Dal futuro prevedibile alle meraviglie del possibile
Com'è cambiata la nostra idea di futuro nell'ultimo secolo? Roberto Paura ne parla in un approfondimento pubblicato su "Quaderni d'altri tempi".
L’aspirazione di prevedere il futuro è sempre più forte nei periodi di crisi. Quando le cose vanno bene, l’unica aspirazione è che quel presente continui indefinitamente nel futuro; quando le cose vanno male, cerchiamo di scrutare i segni dei tempi per capire cosa ci riserveranno i prossimi mesi o anni, animati dalla speranza di miglioramenti, ma anche mossi dalla cupa angoscia di un presente che si è trasformato in una prigione da cui fatichiamo a vedere una via d’uscita. Fu così all’epoca della Seconda guerra mondiale, quando un giovanissimo scrittore di fantascienza, chino su grandi mappe nella stanza sopra la bottega gestita dal padre a Brooklyn, seguiva giorno per giorno l’avanzare delle truppe naziste in Europa e specialmente in Russia – paese dal quale era emigrato quando aveva solo tre anni – e al tempo stesso immaginava vicende ambientate in un remotissimo futuro, dove un brillante matematico è stato in grado di scoprire una scienza per studiare l’evoluzione della storia e predire il futuro. Quel giovane, Isaac Asimov, era forse stato influenzato dagli scritti del padre nobile della fantascienza, l’inglese H.G. Wells, che nel 1902 aveva perorato la nascita di una “scienza del futuro”; o magari, più prosaicamente, dalle imposizioni del suo editore, John W. Campbell, in fissa con i collegamenti tra scienza e paranormale e convinto che la capacità di prevedere il futuro facesse parte del bagaglio di poteri latenti di ciascun essere umano, in attesa di essere riscoperti. Asimov, in ogni caso, seguì entrambe le piste. Nei suoi racconti che sarebbero andati a costituire il celeberrimo Ciclo delle Fondazioni immaginò una Prima Fondazione costituita da scienziati, intellettuali, uomini di cultura dediti a salvaguardare la scienza dell’Impero galattico da secoli di barbarie, seguendo i piani definiti da Hari Seldon, il matematico imperiale fondatore della psicostoria; ma anche una Seconda Fondazione, costituita da uomini e donne dotati di poteri mentali, in grado di custodire il Piano Seldon proteggendolo da qualsiasi deviazione grazie alla capacità di manipolare le menti di milioni di persone o anche di singoli leader. La prima, nota a tutti; la seconda, segreta.
Ottant’anni dopo, in una nuova epoca di crisi mondiale, in cui i bollettini quotidiani non riguardano più l’esito di battaglie o la conquista di città ma le infezioni di un’epidemia, Fondazione ha finalmente avuto la sua trasposizione sullo schermo, dopo aver influenzato tanta fantascienza sia cinematografica che televisiva. Le premesse c’erano tutte: l’esigenza di sollecitare l’umanità ad affrontare le sfide di lungo termine, a fare affidamento sulla scienza rispetto agli arbitrii della politica, a saper conservare la conoscenza e la saggezza del passato dalle turbolenze del presente. Ma la prima stagione della serie Foundation di Apple TV+ non ha saputo rispondere alle aspettative, preferendo un prodotto convenzionale, prevedibile in ogni sua parte e denso di tutti i cliché ormai rituali delle serie televisive dell’era Netflix; nemmeno il ruolo di co-produttrice della figlia di Asimov, Robyn, ha evitato che lo spirito stesso dell’opera paterna venisse tradito, trasformando per esempio la stessa scienza della psicostoria in una sorta di magia e mandando all’aria lo spirito profondamente razionalista (ma al contempo straordinariamente evocativo) del ciclo asimoviano. Eppure proprio il deludente esito di Foundation è un segno dei tempi, il sintomo di un’incapacità di reale innovazione e di continuo riciclo e ricalco di temi e soggetti. La serie stessa sembra proporci questa riflessione attraverso l’unica idea originale in grado di sfornare, quella della “dinastia genetica”: mentre in Asimov l’Impero durante gli ultimi anni di Hari Seldon è retto nel nome di imperatori-fantoccio da una commissione di salute pubblica manovrata dalle grandi famiglie patrizie di Trantor (la capitale imperiale), che si assicurano che tutto cambi perché nulla cambi, nella serie questo ruolo è occupato dai tre Cleon, cloni del capostipite della dinastia che, rispettivamente nelle vesti di giovane (Fratello Alba), adulto (Fratello Sole) e anziano (Fratello Tramonto), siedono sul trono ripetendo continuamente le stesse scelte, muovendo l’Impero lungo binari prestabiliti sotto l’occhio vigile e manipolatorio di Demerzel, la fedele servitrice robotica della dinastia.
