Termovalorizzatori: alternativa per il futuro o rimedio dal passato?
Il progetto di un impianto a Roma ha scatenato polemiche. Le soluzioni ottimali sono altre: raccolta differenziata di qualità, centri di riuso diffusi, digitalizzazione della filiera. Ma la transizione richiede tempo.
di Flavio Natale
Anche Frans Timmermans, commissario europeo per il Clima e il Green deal europeo, si è espresso sulla questione del termovalorizzatore di Roma: “Si può fare, in modo sostenibile”. La dichiarazione di Timmermans riguarda la decisione del sindaco di Roma Roberto Gualtieri di costruire un impianto di termovalorizzazione nella Capitale, per mettere un freno all’inesorabile incedere dei rifiuti. L’impianto, nelle previsioni, dovrebbe essere realizzato entro il Giubileo del 2025 da Acea, avrebbe una capacità di smaltimento di 600mila tonnellate di rifiuti all’anno e costerebbe tra i 600 e i 700 milioni di euro.
La questione, anche secondo Timmermans, è quantomai urgente: “Siamo in contatto con Gualtieri ogni settimana, dobbiamo trovare una soluzione al problema, mettere i rifiuti in terra è una pessima idea. È venuto il momento di risolvere”.
A oggi, Roma invia in discarica un totale di 450mila tonnellate di rifiuti annui – tra indifferenziati e scarti della differenziata – che equivalgono al 30% della produzione di rifiuti complessiva. Il nuovo impianto – secondo nel Lazio, dopo quello di Frosinone, sempre a direzione Acea – permetterebbe secondo Gualtieri “di abbattere del 90% l’attuale fabbisogno di discariche”, migliorando nettamente la gestione dei rifiuti capitolina: “Roma Capitale chiude il ciclo dei rifiuti con impianti propri per una quota inferiore al 2%. Si tratta di una percentuale irrisoria, senza eguali in altre città italiane e lontanissima dagli standard delle capitali europee”.
La decisione, naturalmente, ha aperto un grande dibattito: ma, prima di comprenderne evoluzioni e traiettorie future, è utile capire di cosa stiamo parlando.
Inceneritori vs termovalorizzatori
Esiste una differenza sostanziale tra inceneritori e termovalorizzatori. I primi sono impianti usati per smaltire i rifiuti (soprattutto solidi urbani e speciali) dentro strutture desuete, attraverso un processo di combustione ad alta temperatura, provocando livelli molto alti di emissioni gassose – diossine, furani, pm10, pm2,5, ceneri e polveri. I termovalorizzatori, invece, sono “inceneritori di seconda generazione”, che bruciano i rifiuti secondo le Best available techniques dell’Unione europea, recuperando il calore sviluppato (e il conseguente vapore) per produrre energia o alimentare gli impianti di teleriscaldamento – forme di riscaldamento che si servono di un fitto sistema di tubazioni coibentate per trasportare acqua calda o vapore, generati a loro volta da grosse centrali di produzione.
Secondo le stime Ispra del 2021, a oggi in Italia esistono 37 impianti che bruciano rifiuti – contro i 126 della Francia o i 96 della Germania. Di questi, la maggior parte (26) si trova al Nord – soprattutto in Lombardia, che ne conta 13, seguita da Emilia-Romagna con sette, Veneto con tre e uno per Piemonte, Trentino Alto-Adige e Friuli Venezia Giulia. Al Centro-Sud, invece, il numero è inferiore. Ne abbiamo cinque al Centro – quattro in Toscana e uno nel Lazio – e sei al Sud. Alcune regioni, come la Sicilia o l’Abruzzo, non hanno nemmeno un impianto.
Numero di impianti di incenerimento che trattano rifiuti urbani, anni 2013 – 2020, fonte Ispra
Sempre secondo l’Ispra, nel 2020 i rifiuti urbani inceneriti – comprensivi del combustibile solido secondario (Css), della frazione secca e del bioessiccato ottenuti dal trattamento dei rifiuti urbani stessi – ammontavano a 5,3 milioni di tonnellate (-3,6% rispetto al 2019; -1,5% rispetto al 2016). Il 70,2% di questi rifiuti viene trattato al Nord, il 10% al Centro e il 19,8% al Sud.
