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Come sarà il cibo del futuro? Il nuovo libro “Le Gastronautiche”, tra narrativa e saggistica

Pubblicata l’antologia nata dalla collaborazione tra Future Fiction e Italian Institute for the Future. Dalle serre hi-tech alla cucina ibrida, dall’ingegneria genetica alla blockchain, il volume esplora il futuro tramite 12 racconti dal mondo e 12 saggi di esperte ed esperti.

giovedì 11 dicembre 2025
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Di seguito un estratto del racconto “Grano dal loglio” dell'autrice e archeologa botanica olandese Cornelie Moolhuizen, e del saggio a cura di Flavio Natale, redattore di Futura Network. 

Grano dal loglio, di Cornelie Moolhuizen

Posso ancora sentire l’impronta familiare e tenera degli oculari nelle orbite.

La giornata sta per finire. Avrei dovuto fare una pausa, lasciare riposare gli occhi, ma il pensiero di sfidare la folla in quella che qui passa per una mensa mi toglie l’appetito e mi fa solo desiderare di tenermi stretto il microscopio.

Da quando siamo arrivati, li ho sempre evitati; quella banda di ricercatori genetici con il loro arsenale di attrezzature ad alta tec­nologia. I tavoli da lavoro intorno a me, invece, sono disseminati di scatole. L’odore dolciastro di cartone antico mi punge il naso. Cartone… Quando è stata l’ultima volta che ho sentito un odore del genere?

Una donna chiacchiera in modo spensierato in corridoio. Le risate riecheggiano lungo i soffitti alti dell’istituto. C’è motivo di essere allegri quando si fa parte della squadra PCR? Non saprei dirlo, io lavoro da solo. Identificazione e selezione: questo sono io.

Il calpestio sulle piastrelle scompare. Quest’edificio mi ricorda l’Erbario dove sono stato addestrato. Finestre con vetri increspati, legno tinto di scuro. Questo palazzo viene da un mondo in cui il cibo era ancora dato per scontato. Saremo in grado di far rivivere quei giorni?

La maniglia della porta fa un clic metallico; i cardini cigola­no in modo nostalgico e la porta si apre. Senza guardare, so che è Norm. Tutti gli altri capi dipartimento del programma FEWW lo chiamano professor Ryan.

“Liniard, come vanno le cose quaggiù?”

Dottor Liniard. Non gli rispondo. Se ci fosse stato qualcosa da segnalare, l’avrebbe saputo.

“Ho pensato di fare un salto per vedere come vanno i ma­cro-resti. Non dimenticare di mangiare, eh… germogli? Oggi li servono al gusto di pepe.”

D’istinto il biologo in me chiama: Piper o Capsicum? Defor­mazione professionale. Solo il Piper nigrum è stato davvero pepe. Il Capsicum o peperoncino era piccante, ma non era pepe vero.

D’accordo, mi sto lamentando, l’ammetto. Norm non sa que­ste cose. Nessuna delle due specie veniva più coltivata quando lui era abbastanza grande da fare la spesa da solo.

Lentamente alzo la testa, come se ci volesse uno sforzo per ri­spondere. Non è del tutto una recita. “Grazie. Non riuscivo a pen­sare ad altro per cui valesse la pena disturbarmi.”

Lo scintillio nei suoi occhi, quello che ha usato per assicurarsi una posizione all’interno del FEWW, svanisce. Le ciocche nere ondeggiano sulle tempie mentre scuote la testa.

“Speriamo di vederti lì.” Quel che resta di un sorriso si aggrap­pa al suo volto. Norm è il tipo d’uomo che non si farà mai insegui­re da una squadra di inquisitori.

“Non vedo l’ora.”

Lui scompare e la porta che si richiude lo sbeffeggia.

Forse dovrei smettere di sfidarlo. Fare più gioco di squadra. Il futuro della produzione alimentare mondiale non dipende da noi?

Stringo le scatole di cartone piene di semi, ma non possono nascondere le rughe e le vene pronunciate sulla mia mano. Forse è per questo che il Food Engineering Worldwide, o FEWW, ha tanta fretta: temono che io possa tirare le cuoia prima di finire il lavoro.

Scommetto che avevano desiderato un cucciolotto, uno di quaranta, cinquant’anni al massimo. Ma chi tra quei giovinastri ha imparato quello che so fare io? Identificare semi sconosciuti, nominare grani di cereali.