I Cleon (anagramma di clone, ma a ispirare il nome ad Asimov – che non parla affatto di cloni nella sua saga – fu probabilmente l’assonanza con il nome Cleone, protagonista dell’età periclea) sono la rappresentazione di un passato che non passa, l’estrema soluzione immaginata da un uomo onnipotente di fronte all’inesorabilità della morte: come Luigi XV che mormorava après moi, le deluge! prevedendo l’imminente crisi dell’antico regime ma incapace di immaginare un ordine nuovo, Cleon il Vecchio clona se stesso e si assicura un futuro genetico privo di sorprese.
Il futuro può essere previsto se è prevedibile
Prevedere il futuro in un contesto del genere è piuttosto facile proprio perché tutte le scelte possibili sono già state prese, tutti gli eventi possibili non sono che la ripetizione in forma solo apparentemente diversa di eventi già accaduti; facile profeta, Seldon. Ed è infatti proprio quando i fattori in gioco iniziano a diventare imponderabili che il Piano va in pezzi e ogni capacità previsionale si scontra con l’ignoto.
Succede anche in Foundation, benché solo in apparenza: gli sceneggiatori vorrebbero colpirci con svolte imprevedibili che sorprendono gli stessi tessitori dei grandi eventi (Seldon, i Cleon, Demerzel), ma lo spettatore sbadiglia di fronte alla prevedibilità dei colpi di scena. Difficile replicare, invece, la tensione della scena di Fondazione e Impero in cui, mentre l’ologramma di Seldon rendiconta ai leader della Fondazione l’esito di una Crisi che non si è mai verificata, a poco a poco i protagonisti (e con loro i lettori) si rendono conto che il Piano è deragliato dai suoi binari, finché la notizia dell’arrivo in orbita della flotta del Mulo – l’imprevedibile wild card della psicostoria – getta nel panico il pubblico della Volta del Tempo. È lì che si respira, d’un tratto, quella scossa elettrica che sempre avvertiamo quando capiamo che “il tempo è fuor di sesto” e la marea della Storia, che credevamo di dominare, ha assunto improvvisamente un altro corso, nel quale potremmo rischiare di naufragare. È lì che va in pezzi il futuro presente (un’espressione della sociologa Barbara Adam), o quello che Stuart Kauffman ha chiamato il possibile adiacente, ossia un panorama di novità che tuttavia è diretta filiazione dell’esistente, come tale prevedibile. A sostituirlo è l’Estremistan teorizzato da Nassim Nicholas Taleb, l’evento estremo che da “eccezione da nascondere sotto il tappeto” diventa “punto di partenza” nell’epoca turbolenta in cui viviamo, dove “il futuro sarà sempre meno prevedibile” (Taleb, 2014).
