadinanza immediata. Dovendo scegliere, si sceglie Israele perché offre buone condizioni di vita: l’Indice di sviluppo umano ci colloca al 19º posto su 190 Stati quindi facciamo parte del decile alto; non è un posto disprezzabile, meglio dell’Italia che sta al 29º posto. Quindi un Paese abbastanza attraente, anche se ha problemi che altri Paesi non hanno come la sicurezza militare.

Ecco, parliamo di questo. Talvolta si ha la sensazione che stiate seduti su un vulcano. Non c’è anche un deflusso di giovani che preferiscono andare a vivere da altre parti?

Anche il deflusso è assolutamente spiegato dai fattori economici, da opportunità offerte da altre parti. Chi emigra oggi non lo fa certamente con la valigia di cartone.  

Quindi non è vero che molti giovani lasciano Israele per l’incertezza del futuro?

Facciamo attenzione. C’è una parte del discorso che è strettamente ideologica, legata alle critiche al governo d’Israele soprattutto quando c’era Netanyahu. Ci sono amarezza e disillusione, su questo non c’è il minimo dubbio. Però quando devi tradurre questi sentimenti in un fatto pratico, andare a cercare fortuna altrove, non è semplice trovare l’altrove. E quindi io dico che il fattore economico nell’emigrazione  è totalmente dominante rispetto a quello ideologico, anche se non nego che per due laureati in economia o in fisica disoccupati di cui uno nazionalista e l’altro laico radicale è più probabile che vada in America il laico radicale.

Qual è la dimensione a questo deflusso?

A differenza dei discorsi che io sento incessantemente, è in netta diminuzione perché il livello medio della vita in Israele, almeno fino all’inizio della pandemia (poi vedremo), era tra i più elevati, con un tasso di disoccupazione tra i più bassi del mondo, competitivo con la Germania che è nettamente la migliore in Europa. Quindi siamo arrivati al minimo storico dell’emigrazione. il cui saldo al netto dei ritorni può essere di 10-15mila persone all’anno. Quindi 15mila persone su 9 milioni compresi gli arabi d’Israele, mentre nel 1948 avevamo 15mila emigranti su una popolazione di 600mila.

Parliamo dei territori. Quali previsioni demografiche ci sono per Cisgiordania e Gaza?

I dati sulla popolazione ebraica che ti ho fornito prima includono quelle persone, circa 460mila, che vivono nelle colonie, anche se non amo usare questa parola. Ma parliamo dei palestinesi della Cisgiordania, che sono un po’ più di 2 milioni e mezzo. Quindi la popolazione ebraica nei territori rappresenta oggi il 15% circa della popolazione dei territori, una realtà non banale. In gran parte si tratta di insediamenti urbani, più numerose piccole comunita rurali.

Quindi riassumendo, se consideriamo lo Stato di Israele senza i territori, ma inclusa Gerusalemme est che fa parte di Israele anche se non è riconosciuta internazionalmente, abbiamo circa l’80% di persone che sono ebree o comunque affiliate ad ebrei per legami familiari. 79% per essere precisi e come ho detto questa percentuale non sembra destinata a cambiare nei prossimi anni. Se invece aggiungiamo i palestinesi della Cisgiordania, la percentuale di ebrei compresi gli affiliati supera di poco il 60%. Se aggiungiamo anche Gaza, scendiamo al 50% e ogni anno la percentuale di ebrei sul totale subisce una lieve diminuzione.

Non mi sembra una soluzione sostenibile, né ora né tanto meno in futuro.

Il punto fondamentale è che siamo metà e metà considerando anche Gaza; ma anche considerando solo il [la?] West Bank la situazione è insostenibile.  Continuo a dire che non c’è nessun Paese al mondo nel quale gruppi etnici in conflitto convivono con un rapporto di 60 a 40. Abbiamo vari esempi negativi, dal Libano alla Jugoslavia, a Cipro. E mi dicono che in Guyana, divisa quasi a metà tra neri di origine africana e indiani, c’è una guerra civile permanente e lo Stato è in sfacelo totale. Questo è quello che avviene se non c’è una maggioranza chiara, questi sono i fatti.

Quindi riassumendo, l’equilibrio demografico tra arabi ed ebrei non dovrebbe cambiare nei prossimi decenni, anche se cambia la composizione interna della comunità ebraica per la crescita dei haredim. Se consideriamo l’insieme di Israele e dei territori occupati, tu stesso dici che il rapporto complessivo tra arabi ed ebrei è insostenibile, in un solo Stato, a meno ovviamente di imporre una sorta di apartheid...

... che è moralmente ingiusto, non riflette un consenso interno, alienerebbe tutte le simpatie ad Israele e non sarebbe sostenibile neanche sul piano geopolitico.