A dire il vero, non sono sicuro di essere l’ultimo archeobota­nico sulla Terra, ma sono di certo il migliore. Nessuno, nella mia generazione di ricercatori, potrebbe distinguere dei resti di piante con la mia stessa quantità di passione e precisione. È qui che pri­meggio da quando ho visto il mondo ingrandito cinquanta volte in una piastra di Petri.

Nel momento in cui ho iniziato, ero già una razza in via d’e­stinzione.

Chi vorrebbe vedere le cose a livello macroscopico, quando ci sono istoni e nucleotidi da osservare? Che tipo di fossile si pren­derebbe la briga di studiare semi che si possono vedere a occhio nudo? DNA antico, questo era il modo per ottenere finanziamenti.

“Oh, Thomas,” disse una volta Annalina. “Hai così tanto talen­to. Perché non fai qualcosa che ti faccia emergere?”

Ma mi sono rifiutato d’immergermi in un mondo di astrazioni minuscole. Volevo continuare a vedere il mondo reale, indagare sulla materia che potevo toccare. Quella scelta ha portato a una carriera piena di disprezzo, sia da parte dei colleghi che degli estra­nei. Ancora adesso, in effetti. Solo che ora, lo ammettono a malin­cuore, hanno bisogno di me.

Ingegnerizzare la natura: una scelta che può costare cara, di Flavio Natale

Fin dove può spingersi l’essere umano per garantire il proprio sostentamento? Questo è il nocciolo duro del racconto Grano dal loglio di Cornelie Moolhuizen, autrice e archeobotanica (studio­sa dei resti vegetali rinvenuti nei siti archeologici). Il protagoni­sta, il dottor Liniard, lavora per la Food engineering worldwide (o Feww), un’organizzazione che, come dice il nome, si occupa di pratiche di ingegnerizzazione degli alimenti. Il tempo in cui si svolge il racconto è un futuro indefinito, ma che risuona nel no­stro presente: il cibo, un tempo dato per scontato, non lo è più, e l’umanità è finita a nutrirsi di germogli. Questo è accaduto per­ché l’iperproduzione alimentare l’ha fatta da padrona per anni, e coltivazioni come quelle di grano, mais e patate, sono andate in­contro a carestie sempre più violente. I motivi sono fondamental­mente due, legati tra loro: le pratiche di monocultura, che hanno sfruttato i terreni fino a renderli infertili; le modifiche genetiche dell’azienda Cibus, che hanno provato a mettere una toppa, peg­giorando la situazione (i parassiti si sono adattati ai cambiamenti e sono diventati più violenti). Insomma, per dirla con le parole di Moolhuizen: “Invece di essere parte del sistema, abbiamo voluto controllarlo” e questi sono i risultati.

Il racconto parte dallo stato delle cose – un’agricoltura in­fertile a causa dello sviluppo umano sconsiderato –, attraversa le possibili soluzioni ingegneristiche proposte nel corso degli anni, per poi profetizzare un rinnovato contatto con la natura, dove le piante che ci nutrono non vengano più viste come un distributore da cui attingere ma come un sistema di cui far parte, che per pro­liferare ha bisogno del nostro rispetto e della nostra cura. Il dottor Liniard attraversa questa realtà distopica (e non così distante dal­la nostra) con una mistura di amarezza e desiderio: amarezza per tempi passati che non torneranno più e desiderio di far proliferare di nuovo l’ambiente, nel modo in cui l’ambiente ha sempre fatto.

Ma perché questo racconto è così vicino alla nostra realtà? La prima cosa che verrebbe da pensare è che l’essere umano si sia spin­to troppo in là, e che le falle del nostro sistema alimentare siano ormai così evidenti da generare un futuro distopico che collassa nel presente. La fame è infatti una delle piaghe più devastanti del ventunesimo secolo. Nonostante qualche progresso recente, nel 2023 ben 733 milioni di persone hanno sofferto la fame, pari al 9,1% della popolazione mondiale, con un’incidenza allarmante in Africa (una persona su cinque). La malnutrizione continua a colpire 150 milioni di bambini, e per circa tre milioni di loro ogni anno la lotta finisce con la morte.

Davanti a questi dati preoccupanti, e con la prospettiva di sfamare quasi dieci miliardi di persone entro la metà del secolo, in molti pensano che una soluzione, magari di natura tecnologica, possa risolvere la situazione.

Il libro è acquistabile qui.