È ciò che H.G. Wells non riuscì a immaginare nel suo discorso nel 1902 alla Royal Institution, oggi finalmente per la prima volta pubblicato in italiano con il titolo La scoperta del futuro per la collana Nautilus della LUISS University Press, introdotto da Simone Arcagni. Scelta anch’essa rivelatoria, perché il sogno di una scienza del futuro come quella patrocinata da Wells e a cui Asimov diede vita nelle sue opere di fantascienza è tornato oggi in auge grazie agli sviluppi della scienza dei big data. Ad accomunarli c’è la pervicace fede nella capacità delle scienze esatte di svelarci una realtà che, nei suoi intimi aspetti, è essenzialmente quantificabile e misurabile, come tale conoscibile:
“Tutta la matematica applicata si risolve in calcoli utili a prevedere cose che altrimenti potrebbero essere previste soltanto tramite esperimenti. Anche in una scienza non scientifica come l’economia ci sono state delle previsioni. E se sono corretto nel dire che la scienza mira alla profezia, e se lo specialista di ogni scienza sta in effetti facendo del suo meglio per profetizzare nei limiti del suo campo, cosa ci impedisce di costruire sul la base di questo insieme di previsioni e di creare un’immagine ordinata del futuro che sia altrettanto certa quanto ciò che è strettamente scientifico, e forse altrettanto dettagliata quanto l’immagine che è stata costruita degli ultimi secoli del passato geologico?” (Wells, 2021).
Di cosa parliamo quando parliamo di futuri
C’è un punto, ne La scoperta del futuro, che è oggi molto più importante del sogno positivista della previsione del futuro, vale a dire l’allarme che il grande scrittore di fantascienza lanciava sul rischio di una società con lo sguardo sempre più rivolto al passato e meno al futuro, sulla base del fatto che, quanto più il futuro si fa incerto (e questo è vero, come si è detto, soprattutto in tempi di crisi e turbolenze estreme), tantopiù appare rassicurante rivolgere la nostra attenzione al passato, vale a dire a ciò che conosciamo. Il rischio che l’ormai diventi prevalente sul non ancora.
“Eppure (…) è ancora il passato che domina le nostre vite. Ma perché? Perché siamo così legati a esso? È verso il futuro che andiamo, il domani è la cosa ricca di eventi che ci aspetta. Là giace tutto ciò che dev’essere ancora sperimentato da noi, dai nostri figli e da tutti coloro che ci sono cari. Eppure sistemiamo e ordiniamo in classi gli esseri umani interamente sulla base del passato; traiamo vergogna e onore dal passato; il futuro non ha diritti nei confronti degli interessi acquisiti, degli accordi, del diritto alla proprietà e dell’ordine costituito del passato. (…) Le nostre abitudini, come i nostri pensieri, sono tutti retrospettivi. Viaggiamo su strade così strette che soffocano il nostro traffico; viviamo in case scomode e poco adatte, in cui sprechiamo la vita per amore di forme e modi familiari e per paura della stranezza; tutti i nostri affari pubblici sono soffocati da confini locali impossibilmente ristretti e limitati. I nostri vestiti, le nostre abitudini linguistiche, la nostra parlata, i nostri pesi e misure, la nostra moneta, la nostra religione e le nostre teorie politiche, tutto testimonia il potere vincolante del passato sulle nostre menti” (ibidem).
È chiaro il perché, come ci ricorda Wells: il passato è il luogo della memoria, che possiamo navigare a volontà, per quanto incerti possano essere i nostri ricordi; il futuro è il luogo dell’assoluta incertezza. Per compensare questo squilibrio, Wells si spingeva ad affermare che gli eventi del futuro fossero tanto certi quanto quelli del passato: ma è proprio quest’assunto che sarebbe stato sconfessato dagli sviluppi successivi dei futures studies.
Lo racconta chiaramente Jennifer Gidley, già presidente della World Futures Studies Federation, nel suo libro Il futuro. Una breve introduzione, pubblicato in originale nella collana “Very Short Introduction” della Oxford University Press e ora disponibile in italiano nell’edizione dell’Italian Institute for the Future. Gidley contrappone al “futuro predittivo-empirico” di Wells e dei futurologi positivisti altre quattro tipologie di futuri che si contraddistinguono per una crescente apertura verso dimensioni sempre meno prevedibili del domani.
