La sfida di un nuovo orizzonte partecipativo basato sull’uguaglianza
L’ultimo saggio di Piketty dimostra come l’elemento decisivo per il progresso umano e lo sviluppo economico sia la lotta per l’uguaglianza e l’educazione, senza trascurare il tema cruciale della redistribuzione del reddito.
di Marco Bonarini
Si può o si deve riformare il capitalismo? E quale capitalismo? La domanda, gravida di pensiero e di stimoli all’azione negli anni successivi alla grande depressione del 1929, si è riproposta riacutizzata dopo la crisi del 2007, senza tuttavia produrre grandi cambiamenti in tema di finanziarizzazione delle imprese e dell’economia, relative posizioni di rendita, riforme fiscali più progressive, paradisi fiscali, separazione tra banche di investimento e banche di risparmio, e diverse altre riforme richieste e non attuate, e molte neanche ancora pensate.
Nel suo ultimo libro “Capitale e ideologia” (La nave di Teseo, 2020), l’economista francese Thomas Piketty propone una diversa distribuzione dei diritti di proprietà per superare l’attuale sistema capitalistico fondato sul principio della massimizzazione del profitto per i proprietari e sulla riduzione della tassazione pubblica, soprattutto dei grandi patrimoni.
In sintesi, Piketty ribadisce: “il modello di socialismo partecipativo proposto è fondato su due principi che mirano a superare l’attuale sistema della proprietà privata:
- da un lato, la proprietà sociale e la condivisione dei diritti di voto nelle imprese;
- dall’altro, la proprietà temporanea e la circolazione del capitale.
Combinando i due principi, si istituirebbe un sistema di proprietà molto diverso dal capitalismo privato come lo conosciamo oggi, e che costituirebbe un vero e proprio superamento del capitalismo stesso” (p. 1117).
L’autore ritiene che vi sia una correlazione tra capitale, potere e diritti di voto nelle imprese, progressività fiscale e circolazione permanente della ricchezza, che ha trovato diversi equilibri nel passato e che può trovare, nel futuro, nuovi e diversi assetti. Quali siano questi equilibri diversi, Piketty non lo dice, consapevole che non sono gli studiosi a determinare il futuro, ma le azioni e le scelte di milioni di persone che si possono coalizzare per raggiungere nuovi obiettivi, da tradurre poi in leggi e istituzioni. Così è stato nel passato e così sarà nel futuro.
Piketty è conscio dell’originalità della sua proposta di socialismo partecipativo, ma soprattutto è consapevole di due fattori decisivi:
- la struttura sociale cristallizzata in un dato tempo storico in leggi e sistemi di potere non è immutabile, ma frutto di un processo storico in evoluzione, che viene dal passato e va verso un futuro in modo non deterministico, in cerca di un equilibrio possibile tra diversi fattori, per giungere a una maggiore uguaglianza e giustizia;
- le sue sono proposte, che auspica siano sottoposte a un processo decisionale pubblico, partecipato e democratico.
Piketty, sulla base di una approfondita analisi storica (sulla base dei dati a disposizione), non assume un atteggiamento ideologico, ma mostra come nel passato alcune esperienze verso una maggiore giustizia siano già state attuate con ottimi risultati. Per esempio, ricorda (e commenta con dovizia di dati) come una tassazione molto elevata negli Usa e in Inghilterra, ma anche in Francia, dei patrimoni del 10% più ricco, abbia, in passato, ridotto le disuguaglianze e favorito la crescita, e come le attuali disuguaglianze siano determinate dalla bassa tassazione dei grandi redditi e patrimoni.
Inoltre, sottolinea come il sistema di partecipazione dei dipendenti ai consigli di amministrazione in atto in Germania e Svezia non abbia ridotto l’efficacia delle aziende, ed anzi sia ormai accettato e condiviso pacificamente sia dagli azionisti che dalla società, oltre che dai dipendenti. Queste due “rivoluzioni” del passato, trovano radici nella Costituzione degli Usa (tassa federale sul patrimonio) e della Germania (co-gestione).
La concretezza e la fattibilità delle proposte, in particolare quella di un regime di tassazione progressiva sui redditi e sul capitale (vedi cap. 17, con una proposta radicale di tassazione progressiva, riportata nella tabella), permetterebbe di:
- finanziare uno stato sociale più equo (istruzione, sanità, previdenza, reddito minimo, ecc.);
- pervenire ad una maggiore distribuzione della ricchezza, più a favore dei giovani (che propone a 25 anni di dotare di un capitale pari al 60% del patrimonio medio) per rendere ancora più dinamiche le società che l’adottino.