L’analisi dei dati mostra inoltre che tutti gli impianti sul territorio nazionale hanno prodotto energia: 24 di queste strutture hanno trattato circa 3,2 milioni di tonnellate di rifiuti e recuperato quasi 2,5 milioni di megawattora (MWh) di energia elettrica. I restanti 13 impianti, invece, dotati di cicli cogenerativi (che producono cioè sia energia elettrica che termica), hanno incenerito tre milioni di tonnellate di rifiuti, recuperando oltre 2,3 milioni di MWh di energia termica e due milioni di MWh di energia elettrica. In Europa, invece, secondo le stime di Eswet (European suppliers of waste-to-energy technology), la combustione dei rifiuti fornisce elettricità a 18 milioni di cittadini e riscaldamento a 15 milioni. In Germania, dove la generazione di energia da termovalorizzazione è particolarmente diffusa, gli impianti coprono il 4,3% del consumo di energia primaria nazionale.
Riguardo l’impatto che i termovalorizzatori hanno sulla salute e la qualità della vita dei cittadini – una delle maggiori preoccupazioni riguardanti la costruzione di nuovi impianti – si è espresso nel 2021 il Libro bianco sull’incenerimento dei rifiuti urbani – uno dei documenti più qualificati in materia, prodotto da Utilitalia e cofirmato da professori del Politecnico di Milano, del Politecnico di Torino, dell’Università di Trento e dell’Università di Roma 3 Tor Vergata: “È scientificamente riconosciuto che le preoccupazioni sui potenziali effetti sulla salute degli inceneritori riconducibili a inquinanti potenzialmente presenti nelle emissioni, quali metalli pesanti, diossine e furani, sono da ricondurre a impianti di vecchia generazione e a tecniche di gestione utilizzate prima della seconda metà degli anni Novanta”, sottolinea il documento. “Un impianto di incenerimento ben progettato e correttamente gestito, soprattutto se di recente concezione, emette quantità relativamente modeste di inquinanti e contribuisce poco alle concentrazioni ambientali. Pertanto, non si ha evidenza che comporti un rischio reale e sostanziale per la salute”.
Di differente avviso è Carmine Trecroci, professore ordinario di scienze economiche e statistiche presso l’Università di Brescia che, intervistato dal sito Journalism for the energy transition ha commentato: “I processi di purificazione di queste strutture puliscono i fumi dell'incenerimento: ma nonostante questi sofisticati filtri e processi di depurazione, i fumi che escono dalla ciminiera contengono quantità significative di ossidi di azoto, particolato e altri elementi nocivi”. Uno studio pubblicato su Research gate, ad esempio, avrebbe rilevato emissioni tossiche derivanti da impianti di termovalorizzazione, rintracciate nel flusso sanguigno del bestiame della città portuale di Harlingen, nei Paesi Bassi. Inoltre, sottolinea Trecroci, “non è che la spazzatura sparisca nel nulla”. C’è bisogno infatti di accurati processi di smaltimento della cenere che, trattata, potrebbe essere utilizzata perlopiù nella produzione di asfalto e cemento. “Ma dove non ci sono strutture attrezzate, gli avanzi di solito finiscono in discariche speciali” – pericolo che si amplifica quando si parla di materiali radioattivi o altamente tossici.
La scelta di Gualtieri è stata salutata con favore da una fetta della politica, dell’ambientalismo e anche del giornalismo italiano. Gianluca Mercuri, sul Corriere della Sera, ha sintetizzato: “È intuitivo che la soluzione ideale sarebbe il riciclo totale: il problema è che non è possibile. Perché non tutti i materiali si possono riciclare e perché il riciclo produce comunque scarti”. L’iniziativa ha ricevuto anche molte critiche.