Futuri al plurale, perché il punto di partenza è proprio la smentita della tesi di Wells secondo cui il futuro sia un blocco predeterminato tanto quanto il passato. Se, analogamente a Wells, Gidley e gli esperti di futures studies sono consapevoli che il grande problema dell’umanità consista nel non riuscire ad attribuire al futuro un’importanza equivalente a quella del passato, limite da cui oggi scaturiscono i grandi problemi del nostro tempo, vale a dire l’incapacità di affrontare sfide di lungo termine come i cambiamenti climatici (alla lunga in grado di condurci persino all’estinzione), la soluzione individuata è diametralmente diversa rispetto a quella wellsiana, che oggi è rappresentata dai nuovi positivisti della Silicon Valley, con la loro fede nel “datismo” (Harari, 2018) e nel transumanesimo, coloro che Gidley chiama “neo-cornucopiani”, per i quali il futuro è una cornucopia di abbondanza e ricchezza. La soluzione consiste invece nel ricercare futuri nuovi, diversi, radicalmente alternativi rispetto al presente; futuri che oggi sono silenti, seppelliti sotto la grande narrazione tecno-utopista, ma a cui spetta ai futuristi dare voce.
Ecco allora che i nuovi approcci dei futures studies si dividono rispettivamente in “futuri critici”, “futuri culturali”, “futuri partecipativi” e “futuri integrali”.
I primi, spiega Gidley, puntano a “equilibrare gli approcci predittivi di molti futuristi statunitensi e il loro predominio nel complesso militare-industriale” attraverso un approccio “smaccatamente normativo” che ha per oggetto i cosiddetti “futuri preferiti (o desiderabili)”: vale a dire, non concentrarsi più su quello che è più probabile che accadrà, ma su quello che vogliamo che accada. L’approccio dei futuri culturali “analogamente all’approccio critico sfida il paradigma culturale dominante e lo estende esplorando modelli di civiltà alternativi”, a partire da una critica serrata al concetto di sviluppo e promuovendo al contempo futuri femministi e giovanili (una rassegna di questo approccio è in Pellegrino, 2019).
L’approccio ai futuri partecipativi è orientato a promuovere “l’empowerment e la trasformazione attraverso l’impegno e la partecipazione”, dando voce a chi non ha voce e consentendo loro di immaginare futuri alternativi, come nel classico modello dei Future Workshop promossi da Robert Jungk (cfr. Pellegrino, 2020). Infine, più recente e dibattuto è l’approccio – di cui la stessa Gidley figura tra le principali esponenti – dei futuri integrali, orientato a massimizzare “il potenziale per facilitare futuri desiderabili a carattere planetario”, integrando prospettive diverse.
Abitare nella possibilità
Possiamo distinguere oggi tra due diversi modi pensare il futuro. Il primo è quello, decisamente più popolare, che identifica il futuro nel progresso tecnologico e traccia una traiettoria considerata naturale, una versione moderna degli stadi del progresso di Auguste Comte o degli stadi di sviluppo di Walt Rostow: tutte le società sono destinate ad approdare dapprima a uno stadio post-industriale e da qui a uno stadio tecno-umano, caratterizzato dalla completa fusione di natura umana e tecnologica, fino all’approdo a un qualche livello di postumanità dove la tecnologia consente di trascendere i limiti naturali (cfr. Kurzweil, 2008). Il secondo promuove invece la messa in discussione di questo modello unilineare di progresso attraverso la proposta di alternative in cui lo sviluppo tecnologico è subordinato (o al più strumentale) a un autentico sviluppo umano.
