L’impatto trascurato del metano sul riscaldamento terrestre
Due articoli dell'Economist evidenziano il ruolo del gas naturale nella crisi climatica: è un inquinante più potente della CO2. Tra le soluzioni, un cambiamento nella dieta dei bovini perché il tempo di vita non è riducibile.
di William Valentini
Quale ruolo avrà il metano nella lotta al riscaldamento terreste? A questa domanda, che da anni assilla la comunità scientifica, il periodico The Economist ha provato a rispondere con due analisi pubblicate il 3 aprile sulla rivista. L’attività umana emette nell’atmosfera molto meno metano che anidride carbonica. Tuttavia, affermano gli autori della ricerca “Governments should set targets to reduce methane emissions” pubblicata dalla testata londinese, il metano è un inquinante “più potente”. Nel corso di 20 anni, una tonnellata di gas riscalderà l'atmosfera circa 86 volte di più di una tonnellata di CO2. Di conseguenza il metano è responsabile del 23% dell'aumento delle temperature dai tempi preindustriali.
Ma se l’anidride carbonica persiste per centinaia o addirittura migliaia di anni, l’emivita – cioè il tempo di “vita” nell'atmosfera - del metano è di circa un decennio, un tempo relativamente breve per un gas inquinante. La Climate and clean air coalition, una joint venture di governi e gruppi di pressione ambientalisti, ritiene quindi che dimezzare le emissioni di metano antropogenico nei prossimi 30 anni potrebbe ridurre di 0,18 ° C la temperatura globale media nel 2050, spostando le temperature attuali dal 20% al 45% degli obiettivi di contenimento del riscaldamento terrestre fissati dagli accordi di Parigi del 2015.
Tuttavia, è difficile quantificare le emissioni di metano che ogni anno vengono immesse nell’atmosfera.
L’articolo “Those who worry about Co2 should worry about methane, too” pubblicato da The Economist stima che tra il 2008 e il 2017 siano state emesse nel mondo tra 550 e 880 milioni di tonnellate di metano all'anno, circa il 9% in più rispetto alla media registrata dal 2000 al 2006. Un ammontare compreso tra il 50% e il 60% di queste emissioni proveniva dalle attività economiche. “Grosso modo, i combustibili fossili e l'agricoltura rappresentano ciascuno un terzo, mentre il resto proviene da una combinazione di emissioni di automobili, incendi, discariche e trattamento delle acque reflue”, scrivono gli autori della ricerca.
In particolare, il bestiame e le risaie rappresentano due grandi fonti di emissioni che appaiono anche estremamente difficili da ridurre. In entrambi i casi, il gas è prodotto da microbi metanogeni che vivono, rispettivamente, nelle viscere degli animali e nei loro escrementi in decomposizione e nel suolo povero di ossigeno e impregnato d’acqua. Mucche e pecore producono da sole il 79% del metano emesso nell’atmosfera. Una fetta che equivale al 30% di tutto l’inquinamento complessivo dell’aria. Anche se la parte più consistente delle emissioni proviene dall’allevamento di ruminanti, le risaie, molte delle quali si trovano in Cina (uno dei motivi per cui Pechino è in cima alla classifica per emissioni), producono a loro volta l'8% dell’inquinamento da metano di origine umana.
In futuro, intervenire su larga scala per risolvere alcuni di questi problemi non sarà semplice: alcuni studi suggeriscono, per esempio, che introdurre negli allevamenti una dieta ricca di determinate alghe potrebbe ridurre le emissioni di metano animale fino all'80%. Un composto chiamato bromoformio, che è presente in misura abbondante in alcuni organismi vegetali subacquei, inibisce le reazioni chimiche che producono metano all'interno del rumine degli animali. Sfortunatamente, però, per ottenere un taglio consistente delle emissioni, occorre nutrire i bovini con una quantità tale di alghe che ne riduce significativamente la produzione di carne o di latte. Un altro settore dove sarà necessario intervenire per ridurre le emissioni in futuro è la gestione delle risorse e il monitoraggio delle emissioni nelle grandi aree urbane: nel 2018, ad esempio, alcune analisi aeree hanno dimostrato che diverse città statunitensi registravano emissioni di metano dieci volte superiori alle stime ufficiali riportate dall'Agenzia per la protezione dell'ambiente del governo americano.
di William Valentini