L’Italia non è un Paese per giovani (reloaded)
Bisogna capovolgere la piramide tra salario di ingresso e progressione di carriera, disegnando una nuova politica retributiva che parta dalla formazione e dalle competenze, abolendo il parametro dell’anzianità di lavoro.
di Filippo Salone
Alla vigilia del Covid l’occupazione dei giovani tra i 25 e i 34 anni era inferiore dell’8% rispetto al 2008 e negli ultimi mesi è scesa di altri due punti percentuali. Dodici anni fa l’occupazione giovanile in Italia era superiore a quella dei 50-64enni mentre oggi è più bassa, attorno al 17%.
Alcune settimane prima dell’autorevole prolusione di Mario Draghi sul futuro dei giovani e del copioso dibattito scaturitone, con Prioritalia avevamo raccolto e condiviso un’accorata richiesta di attenzione sul tema da parte di Linda Laura Sabbadini , direttora dell’ISTAT , intervenuta al webinar “La sostenibilità economica è sociale” il 14 luglio.
A confermare la perdurante e progressivamente peggiorata condizione occupazionale dei giovani italiani, amplificata dalla pandemia, sono due recenti rapporti. Il primo è il bollettino Istat “Occupati e disoccupati” di luglio 2020 che, a livello di analisi quantitativa, conferma la cupezza dello scenario: "su base annua, il tasso di occupazione diminuisce in tutte le classi d’età tranne gli ultracinquantenni per i quali è stabile; quello di disoccupazione cresce tra i minori di 35 anni e cala nelle altre classi”.
Il secondo, più focalizzato su sentiment e percezioni qualitative, è il rapporto “La Silver Economy nella società post Covid-19” realizzato dall’Osservatorio Tender Capital con il Censis, in cui emerge che “diretta conseguenza della pandemia è una netta spaccatura intergenerazionale. Nei giovani è emerso un nuovo rancore sociale alimentato e legittimato da un'inedita voglia di preferenza generazionale nell'accesso alle risorse e ai servizi pubblici legata alla visione degli over 65 come privilegiati dissipatori di risorse pubbliche".
Il Rapporto mette peraltro in evidenza come il 90,7% degli over 65 nel lockdown abbia continuato a percepire gli stessi redditi, a fronte solo del 44,5% dei millennial.
Che vi sia un’ampia fetta della popolazione giovanile inoccupata e magari arrabbiata per le poche opportunità non lo si scopre certo oggi. Su tale argomento si può menzionare per esempio l’apprezzabile lavoro di analisi demografica messo in campo da Alessandro Rosina con l’Istituto Toniolo che, anche con interventi ospitati su questo sito, ha sovente sottolineato le difficoltà dell’Italia a garantire un orizzonte radioso alle più giovani generazioni.
E pensare che già nel 2009 Rosina pubblicava il volume “L’Italia non è un Paese per giovani” in cui si parlava di “muri da abbattere” per aprire alle nuove generazioni la strada verso il futuro, come spiegato in un articolo sull’Avvenire del dicembre 2019: “A dieci anni di distanza i muri non solo sono ancora tutti lì, ma nel complesso appaiono più insormontabili. Il libro, scritto a quattro mani insieme a Elisabetta Ambrosi, nasceva come un pamphlet, con un titolo d’effetto per scuotere l’opinione pubblica. Invece negli anni successivi, complice la crisi economica, il titolo è via via diventato uno slogan che ritrae una condizione di fatto. Con il rischio ora di tramutarsi nella profezia che si autoadempie di un Paese condannato ad un ineluttabile declino”.
“L’Italia non è un Paese per giovani” è ormai un dato di fatto. Un assunto che si è quindi evoluto negli anni in vera e propria saga, degna dei successi di Matrix. Una saga alla quale anche con Prioritalia e con il sistema di rappresentanza della dirigenza abbiamo partecipato all’interno del Meeting 2018 “Costruire un patto generazionale nell’economia dell’innovazione e delle competenze”, creando una piattaforma con policy maker ed esponenti della comunità manageriale per facilitare analisi e proposte, tra l’altro, sul tema “Welfare, demografia e patto tra generazioni”.
Da quella giornata, anche sulla base di un’indagine a monte effettuata da Astra Ricerche e Manageritalia, uscì forte la consapevolezza che: “In Italia il patto intergenerazionale e sociale basato sull’assunto che le condizioni medie delle famiglie sarebbero andate sempre migliorando si è rotto da tempo. Oggi, anche a causa della crisi congiunturale della nostra economia, questo patto sociale è molto meno riconosciuto che in passato. È dunque fondamentale riaffermare la necessità di un dialogo tra le generazioni, di uno scambio di esperienze, conoscenze, entusiasmi e passioni in grado di generare reciproco valore e beneficio”.
Per i manager, due anni dopo, vista l’evoluzione delle dinamiche occupazioni e sociali generate dalla pandemia, questa è ancora di più una priorità su cui la politica deve necessariamente dare risposte e soluzioni.
Guardando alle possibili strade da intraprendere, dal Meeting 2018 emerse una proposta radicale che rilanciata oggi potrebbe generare un autentico shock in grado di abbattere quei muri sopra richiamati e superare il comodo rifugio delle dichiarazioni di intenti succedutesi negli ultimi anni.
La proposta è quella di capovolgere la piramide tra salario di ingresso e progressione di carriera, disegnando una nuova politica retributiva che parta dalla formazione e dalle competenze, abolendo il parametro dell’anzianità di lavoro.
Una più moderna regolazione del lavoro sarebbe utile ad incoraggiare nelle imprese la propensione ad assumere, a promuovere lavori di qualità attraverso l’investimento continuo nelle competenze e a riequilibrare le retribuzioni, collegandole alla produttività e non più ai cosiddetti “scatti di anzianità”.
Perché, infatti, in uno dei Paesi più anziani del globo, dobbiamo ancora continuare a premiare l’anzianità?
Introdurre degli “scatti di competenza”, agganciare le retribuzioni non più al criterio anagrafico temporale ma a requisiti di formazione e competenza, potrebbe essere la pillola rossa di questa infinita saga.
di Filippo Salone, affari pubblici Prioritalia