Perché non credo alla svolta etica del capitalismo
Un’enorme produzione normativa è stata varata per invogliare la “grande transizione” del sistema economico. Ma il fine della produzione capitalistica resterà solo quello di remunerare il capitale investito.
di Paolo Caccari
L’amico Giovanni Battista Costa, presidente di NeXt - Nuova economia per tutti, mi onora chiedendomi una opinione sulla sua idea circa la possibilità di un superamento del capitalismo dall’interno, per così dire, capace di autoriformarsi. Un capitalismo buono, rivolto al bene comune – afferma – non è già più un sistema economico capitalista, cioè finalizzato alla massimizzazione del profitto. Giustissimo, ma se non vogliamo rimanere prigionieri di un ragionamento nominalistico tautologico, dobbiamo rispondere ad un’altra domanda: può un sistema socioeconomico fondato su una modalità produttiva di tipo capitalistico garantire il benessere di tutte e di tutti? Il capitalismo, nelle sue infinite varietà spaziali e temporali, rimane fondamentalmente una modalità di relazioni sociali produttive fondata su due istituzioni: impresa privata e libero mercato. Il terzo pilastro, lo stato, è chiamato a far funzionare al meglio i primi due.
Da qualche secolo questo schema è diventato un sistema che si è imposto a livello globale andando però in conto a diversi e sempre più gravi problemi: crisi ecologica (biocidio e cambiamenti climatici); aumento delle diseguaglianze (distribuzione asimmetrica della ricchezza sociale), della disoccupazione e dei “lavori poveri” (a chiamata, discontinui, senza tutele, ecc.); crescita delle popolazioni povere, loro ammassamento nelle megalopoli e migrazioni; svalutazione del lavoro umano; conflitti armati per l’accaparramento delle risorse naturali sempre più rare ed altre intollerabili “contraddizioni”, tra cui l’emergere di nuovi nazionalismi aggressivi e di forme di “democrazia autoritaria” (post-democrazia) vincenti sul terreno della competizione economica (vedi Cina), ma poco attrattive per chi è abituato agli standard occidentali.
Ora, anche dall’interno del mondo capitalistico, cresce la consapevolezza della insostenibilità della situazione. Non passa giorno che grandi imprenditori, amministratori delegati, Ceo e persino banchieri, soli o associati in organizzazioni di stampo filantropico, non ci grazino con dichiarazioni che perorano la causa della sostenibilità, del bene comune, delle generazioni future e persino della bellezza. Il tema del World economic forum di Davos dello scorso anno era il Great Reset (titolo anche del libro del suo fondatore Klaus Schwab). Quest’anno è un nuovo patto sociale e una New Deal per le imprese capace di “ricostruire urgentemente le basi del sistema economico e sociale per creare un futuro post-Covid più equo, sostenibile e resiliente”. Più impegnative ancora le parole di lady Lynn Foreter de Rothschild, ereditiera dell’omonimo colosso finanziario, amministratrice, tra l’altro, della società proprietaria della rivista The Economist, fondatrice di un gruppo di multinazionali chiamato Coalition for Inclusive Capitalism (tra cui British Petroleum, Saudi Armaco, Bank of America, Fondazione Rockefeller, Johns & Johnson e via dicendo) che è stata recentemente ricevuta in Vaticano dal papa in persona: “Il capitalismo ha creato una ricchezza immensa nel mondo, ma ha anche lasciato troppe persone indietro. E ha portato al degrado il nostro pianeta.
Stiamo rispondendo alla sfida di Papa Francesco di creare economie più inclusive che diffondano i benefici del capitalismo in modo equo e consentano alle persone di realizzare il loro pieno potenziale”. Attenzione, qui non si sta facendo filantropia! Doug McMillon, ceo di Walmart (la più grande catena al mondo di distribuzione organizzata), a detta di chi è bene informato, sarà uno degli uomini più ascoltati da Biden. McMillon è anche presidente della Us Business Roundtable, il gruppo di lobby aziendali più influente d’America che comprende Apple, JP Morgan, Amzon, General Motor e così via. Il loro manifesto sostiene la necessità di “combattere l’aumento estremo delle sperequazioni anche reinterpretando il capitalismo in chiave più sociale: l’azienda deve produrre benefici non solo per gli azionisti ma anche per gli stakeholders: dipendenti, clienti e la comunità circostante” (M. Gaggi, Economia & Politica del Corriere della Sera, 18.1.2021). Insomma, come titolava lo scorso anno il Financial Times, saremmo in presenza di una “svolta etica del capitalismo”.
