L’India, tra dipendenza economica dal carbone e inquinamento letale per la salute
Cruciali nella lotta ai cambiamenti climatici, gli impegni annunciati dal primo ministro Modi possono contribuire allo sviluppo socio-economico del Paese, ma servono politiche coraggiose e finanziamenti internazionali.
di Maddalena Binda
Prima della Cop26 a Glasgow l’India, terzo Paese per emissioni dopo la Cina e gli Stati Uniti, era rimasto uno dei pochi Stati a non aver annunciato piani e obiettivi per il raggiungimento della neutralità carbonica, ovvero una situazione di equilibrio tra le emissioni e il loro assorbimento. Pochi giorni prima della Conferenza, Bhupender Yadav, ministro per l’Ambiente, le foreste e i cambiamenti climatici, aveva invece affermato che l’obiettivo emissioni zero stabilito da molti Paesi non potesse essere considerato come la soluzione alla crisi del clima.
L’annuncio del primo ministro Narendra Modi sull’impegno dell’India a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2070, dieci anni dopo la Cina e venti dopo gli Stati Uniti e l’Unione europea, è quindi arrivato inaspettato durante la Cop26 insieme ad altri quattro obiettivi da perseguire entro il 2030:
- raggiungere i 500 Gigawatt (GW) di fonti rinnovabili;
- utilizzare fonti non fossili per soddisfare il 50% del fabbisogno energetico del Paese;
- diminuire di un miliardo di tonnellate le emissioni;
- ridurre del 45% la carbon intensity della propria economia, ovvero la riduzione in generale delle emissioni in vari settori economici, senza concentrarsi esclusivamente sulla riduzione delle emissioni di CO2.
Necessari gli aiuti internazionali. Durante il suo intervento il primo ministro Modi ha sottolineato la necessità, per i Paesi più vulnerabili, tra cui l’India, di ricevere aiuto dai Paesi più sviluppati e maggiormente responsabili del cambiamento climatico. Il tema delle responsabilità dei Paesi più ricchi è ricorrente nei discorsi del primo ministro indiano: sebbene l’India sia il terzo Paese per emissioni di CO2, quelle pro capite corrispondo a 1.9 tonnellate all’anno, sette volte meno delle 15,5 tonnellate pro capite degli Stati Uniti. Come dimostra inoltre uno studio pubblicato a inizio ottobre 2021 da Carbon Brief sul contributo complessivo, dal 1850 a oggi, dei singoli Paesi alle emissioni causate da combustibili fossili, dall’utilizzo del suolo e dalla deforestazione sono gli Stati Uniti i maggiori responsabili con il 20% delle emissioni prodotte. Seguono Cina, Russia, Brasile, Indonesia e Germania, mentre l’India si posiziona al settimo posto.
Figura 1 I Paesi con maggiori emissioni cumulative 1850-2021 (dati Carbon Brief)
La richiesta dello stanziamento di risorse finanziarie non è arrivata solo dall’India che ha indicato mille miliardi di dollari come quantità di fondi necessari senza specificare in che misura dovrebbero essere destinati al proprio Paese, ma anche ad altri Paesi in via di sviluppo. Nel 2009, durante la Cop15 a Copenaghen, era stato preso l’impegno di arrivare, entro il 2020 a stanziare cento miliardi di dollari all’anno ai Paesi in maggiori difficoltà, ma l’obiettivo non è stato raggiunto e, secondo l’Organizzazione per la cooperazione e sviluppo economico, nel 2019 gli aiuti sono stati pari a 80 miliardi di dollari. Non è stato possibile definire nuovi target da perseguire sul tema della finanza climatica durante la Conferenza di Glasgow e la discussione è stata rimandata ai vertici ministeriali che si riuniranno ogni due anni (appositamente) tra il 2022 e il 2026.
Reazioni scettiche e ottimiste. Le dichiarazioni del primo ministro Modi hanno suscitato reazioni diverse da parte di esperti e ambientalisti. Alcuni reputano insufficienti gli obiettivi assunti dall’India che dovrebbe abbandonare il carbone entro il 2040 per poter contribuire realmente al contenimento dell’aumento di temperatura a 1.5°C. Secondo l’analisi di Climate action tracker, organizzazione che si occupa di monitorare le azioni degli Stati nella lotta ai cambiamenti climatici, i nuovi obiettivi annunciati dall’India le politiche passano da essere classificate come “altamente insufficienti” a “insufficienti”. Climate action traskect sottolinea tuttavia che i punti espressi rappresentano delle promesse vaghe e con un limite temporale limitato al 2030: non è infatti ancora chiaro quali saranno i provvedimenti che verranno intrapresi tra il 2030 e il 2070 e in che misura essi dipenderanno dai finanziamenti internazionali del Green Climate Fund.
