AI e Sud Globale: nuovo colonialismo in atto?
Investimenti ma anche lavoro sottopagato: nei Paesi a basso reddito l’AI crea opportunità, perpetrando al contempo logiche di dipendenza dai Paesi più ricchi. La Cina propone un’organizzazione globale per regolarla.
“All’interno della comunità di esperti di AI sento spesso la parola ‘democratizzazione’ riferita all’equità nell’accesso, alle opportunità e al riconoscimento che si possono ottenere, indipendentemente dal Paese di origine” scrive sul Guardian Krystal Maughan, dottoranda di ricerca all’Università del Vermont. Queste promesse, però, “avvantaggiano principalmente i Paesi con disponibilità di hub tecnologici, che non si trovano nel Sud del mondo”.
L’intelligenza artificiale riflette, e rischia di aggravare, il divario tra Nord e Sud del mondo. Gli Stati Uniti, la Cina e altri Paesi industrializzati dominano la ricerca e lo sviluppo dell’AI. Ma la maggior parte del lavoro sottopagato che alimenta questi sistemi, come gli “etichettatori di dati” (annotators in inglese) che forniscono informazioni alle AI per comprendere i contesti umani, è svolto nei Paesi del Sud globale. Una dinamica che ricorda quello che già succede con materie prime e prodotti come il cacao e il caffè: esportati a basso costi, rivenduti a prezzi alti.

Con le AI del futuro spariranno gli “etichettatori”?
I tentativi delle tech company di rendere le macchine autonome nell’apprendimento mettono a rischio i lavoratori che addestrano le intelligenze artificiali. Ma per molti esperti rimarranno necessari, a patto che il loro ruolo venga valorizzato diversamente.
In molti Paesi a basso reddito mancano le infrastrutture per sviluppare le AI: non solo le reti fisiche, ma anche le leggi e i regolamenti per la protezione dei dati e della cybersecurity. Secondo Maughan, i Paesi del Sud globale dovrebbero quindi cooperare per costruire un proprio mercato e definire un modello di sovranità comune.
La realtà, per ora, è molto diversa. Le grandi imprese tecnologiche, come OpenAI, Google, Microsoft e Nvidia, stanno rafforzando la propria presenza nei Paesi a basso reddito. In Kenya e in Ghana, ad esempio, Google sta investendo in centri di ricerca sull’intelligenza artificiale; mentre in Sudafrica il miliardario Strive Masiyiwa ha collaborato con Nvidia per lanciare il primo hub di intelligenza artificiale del continente, destinato a formare talenti locali e sviluppare modelli adatti al contesto regionale.
“I codici – non i soldi – sono il nuovo aiuto dall’estero” ha scritto sul Financial Times Maha Haosain Aziz, futurista per i rischi globali alla New York University. Nei Paesi del Sud del mondo, osserva la ricercatrice, l'intelligenza artificiale sta già svolgendo parte del lavoro che un tempo era delle agenzie umanitarie. Anche se alcuni dei progetti già avviati non sono formalmente definiti come aiuti esteri, essi forniscono infrastrutture, competenze e strumenti negli ambiti in cui i donatori tradizionali si sono ritirati.
“Ma questo lavoro non è altruismo, è strategia”, sottolinea Haosain Aziz. Le imprese cinesi si allineano strettamente agli obiettivi di sviluppo statali, mentre quelle occidentali seguono interessi commerciali. Anche se indirettamente, il risultato è lo stesso: consolidare l’influenza nazionale e la dipendenza dall’estero. Per non ripetere gli errori del passato, occorre un nuovo quadro globale che riconosca l’accesso al calcolo, le infrastrutture dei dati e i modello open source come beni pubblici.
Un segnale è arrivato dalla Cina. Durante la Conferenza mondiale sull’intelligenza artificiale, che si è svolta a Shanghai dal 26 al 28 luglio, il premier cinese Li Qiand ha proposto di creare un’organizzazione globale per regolare l’intelligenza artificiale. “La governance globale dell’AI è ancora frammentata” ha sottolineato il premier, “ci sono differenze molto grandi tra i Paesi in termini di regolamentazioni e norme istituzionali”. La Cina ha dichiarato, inoltre, di essere pronta a condividere i progressi raggiunti, in particolare con i Paesi del Sud del mondo, per evitare che l’AI diventi un “gioco esclusivo” di pochi Stati e aziende. Resta però la domanda di fondo: la democratizzazione dell’intelligenza artificiale diventerà realtà o resterà una promessa che amplificherà le già consolidate disuguaglianze tra Paesi?
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