Il silenzio dei maschi
Gli uomini monopolizzano la scena pubblica, ma che cosa realmente pensano al di là di stereotipi che li relegano in un ruolo predefinito?
di Annamaria Vicini
I mezzi di comunicazione dal #metoo in poi parlano delle donne, le donne parlano molto di sé sui social network sfruttando gli strumenti che le tecnologie ci mettono a disposizione.
Finalmente, era ora che l’altra metà del cielo si appropriasse di spazi per troppo tempo preclusi, onore al merito a chi ha contribuito a riequilibrare uno scenario che definire squilibrato sarebbe insufficiente visto che per anni lo spazio comunicativo è stato monopolizzato dal genere maschile.
Ma ho il dubbio che questo nuovo equilibrio stia generando una mancanza: non sappiamo che cosa i maschi pensano.
Certo, li vediamo agire: la scena politica è ancora colpevolmente accentrata nelle loro mani perché, escludendo la Presidente del Consiglio (che tra l’altro ha espressamente dichiarato di voler essere chiamata “il Presidente del Consiglio”), governo e parlamento sono saldamente in mano agli uomini (6 ministre su un totale di 24 mentre in Camera e Senato le parlamentari sono il 31%, la percentuale più bassa da 20 anni a questa parte).
Oddio, qualche maschio parla, per esempio in questo periodo molti dicevano per quale squadra tifavano ai mondiali in Qatar e commentavano le azioni di questo o quel calciatore…
Qualche politico ha espresso la propria indignazione per il Qatargate (il Qatar in effetti attualmente impazza, prima chissà quanti non ne conoscevano nemmeno l’esistenza…).
Le donne parlano di tutto, di politica ma anche di lavoro e della fatica di conciliare un’attività con i tempi e le incombenze famigliari, di relazioni con il partner e con i figli, di quanto la parità sia ancora lontana… .
Non hanno problemi neppure a dire apertamente che non vogliono essere madri, come di recente ha fatto tra non poche polemiche l’attrice e conduttrice Virginia Raffaele in un’intervista a Oggi.
E stanno anche imparando a fare rete, organizzano convegni a cui invitano altre donne e grazie ai quali stiamo scoprendo che ci sono nel nostro travagliato Paese fior di professioniste competenti e preparate che si spera vengano poi invitate anche ai convegni organizzati e monopolizzati dagli uomini contro cui la campagna #boycottmanels forse qualche risultato ha ottenuto.
Dov’è quindi il problema?
Un problema sta nel capire quando questo nuovo protagonismo femminile riuscirà a incidere in modo significativo anche nella società, nel determinare un cambiamento che non sia circoscritto all’ambito comunicativo ma riesca a modificare alcuni paradigmi per un miglioramento del nostro vivere collettivo, affrontando temi cruciali come la crisi climatica, le disuguaglianze economiche, l’invecchiamento della popolazione e lo squilibrio demografico.
È solo questione di tempo? Ma se lo è, quanto ancora dovremo aspettare?
L’altro problema è capire a cosa sia dovuta e quali conseguenze generi la parzialità della comunicazione maschile, che tende a esternare prevalentemente rispetto a ciò che sta fuori da sé, ma poco o niente di sé. Quanto sarebbe rivoluzionario per esempio se un uomo parlasse apertamente del proprio desiderio o non desiderio di paternità, o delle gioie e difficoltà dell’essere padre!
Una conseguenza non trascurabile potrebbe essere che le politiche pubbliche si adattino a questa mancanza. Il congedo di paternità obbligatorio sarebbe di soli 10 giorni se anche da noi, come avvenuto di recente in Finlandia, un ministro dichiarasse di voler restare a casa due mesi perché “nessuno, nemmeno un ministro, è insostituibile nel suo lavoro. Per i nostri figli, invece, noi lo siamo”? E se invece di un governante a dirlo fossero centinaia di padri, forse che questo non influirebbe sul programma politico di una maggioranza di governo?
Un’altra conseguenza, senza dubbio più evidente, di questa “afasia” è la violenza che alcuni maschi agiscono, contro le donne e non solo.
Quanto questa violenza si ridurrebbe se si creasse un clima sociale in cui ammettere le proprie fragilità e difficoltà non venisse percepito come un tradimento di quel feticcio che si chiama mascolinità?
Più difficile agire sulle cause, e forse è per questo che non si riesce a spezzare una catena che alla fine ci imprigiona tutte e tutti.
Qualche intellettuale ha il coraggio di parlare.
L’ha avuto Francesco Piccolo nel suo L’animale che mi porto dentro, un testo che tutti dovrebbero leggere perché parla dei condizionamenti educativi a cui sono stati sottoposti i maschi di alcune generazioni e che ancora oggi agiscono attraverso di loro nella società. Purtroppo fra tutti i libri dello scrittore è quello che ha avuto meno fortuna, chissà perché!
E coraggio di esporsi in prima persona lo dimostra anche Lorenzo Gasparrini, autore di diversi saggi tra cui Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni e il più recente Perché il femminismo serve anche agli uomini.
Gasparrini, che nel primo dei due libri citati si scaglia in verità contro gli intellettuali accusandoli di essere “muti” sui discorsi di genere e quando non sono muti di raccontare “in maniera distorta pseudoteorie su maschilità e femminilità fuorvianti, se non proprio dannose” si definisce un disertore del patriarcato. Una definizione che fa capire molto bene come si tratti di una condizione riservata a pochi e quindi marginale.
Chi o che cosa potrebbe far uscire questo discorso da un registro colto e riservato a pochi eletti?
Perché se a prendere la parola fossero in tanti e non necessariamente ascrivibili a una specifica categoria, allora sì che potrebbe forse determinarsi un cambiamento davvero epocale.
Fonte immagine: ansa.it