C’è da dargli credito? In molti lo fanno. La filosofia della “responsabilità (allargata) dell’impresa” (e degli investitori) sta prendendo piede. Le politiche di sviluppo (in chiave green e resilience, si intende) della Commissione europea si basano sull’ipotesi che vi sia un interesse delle imprese a migliorare le loro performace ambientali e occupazionali. Un’enorme produzione normativa è stata varata per invogliare la “grande transizione” del sistema economico: indici Esg (Environmental Social Governance), “tassonomia” degli Impact Investing (regolamento sui Sustainable and responsible investment), classificazioni delle Corporate social responsability, etichette e certificazioni per ogni prodotto, ecc. L’idea è sempre quella: trovare dei meccanismi di mercato che rendano miracolosamente compatibili le tre “P”: Profit, People, Planet. Pardon, ora, in preparazione del G20, la “p” di Profit è stata pudicamente mutata in Prosperity. Basterà?
Non lo credo. Non solo perché c’è molto restyling e green washing nei colossi industriali e finanziari impegnati nel recuperare “capitale di reputazione”, ma perché temo che dietro l’apparenza di una autocritica vi sia una strategia di rilancio del loro potere accreditandosi presso l’opinione pubblica come capaci di risolvere i problemi che loro stessi hanno creato. Vale adire: non servono nuove regole, non serve un ruolo degli Stati più stringente, sia nella pianificazione dell’economia, sia nei controlli dell’operato degli attori. Non serve riequilibrare la leva fiscale, eliminare i paradisi fiscali, tassare gli utili finanziari, ripubblicizzare il sistema del credito… Bastiamo noi con la filantropia, con le Fondazioni bancarie, con il Terzo settore tappabuchi, con il welfare aziendale e così via, caritatevolmente operando. (Vedi l’ottima ricerca di Nicoletta Dentico, Ricchi e buoni. Le trame oscure del filantrocapitalismo, Emi, 2020).
C’è da fidarsi? Non credo. E non per le sole ragioni etiche e morali, ma per l’impossibilità strutturale, funzionale, implicita nell’impresa capitalistica di operare per qualche fine che non sia quello di remunerare il capitale investito. E non solo perché così sancisce il Codice civile di origine napoleonica e borghese (pena il fallimento e l’uscita dal sistema economico di mercato), ma perché anche l’imprenditore con il cuore più grande del mondo e di fede cristiana è obbligato a restituire con gli interessi il capitale che gli è stato imprestato. Si genera così un moto perpetuo a spirale che spinge ogni impresa a produrre sempre di più, a prezzi sempre più vantaggiosi, in competizione con gli altri produttori. La crescita del valore monetario delle merci vendute sul mercato è la misura di ogni cosa. Questo è il capitalismo. Lo si può temperare, lo si può regolare imponendo qualche laccio (rispetto dei diritti minimi dei lavoratori, dell’ambiente, ecc.), ma questo rimane. (Consiglio l’ultimo impegnativo libro del sociologo dell’economia Paolo Perulli, Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo, La nave di Teseo, 2020).
Per queste ragioni ritengo che “Una nuova economia basata sulle persone e sull’ambiente” come quella giustamente prospettata da NeXt non sia realizzabile all’interno di un ambiente economico, istituzionale, sociale e politico di stampo capitalistico.
In particolare, la trovata del "voto con il portafoglio" mi pare davvero uno slogan infelice. (Sulla presunta sovranità del consumatore ho dedicato un capitolo del libro Ombre verdi, Altreconomia, 2020). Significa forse che chi ha il portafoglio vuoto non ha diritto di voto? Che solo le persone solvibili sul mercato possono orientare l’offerta? I consumi sono sempre condizionati dall’offerta, tramite i prezzi, la pubblicità, l’industria culturale che manipola stili di vita e persino i desideri. Una reale autonomia e libera scelta delle persone potrebbe instaurarsi solo in un contesto socioeconomico comunitario, in un sistema di autogoverno delle popolazioni afferenti ambiti territoriali autosufficienti: economie di condivisione, diceva Kumarappa, economie solidali partecipate, diceva Michael Albert, in generale economie altre descritte da Roberto Mancini.
Temo che il capitalismo non possa essere né buono, né umano, né sostenibile, né nulla di diverso da quello che è: un determinato rapporto sociale di produzione che prevede strutturalmente una disparità di potere tra chi detiene i mezzi di produzione (capitali, brevetti, patrimoni...) e chi no. Ti sembrerò molto duro e vetero-comunista, ma credo che ci sia ancora molto bisogno di "conflitto" (lo scrive benissimo Bergoglio nella Fratelli tutti). In un mondo così ingiusto la "collaborazione" serve solo a chi ha il potere. Felice di essere smentito dalle magnifiche e progressive sorti del capitalismo. Per onestà intellettuale, diciamo però, che per ora, la dura verifica della storia mi sta dando ragione.
di Paolo Cacciari, deputato eletto alla Camera nel 2006 per Rifondazione Comunista