E allora come ti immagini il futuro? La soluzione dei due Stati sembra sempre più lontana...

Consideriamo le diverse soluzioni, anche se non tutti in Israele la pensano come me, però posso dire che c’è una leggera maggioranza che condivide queste idee. Israele deve separarsi dalla massa dei palestinesi ed essere lo Stato degli ebrei così come l’Italia è degli italiani e la Cina dei cinesi. Convivere democraticamente con una situazione dell’80% di ebrei e del 20% di arabi, come avviene adesso all’interno dei confini tradizionali di Israele, è una cosa possibile, lo dimostra anche la partecipazione al governo di un partito arabo. E in Cisgiordania è immaginabile uno Stato palestinese con una minoranza del 15 – 20% di ebrei. Di conseguenza due Stati per due popoli. Io sono a favore dello scambio di territori in modo da rendere le due entità più omogenee, ciascuna delle due entità con una minoranza dell’altra, con adattamenti di confine.

Ma i territori palestinesi sono una sorta di spezzatino e non si può neppure andare da Gaza alla Cisgiordania...

Gaza e Cisgiordania sono entità molto diverse, non è detto che debbano rimanere insieme. Ricordiamo che dopo la spartizione dell’India, lo Stato musulmano era diviso in Pakistan occidentale e Pakistan orientale, ma le differenze erano tali che alla fine il Pakistan orientale si staccò e divenne Bangladesh. Pensare a una Palestina unica degli arabi è un’idea artificiosa, che non corrisponde neppure alla storia, perché l’impero ottomano non riconosceva la Palestina come entità e gli arabi del Nord si consideravano parte della Grande Siria, mentre nel Sud c’erano soprattutto beduini seminomadi.

Insomma tu stai ipotizzando due diversi Stati palestinesi: Gaza e l’attuale Cisgiordania, pur con adattamenti territoriali rispetto a Israele. È una ipotesi della quale non avevo mai sentito parlare e non mi sembra che trovi molti consensi...

Ne ho parlato del mio libro “Israele e Palestina: la forza dei numeri. Il conflitto mediorientale tra demografia e politica”. È una tesi impopolare perché va contro gli estremisti da una parte e dall’altra. Ma meriterebbe di essere almeno discussa.

In questa situazione così complicata, come ti immagini il futuro di Israele?

Arrivati a questo punto della storia, tutto quello che tu e io pensavamo quando eravamo giovani è stato sconvolto. C’era un mondo ordinato e promettente, c’era è vero anche la guerra fredda. Ma negli ultimi 10 à 15 anni, forse come postumo e reazione dopo la fine dell’Unione sovietica, siamo arrivati al totale sfilacciamento e alla crisi degli Stati. È un fenomeno generale: basta vedere come sono cambiati gli Stati Uniti. Il mito dello Stato come contenitore forte che organizza la vita del cittadino promuovendo però il diaogo interno è in gravissima crisi. Quindi la domanda generale è: che senso hanno gli Stati nazionali, che cosa succederà alla politica. Israele ha in più il problema della componente etnica e la minaccia dell’Iran che vuole avere la bomba atomica per cancellare lo stato ebraico.

Non sono problemini...

Sì, ma vanno visti in questo contesto in forte evoluzione in tutto il globo. Non si può isolare Israele dal resto del mondo, siamo parte di tante questioni più complesse che vanno aldilà della questione Israele Palestina. Del resto, il problema geopolitico del rapporto con l’Iran non lo può risolvere Israele da sola.

In sostanza, tu tendi a presentare Israele come un Paese “normale”, anche se deve risolvere spinose questioni geopolitiche. Visto dall’esterno, però ci sono almeno due aspetti che la fanno apparire diversa dalle altre nazioni. Il primo è la violenza, le continue minacce dei palestinesi più estremisti a cui Israele risponde con una repressione che spesso appare eccessiva anche a molti ebrei, con angherie verso gli arabi che vengono denunciate da molte organizzazioni pacifiste anche ebraiche e che dividono anche le comunità della diaspora. Difficile immaginare un percorso di pace se continua questo clima di oppressione.

Questo oggi è il problema principale e io stesso deploro gli eccessi di certi movimenti politici estremisti in Israele, e a volte anche gli atti sconsiderati di alcuni soldati. Però molte proteste non tengono conto dei continui preparativi ad azioni di terrorismo che continuano da parte di Hamas (anche in Cisgiordania) e di altri movimenti fiancheggiatori. Ma nei territori occupati esiste anche una vita civile normale, come dimostrato dalle numerose università che operano normalmente, nessuna delle quali esisteva prima del 1967.
Speriamo che il nuovo governo sappia temperare quelli che tu chiami eccessi e gesti sconsiderati. La seconda questione è il carattere religioso dello Stato, che lo rende diverso dagli altri, un carattere accentuato dalla legge del 2018 che ha definito Israele “la casa nazionale del popolo ebraico” ignorando la presenza della componente araba.