Secondo altri, invece, gli impegni presi sono in linea con le reali possibilità dell’India di implementare una transizione energetica e con alcuni progressi raggiunti dal Paese. L’India infatti, come ha scritto Luca De Biase su FUTURAnetwork, ha dimostrato il proprio impegno, superando le aspettative sugli obiettivi stabiliti con l’Accordo di Parigi: oggi, ad esempio, l’India produce 100 GW di energia da fonti rinnovabili, traguardo che, sebbene rimanga lontano dal target di 175 GW da installare entro la fine del 2022 espresso nel Nationally determined contributions (Ndc), sembrava irrealizzabile nel 2015.
Le sfide della povertà e della decarbonizzazione. In un Paese come l’India, in cui il Pil pro capite annuo si aggirava, nel 2020, attorno a 1.900 dollari, la transizione ecologica deve tenere conto della necessità di sollevare milioni di persone da condizioni di povertà e di insufficienza alimentare che, secondo il report “The state of food security and nutrition in the world” pubblicato a ottobre dalla Fao, affliggeva, nel 2019, 189 milioni di indiani.
Lo sviluppo socio-economico del Paese comporterà un incremento della domanda di energia che, secondo le stime dell’Agenzia internazionale per l’energia, nel 2040 potrebbe superare quella della Cina. Nonostante l’aumento del tasso di urbanizzazione in India sia più lenta rispetto ad altri Paesi in via di sviluppo, l’espansione del settore dell’edilizia e delle infrastrutture contribuirà notevolmente alla crescita del fabbisogno energetico. Oggi, tuttavia, due terzi dell’energia in India sono prodotti dal carbone. Secondo i dati del Gobal energy monitor l’India è il secondo Paese, dopo la Cina e subito prima degli Stati Uniti, per numero di centrali a carbone: 281 sono in attività, 28 in costruzione e 23 in fase di progettazione. A inizio ottobre 2021, inoltre, il ministero del Carbone ha annunciato di voler raggiungere il target di un miliardo di tonnellate prodotte entro il 2024 per garantire la domanda energetica del Paese a seguito anche del verificarsi di numerosi black out negli ultimi mesi.
Tra le conseguenze principali dell’utilizzo di questo combustibile fossile, oltre alle emissioni di gas serra, c’è l’inquinamento dell’aria: nel 2020 nove delle dieci città più inquinate al mondo si trovavano in India. A metà del mese di novembre la pessima qualità dell’aria ha portato il governo indiano a imporre un lockdown nella città di New Dehli e negli stati circostanti: si sono fermate le attività edilizie, ad eccezione di quelle riguardanti le infrastrutture e la difesa nazionale, sei centrali a carbone su undici sono state temporaneamente chiuse e i lavoratori e gli studenti sono stati invitati a rimanere a casa. A contribuire al raggiungimento di livelli di smog venti volte superiori a quelli di guardia indicati dall’Organizzazione mondiale della sanità sono stati l’abbassamento delle temperature, i fuochi di artificio per la festa induista del Dwali e la pratica del debbio con cui gli agricoltori bruciano la vegetazione per rendere fertili i terreni. L’inquinamento ha ripercussioni sulla salute di tutta la popolazione indiana, esposta, senza distinzioni, a livelli non salutari di PM 2.5 e nel 2019 ha causato 1,7 milioni di morti premature. Le conseguenze si riflettono anche sull’economia del Paese: secondo le stime della Banca mondiale nel 2017 il costo della forza lavoro persa a causa delle morti per inquinamento è stato pari allo 0.3-0.9% del totale del Pil nazionale.
La transizione energetica porterebbe benefici alla salute della popolazione e all’economia del Paese. Per attuarla, tuttavia, è necessario prendere in considerazione l’impatto sull’occupazione di un processo di decarbonizzazione : la India coal limited, la principale azienda produttrice di carbone al mondo, impiega 270mila persone, ma si stima che siano milioni gli indiani che lavorano direttamente o indirettamente nel settore. Lo sviluppo delle energie rinnovabili offrirà opportunità lavorative a migliaia di persone, ma la forza lavoro richiesta dovrà essere più qualificata e distribuita geograficamente in modo diverso rispetto a quella impiegata oggi nel settore del carbone. Occorre quindi valutare le ripercussioni territoriali della chiusura delle miniere e delle centrali a carbone, che oggi si concentrano negli stati orientali, e dell’apertura di impianti di energia rinnovabili che interesseranno le aree occidentali e meridionali del Paese
La forte dipendenza da questo combustibile fossile ha portato l’India, appoggiata dalla Cina e dall’Australia, a fare pressione affinché nel Patto per il clima di Glasgow, in riferimento al carbone, la parola phase out (eliminare) fosse sostituita da phase down (ridurre gradualmente).
Nonostante questo, gli impegni presi dall’India alla Cop26 rimangono ambiziosi, ma per essere raggiunti devono essere accompagnati da politiche concrete di decarbonizzazione che tengano conto della crescente domanda energetica del Paese e delle tensioni sociali che potrebbero verificarsi a seguito della perdita di posti di lavoro nel settore e usufruiscano dei finanziamenti del Green climate fund per accelerare la transizione energetica.
di Maddalena Binda