Col Metaverso finito nel pozzo e le nuove restrizioni legali, il futuro dei social è a pagamento
Chi non vuole ricevere pubblicità sul proprio profilo Facebook potrà eliminarla pagando. La società di Zuckerberg deve far fronte al “profondo rosso” del suo progetto di punta e alle sanzioni che derivano da regole europee sempre più stringenti.
di Flavio Natale
È di pochi giorni fa la notizia, riportata dal Wall street journal, di una versione a pagamento dei social di Meta per chi non vuole la pubblicità mirata sul proprio account. Il costo mensile di questo servizio, per ora previsto solo in Europa, dovrebbe essere di 10 euro da desktop e 13 da mobile. La notizia ha scatenato un acceso dibattito, specialmente all’estero. Comprendere per quale motivo Mark Zuckerberg, il presidente e Ceo di Meta che ha sempre fatto della gratuità delle sue piattaforme un cavallo di battaglia, abbia deciso di battere questa strada (mentre il progetto di punta dell’azienda, il metaverso, sta dissanguando le casse di Meta) è importante per capire l’evoluzione, presente ma soprattutto futura, dei social media.
Il giro di vite europeo
Per chi non lo sapesse, il famoso slogan che si trovava nella pagina di registrazione di Facebook: “è gratuito e lo sarà per sempre”, è scomparso nel 2019, sostituito da “è facile e veloce”. Non che la piattaforma di Zuckerberg sia mai stata veramente gratuita. Come spiega il documentario The social dilemma (e illustra più approfonditamente Shoshana Zuboff nel suo celebre Il capitalismo della sorveglianza): “Se il servizio è gratis il prodotto sei tu”. Questa frase, un mantra per i movimenti che premono per la regolamentazione delle piattaforme, riassume un concetto essenziale: iscrivendoci ai social più diffusi offriamo volontariamente i nostri dati, che poi verranno forniti ad aziende le quali, a loro volta, invieranno pubblicità mirate sui nostri profili. Spot ad personam, il vero sogno di qualsiasi pubblicitario.
Ora però la società di Menlo Park ha fatto un passo in più, fornendo direttamente un’opzione a pagamento per rimuovere la pubblicità. Ma perché proprio ora?
Si tratta di un tentativo maldestro di rispondere alle nuove normative europee sulla protezione della privacy. Tra dicembre e gennaio scorso, infatti, il Garante irlandese per la protezione dei dati (Dpc) aveva sanzionato Meta per 59 milioni di euro, ritenendo che la società avesse violato gli obblighi di trasparenza nei confronti degli utenti. Molte autorità nazionali garanti della privacy (tra cui l’Italia) avevano però chiesto al Comitato europeo per la protezione dei dati (Edpb) di aggiungere all’accusa il ben più grave aggiramento delle norme del Gdpr, il Regolamento generale sulla protezione dei dati in vigore nell’Unione.
Meta è stata infatti accusata di aver inserito la clausola relativa al consenso del trattamento dei dati personali per la profilazione pubblicitaria tra i Termini di servizio, invece di domandare l’esplicito consenso agli utenti. Questa operazione si chiama “consenso forzato”, ed è stata giustificata dall’azienda affermando che gli annunci personalizzati sono parte del “servizio” fornito per contratto agli utenti. Il Garante irlandese ha accolto le direttive vincolanti dell’Edpb, smussando però quelle non vincolanti. Dove l’Edpb aveva richiesto di comminare una multa da 390 milioni di euro, l’autorità irlandese ne ha comminate due diverse: una da 150 milioni (per la trasparenza) e un’altra di soli 60 milioni per l’uso illecito dei dati degli utenti, depotenziando una questione che risulta invece cruciale.
Social network e salute mentale dei giovani: la maxi-causa Usa farà da apripista?
Oltre 40 Stati americani denunciano Meta: Facebook e Instagram sarebbero progettati per creare dipendenza e l’azienda non è stata chiara sulla loro sicurezza. L’azione legale diventa uno strumento sempre più importante per lo sviluppo sostenibile.
Strumento ancora più importante è il Digital services act (Dsa), disegno di legge europeo elaborato nel 2022 e che entrerà in vigore da gennaio 2024. Il Dsa impone alle big tech una stretta sui contenuti illegali o nocivi che circolano sulle piattaforme.
Saranno vietati gli annunci mirati ai minori (andando a colpire soprattutto i dark patterns, le cosiddette pubblicità ingannevoli), così come quelli indirizzati agli utenti in base al loro genere, etnia o orientamento sessuale. Saranno messe al bando le tecniche che le aziende utilizzano per spingere le persone, ad esempio, a sottoscrivere dei termini di servizio; e le stesse società saranno obbligate a effettuare valutazioni annuali sui rischi delle proprie piattaforme. Inoltre, le big tech dovranno fornire personale adatto a gestire e moderare i contenuti, dal momento che tutti gli utenti avranno diritto a presentare reclami nella lingua d’origine, e ricevere risposte nella stessa lingua. Per chi non rispetta le regole, si prevedono multe fino al 6% del fatturato globale o, in caso di ripetute violazioni, il divieto di operare nel mercato unico europeo.