La legge sullo Stato-nazione è stata un errore gravissimo e oggi molti parlamentari che la hanno votata lo ammettono. Le caratteristiche di Israele erano già ben definite dalla Dichiarazione d’indipendenza. Diceva che Israele stende la mano anche alle popolazioni non ebraiche e anche agli Stati vicini. Purtroppo la Dichiarazione non aveva il valore di un documento costituzionale, e così si è sentito il bisogno di questa legge sullo Stato nazione, che ha accentuato il carattere ebraico, riconoscendo l’ebraico come sola lingua ufficiale, salvo poi dedicare due articoli all’arabo come lingua tutelata. Insomma, un inutile vespaio che in sostanza non ha cambiato nulla.

Però Israele è uno Stato diverso dagli altri, per il suo carattere religioso. Marco Pannella avrebbe voluto proporne l’annessione all’Unione europea, ma io non vedo come si poteva fare entrare in Europa uno Stato confessionale.

Pannella è stato un uomo di visione. Ma Israele non è uno Stato confessionale. Esiste un rabbinato che è molto forte, che viene anche accusato di corruzione, che si vuole riformare, ma che è comunque distinto dallo Stato. Potremmo paragonare la situazione a quella del rapporto tra Stato e Chiesa in Italia di qualche decennio fa, con qualche ipocrisia in più. Per esempio, da noi non esiste il matrimonio civile. Si riconoscono i matrimoni ebraici, islamici, cristiani. M che cosa succede se una coppia, che è atea o magari professa religioni diverse, vuole sposarsi, senza che lui o lei vogliano convertirsi? Semplice. Si prende un aereo, in 45 minuti si va a Cipro, ci si sposa civilmente e il giorno dopo la Stato di Israele registra il matrimonio.

Però io non ebreo non potrei trasferirmi ed avere la cittadinanza...

Non è così. Puoi avere un permesso di residenza e dopo un certo numero di anni ottenere anche la cittadinanza. È una cosa un po’ complicata, ma si può fare. Del resto non è semplice neanche in Italia. È vero che gli ebrei in base alla legge sul ritorno ottengono subito la cittadinanza, ma in fondo anche in Italia abbiamo previsto percorsi agevolati per chi aveva un avo italiano, i cosiddetti oriundi...

Abbiamo affrontato molti temi, per ricavarne un quadro pieno di punti interrogativi: il rapporto futuro tra le diverse componenti ebraiche, ortodossi e non, la possibilità di uno o addirittura due Stati palestinesi, il perdurare di violenze interne e minacce geopolitiche...

Sì, però il messaggio che io mi sento di dare è che bisogna guardare a Israele come a uno Stato normale. Molti problemi somigliano a quelli italiani, per esempio ci sono molte somiglianze tra Silvio Berlusconi e Bibi Netanyahu, che penso finirà anche lui a dover fare un certo periodo non di prigione, come è avvenuto ad altri politici israeliani perché qui la giustizia non scherza, ma magari di servizi sociali. E poi i problemi di distribuzione delle risorse, la frantumazione dei partiti, la crisi delle ideologie, i problemi dell’ambiente che sono uguali per tante democrazie contemporanee.

C’è però questa drammatica specificità del rapporto con i palestinesi e con una parte del mondo islamico, Iran in particolare. Cambierà qualcosa quando Abu Mazen lascerà finalmente la presidenza dell’Autorità nazionale palestinese?

Abu Mazen è una figura screditata, ha 85 anni, è malato. Il suo mandato era scaduto nel 2010 ma ha sempre evitato le elezioni per timore di Hamas, perché anche se non tutti gli arabi della Cisgiordania condividono le impostazioni di questo movimento, tutti ormai desiderano che Abu Mazen se ne vada. Impossibile capire che cosa succederà dopo di lui. Devo dire che ho avuto modo di lavorare con personalità palestinesi competenti e responsabili, con le quali abbiamo anche condiviso certi ragionamenti. Ma a un certo momento i giochi politici li bloccavano, anche se si trattava solo di firmare congiuntamente un progetto di ricerca statistica (tra l’altro cospicuamente finanziato dall’Unione europea). Meglio rinunciare al finanziamento che al dogma politico. Questo è il clima. Addirittura, Israele, che funge da esattore sulle importazioni destinate ai palestinesi, detiene 120 milioni di Shekel (quasi 34 milioni di euro) che deve versare all’Autorità, ma i palestinesi si rifiiutano di riceverli perché non vogliono avere rapporti con noi.

a cura di Donato Speroni

giovedì 9 dicembre 2021