“La costruzione del secondo più grande termovalorizzatore italiano è una scelta totalmente sbagliata, contraria alle politiche ambientaliste e ai principi di sviluppo ecosostenibile ed economia circolare”, hanno dichiarato il presidente di Legambiente Lazio Roberto Scacchi e il presidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani. “Bisogna invece spingere il porta a porta a tutte le utenze domestiche, puntare a una differenziata altissima, alla tariffa puntuale, a nuove isole ecologiche e biodigestori per l’organico”. Per il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, esponente della prima ora del Movimento 5 stelle, gli inceneritori sono “roba vintage”, mentre Green Italia ha accusato l’amministrazione capitolina di trasmettere fake news: “l’inceneritore non è una soluzione ‘green’ tanto che l'Europa lo ha escluso dalle opere comprese nella cosiddetta "tassonomia verde" in quanto non soddisfa il principio del ‘Do No Significant Harm’”.
Sul tema è intervenuto anche Valter Menghini, membro del Consiglio direttivo dell’Associazione italiana per lo sviluppo dell'economia circolare (Aisec), nonché co-coordinatore del Gruppo di Lavoro ASviS sul Goal 12 dell’Agenda 2030, Obiettivo dedicato a consumo e produzione responsabili.
“Come Aisec non siamo contrari all’impiantistica: non solo quella a termovalorizzazione, ma di qualsiasi tipo”, ha dichiarato Menghini a Futura network. “Il problema di Roma è che non ci sono impianti, così come al Sud Italia. E le discariche sono decisamente più inquinanti dei termovalorizzatori. Dobbiamo tenere conto della quantità di camion e navi che viaggiano nel nostro Paese e in Europa per smaltire questi rifiuti, provocando un impatto ambientalmente dannoso”. Menghini ha proseguito poi sull’economica circolare: “Questo tipo di economia implica un cambio di paradigma, che si muove da una concezione lineare a una, appunto, circolare. Ma alcuni tipi di rifiuti rimangono, e vanno smaltiti. Per questo servono non solo termovalorizzatori, ma anche impianti di compostaggio e di altro tipo. Queste strutture devono nascere sul territorio, a livello locale, e non a centinaia di chilometri di distanza”.
“La raccolta differenziata da sola è difficile”, prosegue Menghini. “Perché va trattata adeguatamente. Per questo bisognerebbe studiare piani di smaltimento strutturati, specialmente per città grandi come Roma”. Infine, alla domanda su quali politiche di smaltimento o riutilizzo dei rifiuti vedrebbe ottimali per il futuro, Menghini ha aggiunto: “Punterei tanto sui centri di riuso, aree dove poter prendere gli oggetti senza pagarli, dando loro una seconda vita. Per me è un caposaldo di una vera politica territoriale. Inoltre, bisogna fare un’importante opera di sensibilizzazione della cittadinanza. In Italia alcune regioni precludono a prescindere la possibilità di costruire impianti di trattamento dei rifiuti. Bisogna vedere se servono e, in caso, usarli: non sono mostri”.
Cosa ci aspetta nel futuro
Per quanto le emissioni dei termovalorizzatori risultino minori rispetto alle discariche o ai vecchi inceneritori, uno dei primi settori su cui si lavora per il futuro è un ulteriore abbattimento della produzione di CO2.
“Se potessimo neutralizzare la CO2 in qualche modo, come catturarla e usarla in modo costruttivo, il WtE (Waste-to-energy, l’energia che deriva dallo smaltimento dei rifiuti) diventerebbe un pozzo di carbonio, una tecnologia con un'impronta negativa”, ha dichiarato Ella Stengler, della Confederation of european waste-to-energy plants (Cewep), un'associazione ombrello di operatori di impianti WtE in Europa. “Questo, tuttavia”, ha detto, “dipende dalla creazione di un mercato per il carbonio, e dalla fattibilità del suo stoccaggio”. Alcuni tentativi embrionali stanno prendendo piede nei Paesi Bassi: l’impianto di Duiven, ad esempio, sta attualmente fornendo CO2 a una serra orticola locale per favorire la crescita delle piante. Il termovalorizzatore di Helmstedt, invece, sta lavorando con la città per produrre l’idrogeno necessario al funzionamento degli autobus pubblici.
