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Allarme: la transizione energetica richiede metalli, ma i produttori non investono

Nonostante la grande necessità di risorse minerarie, l’instabilità del mercato e le politiche statali frenano le ricerche e rallentano la produzione di metalli essenziali per un'economia a basse emissioni di carbonio.

mercoledì 6 marzo 2024
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Secondo il Comitato per le Transizioni Energetiche (Etc), saranno necessarie 6,5 miliardi di tonnellate di metalli per decarbonizzare il mondo entro il 2050. La transizione energetica, nonostante punti alla riduzione del consumo di materie prime, richiederà una quantità significativa di risorse. Questa richiesta non riguarda solo litio, cobalto e nichel, i cosiddetti “metalli critici” componenti fondamentali di turbine eoliche, pannelli solari, veicoli e reti elettriche, ma anche acciaio, rame e alluminio. In particolare, ha sottolineato l’Economist, saranno necessari 170 milioni di tonnellate di acciaio all'anno, prodotto principalmente con minerale ferrosi. Per ampliare e aggiornare le reti elettriche saranno necessarie enormi quantità di rame e anche la domanda di alluminio, cobalto, grafite e platino aumenterà notevolmente.

Tuttavia, nonostante la crescente domanda, le società minerarie stanno investendo molto meno rispetto al passato. La più grande società mineraria del mondo, Bhp, ha speso l'anno scorso meno della metà di quanto faceva un decennio fa. Questo è in parte dovuto alla memoria del crollo del mercato durante la precedente “frenesia mineraria” sostenuta dalla Cina. L’Etc prevede infatti che entro il 2030 si verificheranno carenze di risorse minerarie di dimensioni tali da far crollare il mercato: la produzione di rame e nichel calerà di circa il 10-15%, e si raggiungerà il 30-45% in meno per altri metalli legati alla produzione di batterie.

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Ma l’ostacolo più grande, secondo l’Economist, sembrano essere i governi che oscillano tra politiche di nazionalismo delle risorse e lotta all'inquinamento.

Un chiaro problema è rappresentato dalla tendenza di molti Paesi a voler mantenere il controllo delle proprie risorse, anche a discapito dell'attrazione di investimenti privati. Nel corso dell'ultimo anno ad esempio, il Cile ha annunciato l'intenzione di istituire una società statale per la produzione di litio, mentre altri Paesi come Kirghizistan, Madagascar, Messico e Namibia hanno adottato politiche che includono royalties molto elevate, divieti di esportazione e maggiori interventi statali nell'industria mineraria.

I politici spesso giustificano tali politiche, sostenendo di voler assicurare che una quota maggiore della ricchezza derivante dalle materie prime rimanga all'interno del proprio Paese. Tuttavia, tali politiche possono avere l'effetto contrario, poiché le imprese, costrette a competere con lo Stato o a subire una diminuzione dei profitti, spesso decidono di ritirarsi dall'investimento.

Si aggiungono poi ostacoli di tipo burocratico: i tempi per ottenere i permessi sono eccessivamente lunghi e rallentano ulteriormente lo sviluppo delle miniere. Il processo medio, dalla scoperta del giacimento alla produzione commerciale, richiede quasi 16 anni, mentre l'acquisizione dei permessi può impiegare fino a un decennio.

Infine, la complessità delle normative in diverse giurisdizioni aumenta i costi di costruzione delle miniere, richiedendo investimenti significativi anche sulle infrastrutture accessorie, come gli impianti di desalinizzazione, che possono costare miliardi di dollari.

Immagine di copertina: 123rf