Questa divisione è frutto della “scissione radicale fra sviluppo tecnico-scientifico e miglioramento morale”, come scrive il filosofo Roberto Mordacci in uno dei capitoli dell’opera collettanea pubblicata da Laterza Il futuro. Storia di un’idea, dove 55 intellettuali italiani presentano ciascuno un esempio di come è mutata l’idea di futuro nel tempo. Quello di Mordacci è tratto dal Frammento sull’Atlantide di Condorcet, esponente del tardo illuminismo già prossimo a sfociare in positivismo, che però, avendo fatto a modo suo la Rivoluzione francese (che gli costò la vita, ma non rimpianti), aveva ben chiaro come i due binari del progresso – scientifico e sociale – dovessero andare di pari passo e quanto fondamentale fosse, per il raggiungimento di un simile obiettivo, una società libera, che oggi ci appare scontata ma che ai tempi di Condorcet rappresentava un futuro radicalmente diverso dall’esistente.
È interessante osservare quanto i diversi capitoli dell’opera curata da Laterza siano più vicini al secondo modo di pensare il futuro rispetto al primo. Più che un’opera sull’idea di futuro, si tratta di un’opera sull’idea di possibile: che è forse un termine che andrebbe usato più frequentemente come sinonimo di futuro, parola fin troppo abusata. Dalla Repubblica di Platone alla Città di Dio di Agostino, dalle invenzioni di Leonardo da Vinci all’Utopia di Thomas More, dallo Spaccio della bestia trionfante di Giordano Bruno al Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friederich Engels, abbiamo a che fare in tutti i casi con proposte di mondi possibili che si oppongono a quelli presenti. Utopie che in molti casi nascondono distopie, certamente; giustamente Jennifer Gidley nel suo libro osserva che è proprio in seguito alle derive totalitarie assunte dal pensiero utopico nel Novecento (e trasposte in romanzi futuristici e inquietanti come Il mondo nuovo di Aldous Huxley e 1984 di George Orwell) che l’utopia ha perso la sua carica di attrattiva nell’immaginario contemporaneo. Ma è vero anche che è proprio attraverso rotture radicali col presente che la storia ha potuto uscire da quella logica claustrofobica dei “corsi e ricorsi” preconizzati da Giambattista Vico, ossia da un corso sostanzialmente prevedibile, smentendo l’idea di futuro predeterminato e lineare. Così ci ricorda, per esempio, la storica Simona Colarizi commentando il Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni:
“Per secoli il continente era stato un campo di battaglia tra gli imperi che ciclicamente avevano stretto alterne alleanze per combattere gli uni contro gli altri; e la storia si era ripetuta all’infinito, malgrado tanti regni si fossero trasformati in repubbliche, gli imperi in nazioni, gli Stati assoluti in Stati costituzionali, le autocrazie in regimi liberali. Spinelli, Rossi e i loro compagni di prigionia erano convinti che a spezzare questa catena servisse una visione del futuro che, sfidando la storia e la realtà del presente, disegnasse un nuovo continente unito e libero per sempre dalle guerre. Mai come in quel momento ciò sembrava impossibile, ma i confinati erano animati dalla stessa certezza di Max Weber che aveva scritto: «il possibile non sarebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile». Sarebbe diventato il loro motto” (Colarizi in Autori vari, 2021).
Utopia, quella di un’Europa senza guerre, senza muri, fili spinati e frontiere, dove quella libertà di circolazione sognata da generazioni di esuli politici diventa realtà; ma prima ancora una visione del futuro che l’azione nel presente rende possibile. Così è stato anche con il Rapporto Beveridge (analizzato da Gianni Toniolo e Giovanni Vecchi), che rese possibile il welfare state moderno, con un’assistenza garantita a tutti i cittadini “dalla culla alla tomba” e una drastica riduzione della povertà nei paesi occidentali. Oppure con gli elettrodomestici come la lavatrice (discussi da Emanuela Scarpellini), che hanno liberato generazioni di casalinghe dalle fatiche dei lavori domestici e gradualmente reso possibile l’emancipazione di genere destinata a spezzare il modello soffocante del male breadwinner, dietro il quale si sono nascosti per secoli oppressioni e violenze domestiche.