Il futuro del settore WtE è strettamente legato anche alle iniziative politiche europee: il nuovo Piano d'azione per l'economia circolare getta infatti le basi per un'economia a emissioni zero, ecologicamente sostenibile, priva di sostanze tossiche e completamente circolare entro il 2050. Questo modello, se adottato con rigore, metterebbe in crisi il settore dei termovalorizzatori. “In primo luogo, perché l'incenerimento è uno sforzo a senso unico, e quindi antitetico alla circolarità”, si legge ancora su Journalism for the energy transition. In secondo luogo, perché dovrebbe rispondere alla domanda: “Quanti rifiuti rimarrebbero da bruciare, se l'economia circolare dovesse andare come previsto?” Ipotesi a cui ha replicato, tra gli altri, Julia Vogel, dell'Agenzia tedesca per l'ambiente (Uba): “Non ci saranno mai rifiuti residui zero. L'incenerimento ha senso per i rifiuti residui che non possono essere riciclati – e il fatto che produca anche energia, beh, questo è un bonus”.
È altrettanto vero, però, che con una migliore gestione dei rifiuti, magari attraverso il supporto di tecnologie digitali, si potrebbe arginare parte del problema a monte. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente (Aea), infatti, la digitalizzazione dell’intera filiera dei rifiuti avrà un impatto significativo sulla sostenibilità del settore, in particolare grazie agli strumenti della robotica, l’Internet delle cose, il cloud computing, l’intelligenza artificiale e l’analisi dei dati.
Nelle smart city, ad esempio, questo progetto, anche se embrionalmente, sta già prendendo forma. “L’intero processo di raccolta e gestione dei rifiuti può essere ottimizzato grazie all’archiviazione, all’elaborazione, all’analisi e alla successiva ottimizzazione delle informazioni”, scrive Bernardo Mannelli su Le macchine volanti, il magazine di Tim dedicato agli studi sul futuro. “Ogni singolo dato, compresi quelli sullo stato d’avanzamento dell’attività o su eventuali incidenti, può essere monitorato in tempo reale e, grazie all’utilizzo di algoritmi, è possibile trovare le opzioni più adatte per l’allocazione di risorse, come forza lavoro o veicoli”. Tra le tecnologie più utilizzate nel settore, si segnalano sistemi di routing, software di navigazione e localizzazione dei veicoli o sistemi Erp (enterprise resource planning) – software di gestione che integrano e ottimizzano i piani di business di un’azienda. Tutti questi processi, naturalmente, devono essere accompagnati da una maggiore responsabilizzazione di cittadini e imprese, senza cui molte di queste iniziative potrebbero non ottenere l’effetto desiderato.
“Anche l’Internet delle cose ha iniziato a ritagliarsi un suo spazio”, si legge sempre su Le macchine volanti. Nel caso specifico, ciò consisterebbe nell’utilizzo di etichette intelligenti e sensori applicati all’interno dei bidoni, in grado di monitorarne i livelli di riempimento, dialogando in tempo reale con i veicoli di raccolta e con i cittadini.
Innovazioni simili sono già diffuse in alcuni territori italiani. A Bologna, ad esempio, esiste “Il Rifiutologo”, un’app che aiuta a fare raccolta differenziata di qualità, fornendo indicazioni alla cittadinanza sullo smaltimento, segnalando le stazioni ecologiche più vicine, indicando i cassonetti troppo pieni. Ma c’è anche Junker, un’app che indirizza l’utente verso una corretta differenziazione dei rifiuti casalinghi: inquadrando il codice a barre del prodotto, l’applicazione indica dove e come smaltirlo.
Alcune aziende italiane (come Eurven, società di progettazione e produzione di sistemi per la riduzione dei rifiuti) “prevedono una remunerazione per gli utenti che utilizzano i compattatori dei rifiuti”, rilasciando uno scontrino da utilizzare come buono spesa. Il passo successivo di questo processo potrebbe essere il cosiddetto “pay-as-you-throw”, un sistema per cui ai cittadini verrebbe applicata una tariffa a seconda dei rifiuti generati e della conformità con le regole di smaltimento.
Insomma, un insieme di soluzioni per raggiungere un unico scopo: una raccolta differenziata di qualità, che resta ancora il miglior sistema per diminuire il quantitativo di rifiuti in circolazione e avere sempre meno bisogno, in futuro, di nuovi impianti di termovalorizzazione. Ma per raggiungere questo obiettivo ci vorranno ancora molti anni.
fonte dell'immagine di copertina: ansa.it