L’ecofemminismo radicale è adeguato alla sfida dei cambiamenti climatici?
Il senso dell'urgenza evocato dal presidente Mattarella richiede risposte immediate. Alla politica l'arduo compito di conciliare filosofia e scienza.
Il grido d’allarme lanciato dal presidente della Repubblica a Nairobi alcuni giorni fa (qui il testo completo del discorso) non sembra purtroppo aver suscitato la reazione che ci si aspettava. Altre urgenze, la guerra in Ucraina e la crisi di alcune banche negli Stati uniti seguita da quella della seconda più importante banca svizzera, il Credit Suisse, rischiano di far cadere l’appello nel dimenticatoio.
Eppure il tono con cui il presidente Mattarella si è espresso è drammatico, in alcuni passaggi addirittura sembra evocare gli ultimi discorsi della fondatrice di Fridays for Future Greta Thunberg, laddove afferma che “non avremo un secondo tempo” per porre rimedio alla devastante crisi climatica in fase di accelerazione.
Non solo i mass media ma anche l’opinione pubblica sembra distratta da altri problemi ritenuti a torto più impellenti. Evidente è poi il desiderio diffuso di lasciarsi alle spalle la stagione della pandemia, riprendendo la propria vita tale quale era prima dell’arrivo del Covid (ne è testimonianza il forte incremento dei viaggi per turismo).
A questo si aggiunge l’impressione che anche chi è più sensibile agli aspetti ecologici rifugga in una dimensione privatistica e localistica che oggi appare inadeguata a fronteggiare la complessità del problema. L’occasione si è presentata sotto forma di partecipazione giovedì 16 marzo a un webinar organizzato dal Centro servizi volontariato di Ancona sul tema dell’ecofemminismo con la presenza di Donatella Pagliacci, docente di Filosofia morale e Greta Mancini, professoressa a contratto presso l’Università degli Studi di Macerata, in collaborazione con l’associazione Reti culturali rappresentata da Marina Turchetti. La relazione introduttiva è stata tenuta da Alessia Belli, PhD in Politics, human rights and sustainability e autrice di Che genere di diversity? Parole e sguardi femminili migranti su cittadinanza organizzativa e sociale.
Gli spunti emersi dalla relazione, pur interessanti, lasciano trasparire una visione poco in sintonia con l’emergenza che stiamo vivendo e che il presidente Mattarella ha ben evidenziato nel discorso di Nairobi. L’ecofemminismo italiano fa riferimento ad alcune “madri”, Françoise d’Eaubonne, Carolyn Merchant, Vandana Shiva e Val Plumwood, accomunate da una radicalità di posizioni, pur differenziandosi per una diversa sottolineatura di critica verso i modelli patriarcale e occidentale, e nei confronti del concetto di sviluppo e del dualismo uomo/natura.
Il nodo fondamentale, tuttavia, ha sottolineato Belli, è rappresentato dalla critica al patriarcato che fa sì che l’uomo sottometta la donna allo stesso modo in cui sottomette la natura. Nel sistema economico patriarcale infatti “la natura non è vista come organismo vivente, ma come una macchina utile allo sviluppo e al progresso”. Il dubbio che sorge di fronte a questa visione, per alcuni aspetti condivisibile, è: per combattere la crisi climatica oggi è utile questo tipo di approccio radicale? O non rischia di rinviare ulteriormente la soluzione del problema? La consapevolezza che la nostra società sia intrisa di patriarcato, al punto che questo sia stato interiorizzato anche (a suo discapito) da buona parte del genere femminile, è ormai abbastanza diffusa, ma siamo ancora lontani dall’obiettivo del superamento di questo modello.
Riguardo invece al rischio di localismo, durante il webinar è stata proiettata una video-intervista con Etain Addey, cittadina britannica trapiantata in Italia, che dopo aver lavorato in un’azienda farmaceutica si è ritirata a vivere in una tenuta in provincia di Gubbio dove pratica il “bioregionalismo”. Questo consiste in una visione che pone l’accento sulla relazione con il luogo in cui si vive ponendosi in ascolto delle sue caratteristiche peculiari (“non ha senso coltivare castagni in un luogo in cui questa pianta non può crescere”, è uno degli esempi portati dall’attivista) e con le persone che lo abitano. Ricordiamo a questo proposito che l’ecofemminismo in alcune sue componenti e con particolare riferimento all’attivista ambientalista indiana Vandana Shiva è molto attento alla valorizzazione delle culture “altre”, in particolare delle culture indigene del Sud del mondo. “Appartenere a un luogo” è la sintesi fatta da Alessia Belli, che riecheggia in parte uno slogan degli ambientalisti di qualche decennio fa: “pensare globalmente, agire localmente”.
Ma è ancora valido oggi?
Oggi che, come ha sottolineato il presidente della Repubblica nel suo discorso, “in segmenti della società e in alcuni Paesi non è presente il senso profondo dell’urgenza e della necessità di interventi incisivi". Eppure, lo aveva sottolineato il presidente Ruto alla Cop27, in un intervento che ho molto apprezzato per lucidità e coerenza: “Di fronte alla catastrofe imminente, i cui segnali premonitori sono già insopportabilmente disastrosi, un’azione dai contorni limitati sarebbe poco saggia; l’inazione infedele e sarebbe fatale”.
Senza svalutare i riferimenti filosofici dell’ecofemminismo (nel corso del webinar è stata sottolineata da Donatella Pagliacci la necessità di riappropriarsi di una “cultura del limite”, cosa di cui si sente indubbiamente la mancanza) o l’azione dei tanti volontari che con passione e sacrificio si dedicano alla cura dei luoghi in cui abitano, ci si chiede però se tutto ciò sia sufficiente in un momento di crisi così grave e drammatica.
Occorre fare sintesi tra filosofia e scienza, tra globale e locale. Ma a chi spetta questo arduo compito? Servirebbe la Politica con la P maiuscola. Ma anche questa purtroppo appare oggi in profonda crisi.