Allora quali sono oggi i nuovi “possibili”? Il futuro. Storia di un’idea ce ne presenta alcuni. Per esempio quello di Matrix, dove certo le macchine hanno ridotto l’umanità in schiavitù, prigioniera di una simulazione informatica; ma in cui non manca la riflessione su futuri alternativi “nei quali la tecnologia dovrà essere al servizio dei molti e non dei pochi, strumento di valorizzazione e miglioramento del lavoro umano, rispettosa dell’ambiente, al servizio dei più deboli, sensibile alle decisioni della democrazia” (Juan Carlos de Martin). Oppure i futuri dispotici di Black Mirror, di cui Luca Barra coglie soprattutto la portata del medium rispetto al messaggio:
“Black Mirror riesce ancora a darci una lezione sul futuro, o meglio sul presente: quello di un immaginario e una creatività che cercando la libertà totale dai vincoli e dalle mediazioni della televisione e dei «vecchi» media si ritrova nel contesto digitale ancora più costretta dai lacci invisibili degli algoritmi e dei motori di raccomandazione; quello di una società che si accontenta di comode scelte apparenti e solo fintamente neutre; e quello in cui è proprio una piattaforma globale basata sui dati come Netflix a farsi carico di raccontare un futuro possibile in mano proprio ai dati e alle piattaforme. Guardando lo schermo acceso, o spegnendolo e fissando il nostro riflesso nello schermo oscuro, non potremo dire che Black Mirror non ci aveva avvertito” (Barra, in Autori vari, 2021).
Ambiziosi sono anche gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile per il 2030 delle Nazioni Unite, che per Donato Speroni rappresentano soprattutto una “bussola” per orientare l’umanità nel suo incerto viaggio nel territorio inesplorato del futuro. Fine della fame e della povertà, istruzione per tutti, ambiente pulito e riequilibrio delle sperequazioni reddituali sono alcuni “futuri preferiti” che l’Agenda 2030 sprona a realizzare. È singolare che in questo libro ci sia spazio anche per Asimov, ma non con il Ciclo delle Fondazioni quanto con un’opera meno nota ma di grande fascino, La fine dell’eternità, presa in esame da Alessandro Portelli. Asimov pubblicò questo romanzo quando ormai aveva già completato le storie del ciclo classico e aveva abbandonato il progetto perché gli era venuto a noia: ogni volta una Crisi, ogni volta le due Fondazioni che trovano il modo di riportare la storia lungo il corso tracciato dal Piano Seldon. Quanto a lungo poteva funzionare? Con La fine dell’eternità mise in discussione questo schema, immaginando una casta di uomini fuori dal tempo, gli Eterni (uomini, perché si tratta di una casta maschilista al limite della ginofobia), che vegliano sul continuum spazio-temporale assicurandosi che tutto vada come deve andare, nei secoli dei secoli. Spinti dal nobile e utopico obiettivo di assicurare pace e benessere all’umanità, gli Eterni in realtà realizzano una distopia radicale dove all’umanità è sottratta ogni libertà, privata com’è di ogni possibilità di autodeterminazione.
Il parallelismo tra gli Eterni che vegliano segretamente sul Tempo e la Seconda Fondazione che veglia segretamente sul Piano Seldon è lampante, così come la scelta del protagonista, Andrew Harlan, di opporsi a tutto ciò fino a distruggere l’Eternità prefigura le scelte successive di Asimov di abbandonare – nei grandi sequel e prequel degli anni Ottanta al Ciclo delle Fondazioni – la fede in quello che Gidley definirebbe il futuro predittivo-empirico.
Nell’analisi di Portelli scorgiamo una morale ancora perfettamente attuale: “Sarà l’eccesso di sicurezza, l’assenza di pericoli e rischi, a rallentare l’evoluzione del genere umano e a causarne l’estinzione finale” (Portelli, in Autori vari, 2021). La conclusione che possiamo trarne è che non dobbiamo augurarci né un futuro più certo né più prevedibile, quanto un futuro la cui intrinseca imprevedibilità non precluda all’umanità ogni speranza, ma apra piuttosto a nuove dimensioni del possibile; il che implica, ovviamente, l’impegno nel presente per definire, anziché subire, il futuro.