In un momento in cui, in Italia, le istituzioni lavorano a una riforma fiscale, facendo i conti con un debito pubblico e un’evasione fiscale elevati (l’autore ha proposte concrete anche per un tracciamento esauriente dei capitali e delle proprietà), le indicazioni di Piketty – che si rivolge in prima battuta alle forze di sinistra – possono essere utili anche per altre formazioni partitiche e della società civile che vorrebbero una maggiore giustizia sociale e una riduzione delle disuguaglianze. Anche la Costituzione italiana collega l’iniziativa economica all’utilità sociale: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (Art. 41).
Rimane il problema di declinare questo principio - sapientemente introdotto in Costituzione dai nostri padri costituenti - nella normativa e nella prassi, così da renderlo veramente effettivo.
La delicata questione della traduzione normativa dei principi di giustizia è posta con forza anche da Marco D’Eramo nel suo ultimo scritto “Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi”. D’Eramo mostra come la destra neoliberale e religiosa negli Usa abbia vinto la sua battaglia ideologica, avviata quasi clandestinamente alla fine degli anni ’50 del secolo scorso. Tale percorso ha iniziato finanziando, tramite fondazioni, corsi di impostazione neoliberista di economia, ed anche di giurisprudenza, che hanno “prodotto” – in senso letterale – quattro giudici della Corte Suprema degli Usa e oltre 200 giudici federali, tutte cariche a vita, in cui i detentori hanno fatto giurisprudenza a favore delle idee neoliberali. D’Eramo porta l’esempio di Anthonin Scalia che ha affermato: “Il trucco è usare lo Stato accortamente”, fino a giungere alla sentenza della Corte Suprema che ha riconosciuto le corporations come persone con un illimitato diritto di parola politica, e che, quindi, possono finanziare in misura illimitata i politici, con evidenti sproporzioni rispetto ai normali cittadini.
A questo punto si pone la questione del potere e del conflitto. Fabrizio Barca ed Enrico Giovannini ne parlano a più riprese nel loro libro “Quel mondo diverso. Da immaginare, per cui battersi, che si può realizzare”. La loro riflessione è frutto dell’esperienza concreta di due attori che hanno avuto importanti ruoli istituzionali e realizza un dialogo tra due culture differenti, che si pongono però obiettivi comuni.
Va, infine, notata la consonanza delle proposte di Piketty con alcuni aspetti della dottrina sociale della Chiesa; solo per fare qualche esempio, la destinazione sociale della proprietà privata (e dei beni), la scelta preferenziale per i poveri.
Papa Francesco, nella sua enciclica “Fratelli Tutti”, ribadendo il suo magistero sociale, auspica anche un cambiamento delle strutture giuridiche: «Vorrei insistere sul fatto che “dare a ciascuno il suo”, secondo la definizione classica di giustizia, significa che nessun individuo o gruppo umano si può considerare onnipotente, autorizzato a calpestare la dignità e i diritti delle altre persone singole o dei gruppi sociali. La distribuzione di fatto del potere – politico, economico, militare, tecnologico e così via – tra una pluralità di soggetti e la creazione di un sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli interessi, realizza la limitazione del potere. Oggi il panorama mondiale ci presenta, tuttavia, molti falsi diritti, e – nello stesso tempo – ampi settori senza protezione, vittime piuttosto di un cattivo esercizio del potere» (n. 171).
Papa Francesco propone la gestione intelligente e appassionata del conflitto, non la sua rimozione. Il dialogo resta lo strumento principe della gestione del conflitto, sapendo che ciascuna parte porta una parte sia del problema che della soluzione, e che occorra trovare una sintesi condivisa.
Il conflitto è inevitabile, fa parte della vita, e dunque bisogna aprire conflitti, non solo sulle questioni cruciali e l’idea di capitalismo che viviamo oggi e che vogliamo cambiare, ma anche sui contenuti e le forme che attengono alla regolamentazione giuridica per una maggiore giustizia ed equità.
di Marco Bonarini, formatore, collabora con il Dipartimento Terzo settore delle Acli nazionali.
L’articolo è già stato pubblicato il 9 dicembre 2020 su lavoce.info