Ordine cronologico, o forse no
Come si legge su Repubblica: “Ogni volta che accediamo a un social network, quello che vediamo è il prodotto di almeno due fattori. Da un lato, alcune caratteristiche oggettive, come i contenuti che ci vengono proposti perché hanno avuto molto successo; dall’altro, un grado di personalizzazione, basato sui profili che seguiamo e sugli interessi che abbiamo dimostrato di avere durante la nostra esperienza su quella piattaforma”.
È proprio su questo “grado di personalizzazione” che il Dsa dà luogo a una delle battaglie più accese: secondo il disegno di legge, le piattaforme sono obbligate a fornire un’opzione per vedere i contenuti in ordine cronologico, senza l’intervento di un algoritmo basato sulla profilazione dei dati personali.
Gli algoritmi sono creati per guidare la nostra esperienza online e consigliare i contenuti maggiormente adatti al nostro profilo. Se da una parte questo aiuta teoricamente gli utenti a raggiungere con facilità i temi più interessanti, dall’altra, secondo una ricerca condotta da varie università americane in collaborazione con la stessa Meta, “l’architettura dei social media può relegare le persone nella loro bolla”, esponendole “a una visione di parte di alcuni argomenti, quando non alla completa disinformazione” e circondandole di “individui che la pensano allo stesso modo e che rafforzano i loro atteggiamenti”.
L’opzione di un ordine cronologico dei contenuti (dal più recente al meno recente) dovrebbe garantire all’utente un filtro più neutro, poiché i post non apparirebbero più in base alla scelta dell’algoritmo. La buona notizia è che molte piattaforme già offrono questo strumento, la cattiva è che spesso è nascosto e nessuno sa dove.
Facebook garantisce ad esempio una versione del feed (il flusso costante di contenuti che l’utente vede scorrere sulla pagina) tarato in base all’ordine cronologico. Il problema è che si trova ben celato nel menù a tendina. Il numero di passaggi (almeno tre) che serve per arrivare a questa versione (tra l’altro graficamente meno accattivante) la rende più faticosa, e dunque meno diffusa. Inoltre, non si può salvare come modalità di visualizzazione predefinita, e obbliga l’utente a ripetere gli stessi passaggi ogni volta che apre l’app.
Stesso discorso vale per Instagram, che rende però l’accesso all’ordine cronologico più facile: basta cliccare sul logo, in alto a sinistra, per avere la possibilità di selezionare “Seguiti”, una raccolta di post dal più al meno recente.
Anche TikTok, piattaforma video resa celebre proprio dall’efficacia del suo algoritmo, ha introdotto l’opzione dei contenuti non personalizzati. “Un passo verso una dimensione parallela di TikTok, una specie di nuova forma di televisione”, si legge su The Atlantic. Per quanto riguarda X (ex Twitter) la possibilità di vedere i post in ordine cronologico già esiste, è abbastanza visibile e ordina i tweet dal più recente al meno recente.
Il metaverso, “un pozzo senza fondo”
La mossa di Zuckerberg potrebbe essere dovuta anche a un altro fattore. Secondo quanto riportato da Statista (e segnalato anche dal programma Media e dintorni in onda su Radio radicale), il progetto della creazione di un metaverso sta dissanguando le casse di Meta.
Nei primi nove mesi del 2023, la divisione Reality labs (l’area di Meta specializzata nei software per la realtà aumentata, virtuale e il metaverso) ha registrato una perdita di 11,5 miliardi di dollari, un dato che la mette sulla buona strada per battere il record negativo di 13,7 miliardi di dollari del 2022. Nel 2021 le perdite erano arrivate a 10,2 miliardi, mentre nel 2020 a 6,6 e nel 2019 a 4,5. Totale: 46,5 miliardi di dollari.
E non è finita: Zuckerberg si aspetta ulteriori margini negativi per il 2024. “C'è una lunga strada da percorrere per costruire la prossima piattaforma informatica, ma qui stiamo chiaramente svolgendo un lavoro di punta”, ha detto il Ceo di Meta agli investitori. “Si tratta di un'impresa enorme e spesso sono necessarie alcune versioni di ciascun prodotto prima che diventino mainstream. Ma penso che il nostro lavoro sia di importanza storica e creerà le basi per un modo completamente nuovo in cui interagire tra noi e integrare la tecnologia nelle nostre vite”.
Zuckerberg sta quindi combattendo su due fronti. Se da un lato prova a sviluppare un metaverso fruibile per gli utenti (senza continuare a perdere miliardi), dall’altro sta cercando di parare i colpi dei garanti per la privacy europei. Se Facebook e Instagram a pagamento riusciranno in quest’ultimo intento è ancora tutto da vedere.